Le vivide «Visioni»
della monaca tedesca dell'XI secolo, un ricco palinsesto di animali,
edifici, citazioni e allusioni bibliche e apocalittiche.
Gianfranco Ravasi
Ildegarda di Bingen
(1098–1179)
Badessa tra i leopardi
Non esitava a
tessere un rapporto epistolare amichevole, lei monaca benedettina,
con Federico Barbarossa, nonostante la Chiesa detestasse
l’imperatore. Ma non temeva di attaccarlo quando egli aveva
sostenuto l’elezione di due antipapi contro il legittimo Alessandro
III, il senese Rolando Bandinelli. Stiamo parlando della “Sibilla
renana”, come fu definita Ildegarda di Bingen, monaca benedettina,
nata in Assia nel 1098, donna di straordinaria genialità,
paradossalmente alimentata anche da una sorta di emicrania permanente
che la rendeva un’ardita visionaria, badessa dal polso fermo e fin
autoritario, viaggiatrice e predicatrice sorprendentemente autonoma
in un mondo maschilista.
Eppure, mentre era ancora
in vita, nel 1147 (morirà nel 1179), nientemeno che un papa, il
pisano Eugenio III, leggerà durante il sinodo di Treviri brani del
suo capolavoro, Scivias. È proprio quest’opera, articolata in
tre libri di visioni e rivelazioni, a costituire il pannello centrale
del trittico di scritti ildegardiani – gli altri sono il Libro dei
meriti della vita e il Libro delle opere divine – che ora vengono
tradotti dal latino e didatticamente proposti e rielaborati da Anna
Maria Sciacca.
La studiosa accompagna il
lettore attraverso il necessario apparato introduttorio ed
ermeneutico perché chi legge queste pagine è come se si affacciasse
su un abisso di luce, dove si ergono palazzi quadrangolari, si
ramificano numerologie da decrittare, si agitano leopardi, leoni,
lupi, orsi, cervi, agnelli e strisciano serpi e granchi, si procede
lungo tappe cosmiche. Ma soprattutto si aprono orizzonti
mistico-teologici disegnati su un palinsesto di citazioni o allusioni
apocalittiche bibliche. Confessa, infatti, Ildegarda: «Per volontà
divina il mio spirito nella visione sale fino alle stelle, in alto
sopra le differenti regioni, in luoghi lontani da dove resta il mio
corpo».
Parole che descrivono
il significato etimologico dell’“estasi” per cui il carnale si
trasfigura in spirituale. Basti soltanto ascoltare questa invocazione
incastonata nella X visione di Scivias: «Signore, dammi per tua
forza il dono del fuoco, che in me estingua la passione della
perversità, per bere con giusti sospiri all’acqua della fonte
viva, che mi faccia godere della vita eterna, io che sono cenere e
polvere, che guarda più alle opere delle tenebre che a quelle della
luce».
Il testo scritto o
dettato rivela questo intreccio dinamico che potrebbe essere espresso
con un bellissimo e curioso aggettivo usato da Ildegarda,
symphonialis: è la “sinfonia”, l’armonia che sa incrociare il
mondo e la persona, la materialità e l’anima, il finito e
l’assoluto, il transito dalla turbida nubis, la nebulosa torbida
del peccato, allo splendore cristallino dello spirito puro ove
echeggia la voce divina rivelatrice.
In questa linea
l’abbadessa era riuscita nelle sue varie opere a spaziare senza
imbarazzo anche nell’orizzonte della botanica trasformandosi in una
sorta di erborista; conseguentemente non aveva esitato ad applicarsi
alla farmacopea vegetale approdando alla medicina, tant’è vero che
una delle sue opere s’intitola Liber subtilitatum diversarum
creaturarum, bipartito in un trattato di Physica e in un De causis et
curis; era affascinata dalla poesia, dalla musica e persino da forme
teatrali e si era consacrata pure all’esegesi di testi cristiani
classici come la Regola di s. Benedetto e il Simbolo di fede di s.
Atanasio. Ma, spezzate le reti pur fulgide della sua razionalità, si
slanciava verso i cieli dell’intuizione e della contemplazione
pura.
È appunto questo il caso
delle sue visioni, un arcobaleno mistico che proprio in Scivias –
titolo enigmatico, probabile anagramma del latino Scito vias Domini,
“conosci le vie del Signore” – si dispiega in tutte le sue
iridescenze cromatico-tematiche.
Non per nulla il codice
archetipo della tradizione manoscritta di quest’opera –
conservato a Wiesbaden nella Hessische Landesbibliothek fino al 1945,
quando fu distrutto da un incendio (per fortuna esisteva una
fotoriproduzione) – è costellato da 35 miniature che cercano di
cristallizzare in scene pittoriche l’incandescenza visionaria
dell’autrice, dimostrando, così, quella “sinfonialità” tra
visibile e invisibile, tra esperienza terrena e ascesi trascendente.
Non siamo, perciò,
in presenza della pura e semplice attestazione di una vicenda
spirituale personale ma di una parabola apocalittica che cerca di
rispondere ai quesiti radicali sul senso dell’essere e
dell’esistere umano ma che si affaccia anche sul divino. Infatti
l’itinerario simbolico dell’opera s’incrocia col mistero
cristiano: dalla Trinità all’incarnazione di Cristo, dalla Chiesa,
corpo di Cristo, alla Gerusalemme celeste, dall’eucaristia alle
Scritture, dalle virtù all’escatologia.
Proprio per questo, da un
lato, è necessario lasciarsi conquistare, trasportare e persino
cullare dalle immagini, ma d’altro lato, bisogna trapassarle e
allertare l’intelligenza per seguire la filigrana teologica sottesa
che la stessa Ildegarda si premura di esplicitare. Ecco un esempio
dedicato al tema trinitario: «La luce senza origine, cui nulla
manca, è il Padre. La forma d’uomo di color zaffiro, senza macchia
d’imperfezione, invidia e iniquità, indica il Figlio ... Tutta
questa luce, ardente di un fuoco dolcissimo, privo di ogni forma di
arida e tenebrosa mortalità, rappresenta lo Spirito Santo, grazie al
quale l’Unigenito di Dio fu concepito secondo la carne ... Lo
Spirito infonde nel mondo la luce del vero splendore».
Ci siamo soffermati
sull’opera più nota, Scivias, ma di Ildegarda in questo volume
sono raccolti altri due testi. Innanzitutto il Libro dei meriti della
vita che mette in scena il conflitto tra i vizi che irretiscono e
conquistano la creatura umana, e le virtù che vi si oppongono. Lo
sguardo della santa – canonizzata nel 2012 da papa Benedetto XVI
che l’ha proclamata anche Dottore della Chiesa– si proietta
sull’oltrevita, puntando soprattutto sul purgatorio, l’unico
stato aperto alla descrizione, essendo temporale e quindi transitorio
e narrabile, mentre inferno e paradiso, essendo sotto il regime
dell’eterno, sono solo pensabili ma non rappresentabili. Anche per
la catarsi purgatoriale è, comunque, la visione il canone
descrittivo, come accade pure per la sequenza malefica dei vizi
affidati a ben 35 visioni.
Il trittico offerto
da Anna Maria Sciacca si conclude col Libro delle opere divine,
anch’esso affidato all’approccio visionario e destinato a
illustrare l’azione divina a partire dall’incipit della creazione
fino all’explicit dell’escatologia. Un’imponente architettura
cosmica regge queste pagine (si leggano i passi descrittivi dei venti
la cui rosa è, però, simboleggiata attraverso un pittoresco
bestiario), un atlante che ha il suo asse centrale nel Creatore.
Dalla lettura della
trilogia ildegardiana si esce ammirati e frastornati al tempo stesso,
ed è curioso tentare – come è stato fatto e lo si ripete ora in
questo volume – una comparazione sinottica con la Divina Commedia
ove i contatti, però, più che essere diretti sono da ricondurre
alle matrici e alle fonti comuni a cui l’abbadessa e Dante
attingevano per i loro differenti percorsi intellettuali, poetici e
spirituali.
Il Sole 24Ore – 4
settembre 2016