07 ottobre 2016

L' AMERICA DI BRUCE SPRINGSTEEN



Esce «Born to run» di Bruce Springsteen, non solo autobiografia ma anche storia di un tempo e di un luogo, l'America operaia e giovanile degli anni '60 e '70.



Alessandro Portelli



Pastorale springsteeniana. L’America del Boss

«Le parole vorticavano impetuose come una tempesta, schiantandosi l’una contro l’altra senza ritegno»: è Bruce Springsteen che parla del suo primo disco. Ma vale anche per questo libro, Born to run (Mondadori). Springsteen è anche un artista della parola; e la prima cosa che si chiede a un libro è che sia un atto di parola sostenuto, competente e godibile. Questo lo è: non la solita autobiografia di star – anche se a volte rischia di scivolarci dentro – descrizioni di concerti, cene con i Vip… – ma un’autobiografia vera.

Da un’autobiografia ci si aspetta in primo luogo che la persona che scrive di sé sia anche rappresentativa, che la sua sia anche la storia di un tempo e di un luogo. La città di Freehold, le case e le mezze case della famiglia Springsteen le tocchiamo, le sentiamo, le odoriamo, con tutti quelli che ci vivono dentro.

La musica è la chiave con cui Springsteen spiega questo mondo, ma questo mondo è anche la chiave che ci fa capire come nasce la musica. L’entusiasmo – la notte, le ragazze, le macchine – di tante canzoni di Springsteen acquista profondità e ambiguità perché sullo sfondo dei luoghi e nel futuro dei personaggi stanno periferie proletarie dove vivere, fuggire, tornare: «Per raccontare la loro vita occorreva un mix tra il romanticismo cupo e violento del doo-wop, il vigoroso realismo del soul e quella vaga promessa di ascesa sociale offerta dalla Motown.
L’atteggiamento alternativo degli Stones e dei loro colleghi negli anni Sessanta non rispecchiava l’esperienza di quei ragazzi. E chi se lo poteva permettere? C’era da lottare, stringere i denti, lavorare, proteggere ciò che era tuo, restare fedele ai tuoi compagni, ai tuoi antenati, alla famiglia, al territorio, ai fratelli e sorelle greaser, alla patria. Erano queste le cose che ti rimanevano quando tutto il resto si sgretolava, quando le mode passavano e mettevi incinta la tua ragazza, quando tuo padre finiva in galera o perdeva il lavoro e toccava a te rimboccarti le maniche».

In secondo luogo, ci aspetta la ricostruzione di un percorso: come l’io narrato diventa l’io narrante. Avevano ragione i suoi genitori, scrive Springsteen: la possibilità che «il quindicenne foruncoloso di Freehold, New Jersey, con la sua chitarra Kent da due soldi» sarebbe stato l’unico a salire un giorno sul palco coi Rolling Stones, suoi idoli adolescenziali (e davanti a centomila romani al Circo Massimo) era «una su un milione». Come è successo? «Non ero nato genio. Per sopravvivere in quel mondo avrei dovuto metterci tutto me stesso, l’astuzia, le doti musicali, la presenza scenica, l’intelligenza, il cuore e la volontà». Genio, diceva Thomas Edison, è «uno percento ispirazione, novantanove percento sudore». «Ho lasciato abbastanza sudore sui palchi di tutto il mondo da riempire almeno uno dei sette mari», scrive Springsteen.

È l’etica operaia trasferita nella musica (gli Steel Mill: «musica operaia, fragorosamente chitarristica con sonorità di matrice Southern rock»); ma è «sudore» anche il lavoro mentale, l’intelligenza: «la mia Asbury Park era un’isola di disadattati e colletti blu, intelligenti ma non intellettuali» (il corsivo è mio!).

Ma il sudore non è tutto: quell’un percento, che Springsteen chiama «talento» è intangibile e inspiegato. Dice una canzone di Iris Dement: «let the mystery be», accettiamo il mistero. E un po’ di mistero è bene che rimanga anche qui.
Infine, ci si aspetta un percorso di conoscenza di sé, un modo per esplorarsi scrivendo. C’è una parola inattesa che ricorre più volte: «rabbia» – accumulata nell’infanzia cattolica, covata ed esplosa da suo padre nel silenzio e nella birra, interiorizzata e repressa fino a inquinare i rapporti più profondi: un «abisso in cui rabbia, paura, sfiducia, insicurezza e una misoginia di matrice famigliare facevano a pugni con le mie doti migliori».

C’è una felicità, scrive, che è «la sorella allegra della depressione». Come l’euforia delle canzoni giovanili stava sullo sfondo della violenza di classe, così lo Springsteen atletico e vitalistico che vediamo sul palco è anche l’esorcismo di depressioni ricorrenti e curate con l’analisi e i farmaci, e con il lavoro di scrivere questo libro.

«Ho passato la vita a combattere, studiare, suonare e lavorare, perché volevo ascoltare e conoscere tutta la storia, la mia storia per potermi liberare dalle sue influenze più deleterie Non so se ci sono riuscito, il diavolo è sempre dietro l’angolo, ma so che è quanto mi sono impegnato a fare da giovane, con me stesso e con te».


Il manifesto – 5 ottobre 2016

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