Da Eleusi a Dioniso,
da Orfeo alla Sfinge in libreria è boom di saggi che indagano
religioni e culti iniziatici dell’antica Grecia. E che parlano
soprattutto di noi.
Silvia Ronchey
Tutti pazzi per Delfi,
il ritorno degli oracoli
Quando san
Paolo, nel tredicesimo capitolo della prima lettera ai Corinzi, parla
dell’iniziazione ai misteri cristiani, descrive così la condizione
umana: «Ora vediamo attraverso lo specchio di un enigma», “per
speculum in aenigmate”. «Poi, vedremo faccia a faccia». Lewis
Carroll usò l’espressione «attraverso lo specchio» (Through the
Looking Glass) come titolo del secondo volume di Alice nel paese
delle meraviglie, che è un trattato sui misteri dell’antichità
(quelli eleusini per esempio: pensiamo al neonato che si trasforma in
maiale nella cucina della Duchessa), anche se viene considerato un
libro “per piccoli”. Come del resto altri libri simili della
seconda metà dell’Ottocento, tra cui il Pinocchio di Collodi, a
sua volta ispirato da una precedente narrazione dall’apparenza
fiabesca, in realtà iniziatica, le Metamorfosi di Apuleio.
Non è un caso. “Piccolo” era nel mondo ellenico il nome in codice del “non iniziato”, di chi attendeva l’iniziazione: «Quando ero piccolo ( parvulus) parlavo da piccolo, conoscevo da piccolo, ragionavo da piccolo. Ma ora che sono adulto ( vir), ciò che era da piccoli l’ho eliminato ». Anche la parola “enigma”, che compare subito dopo, è una parola spia. Era “per enigmi” che la parte più profonda e più mistica, “misterica” appunto, della religione greca veniva comunicata a chi attendeva l’iniziazione.
Per enigmi parlava la Pizia a Delfi. Il santuario di Apollo, attivo almeno fin dall’VIII secolo a.C., come spiega Michael Scott ( Delfi. Il centro del mondo antico, Laterza, pagg. 368, euro 25), era l’omphalos, il cordone ombelicale attraverso cui il profondo viaggio mistico della religione ellenica teneva collegato il solare mondo greco all’oscuro grembo della tradizione misterica ancestrale. Physis kryptesthai philei, «la natura ama nascondersi», ammoniva Eraclito; e aggiungeva: «L’oracolo non dice né nasconde: dà segni» ( semainei), come riferisce nel De Pythiae oraculis Plutarco.
«Guarda, ritornano, uno per uno, / con passo incerto, solo a metà svegli», scriveva Ezra Pound in quella magnifica poesia intitolata Ritorno. Oggi gli dèi della Grecia ritornano in un corteo di libri sui culti e i misteri del loro antico regno. Oggi, nel revival della storia delle religioni, ritorna l’interesse per il paganesimo mistico e profondo, come nel vecchio Rinascimento, ora anche nel nuovo.
Se il solare Apollo suggeriva la sua conoscenza attraverso un tenebroso intreccio di parole, da districare a costo della stessa vita, anche Gesù nel Vangelo — spiega Maurizio Bettini ( Il grande racconto dei miti classici, Il Mulino, pagg. 503, euro 48) — formula enigmi quando recita le sue parabole. Come quella del seminatore, che i discepoli non comprendono: «Se non capite il significato di questa parabola, come farete a capire tutte le altre?», li rimprovera Gesù. «Il seminatore semina la parola»: solo una piccola parte del seme non muore. Lo sapeva André Gide.
È la risoluzione dell’enigma per eccellenza, quello della Sfinge, creato da un uomo, rivolto a un altro uomo, che ha per soluzione l’uomo — Simone Beta, Il labirinto della parola. Enigmi, oracoli e sogni nella cultura antica (Einaudi, pagg. 347, euro 32) — a gettare Edipo nella condizione esistenziale ancora più fittamente misterica che lo rende il protagonista del mito greco più famoso al giorno d’oggi, l’alias di ciascuno di noi, la maschera primaria del gran teatro del mito su cui si proietta il mistero universale dell’inconscio.
«Conosci te stesso», recitava la scritta sul frontone del tempio di Delfi, e per quante interpretazioni ne siano state date, da Platone all’Oracolo di Matrix, quasi nessuno ha in seguito dubitato che il mistero del mondo giaccia nel profondo dell’io, in sotterranei della coscienza simili all’adyton dov’era conservata, sotto la pavimentazione marmorea del tempio, la sacra pietra che indicava il centro del mondo.
Plutarco, sacerdote delfico, forse il più grande conoscitore della religione ellenica, in un altro dei suoi dialoghi pitici fa discutere gli interlocutori sul significato dell’altrettanto famosa e di Delfi, «offerta sacra al dio» inscritta tra le colonne frontali del tempio. Le interpretazioni dei dialoganti sono ancora più misteriose, forse, della scritta. La più amabile è quella di Nicandro, secondo cui sta per ei, la particella interrogativa “se”.
Come testimoniato da Petronio e ricordato da Eliot in exergo alla Terra desolata, la Sibilla cumana, alla domanda «Cosa vuoi?», rispondeva: «Voglio morire ». La “morte al mondo”, stato di trance per la sacerdotessa, era anche condizione perché il fedele potesse fruire dell’insegnamento segreto dell’oracolo: «L’anima è nell’ignoranza tranne quando si trova nel processo di morte. Perciò anche il verbo “morire” e il verbo “essere iniziato” si somigliano», recita un frammento di Plutarco sui Grandi Misteri eleusini.
Morte e vita unite insieme in una sola esperienza iniziatica, l’epopteia, in cui l’immortalità coincide con l’espansione della coscienza che muore al principio d’individuazione: è il segreto, o almeno uno dei segreti, dell’iniziazione più impenetrabile del mondo antico, quella di Eleusi, dove la morte non è peraltro solo condizione metaforica di uscita dall’io, ma è anche attuata materialmente nel sacrificio umano che occhieggia dalla sterminata profusione di inquietanti quanto reticenti testimonianze pagane e cristiane (ora integralmente raccolte nell’antologia Eleusis e Orfismo. I Misteri e la tradizione iniziatica greca, a cura di Angelo Tonelli, Feltrinelli, pagg. 639, euro 14) su «quelle peripezie terribili, brividi, tremori, sudore e sbigottimento » che nell’immenso telesterion di Demetra, non lontano dalla Pietra Senzasorriso, il 20 del mese di Boedromione, al termine di un’interminabile processione orgiastica, metteva in scena la discesa agli inferi di Persefone e la sua rinascita nel ciclo primaverile della terra.
L’immagine della Madre e della Figlia, la spiga mietuta dallo ierofante, la melograna rosso sangue, il sacro accoppiamento, le altre “cose indicibili”, la Grande Luce che tutti descrivono lampeggiare “in alternanza” dal sottomondo di tenebra: il dramma sacro eleusino, residuo di riti dell’antica religione femminile — meno quella di Iside, di cui ci parlano Apuleio e Collodi, che quella dell’antica Dea Bianca di Graves — non dava al miste “un insegnamento”, ma, come spiega Aristotele, “un’impronta”, un marchio: «L’iniziato non deve apprendere qualcosa ma raggiungere una certa condizione psichica», disporsi a uno stato di coscienza alternativo, altrimenti irraggiungibile e da allora irreversibile, cui non necessariamente concorreva il kykeon, la bevanda sacra dei misteri, forse dotata di proprietà psicotrope, ma che certamente, come esplicitato anche nelle lamine orfiche, abbatteva la strutturazione dell’io in una promessa di immortalità “felice e beatissima” e tanto più dolce in quanto già attuata nella morte- in-vita.
«Nella religione degli
antichi greci si manifesta la facoltà di vedere il mondo nella luce
del divino. E le forme nelle quali questo mondo si è manifestato
divinamente ai greci non dimostrano forse la loro verità nel fatto
che vivono ancora oggi? », scriveva nel 1929 Walter Otto ( Gli dèi
della Grecia, ripubblicato da Adelphi, pagg. 343, euro 42). Anche
dopo la fine del paganesimo, anche se, come denunciò Plutarco, «il
grande Dio Pan è morto», il mito greco è rimasto vivo.
Se qualcosa è cambiata,
non è stata certo la psiche umana, ma la la sua capacità di
collegarsi a quel “tutto” con cui secondo san Clemente di
Alessandria i Grandi Misteri di Eleusi avevano a che fare; a quella
che i neoplatonici avrebbero chiamato l’anima del mondo: la sua
“religione”, da “religo”, legare. Gli dèi dell’antichità
sono scomparsi solo in apparenza. Si sono inabissati nel profondo
dell’inconscio collettivo, per riaffiorarne continuamente: come
sintomi, ha intuito Jung, perché il mito e il sintomo sono la stessa
cosa, perché «se vogliamo studiare la sofferenza umana», come ha
detto James Hillman, «dobbiamo studiare il mito».
La Repubblica – 2 marzo
2016
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