22 ottobre 2016

GLI SCHIAFFI DI ARDENGO SOFFICI AL 900


Soffici e il Novecento. A Firenze una mostra ricostruisce l’opera (e le polemiche) del critico-pittore. Accanto alle tele di Courbet e di Segantini, anche Cézanne che insegnò all’artista a vedere le cose da una prospettiva moderna. A noi la sua figura piace perchè, pur nell'estrema diversità delle posizioni politiche, ne apprezziamo la grande coerenza. Critico verso il regime negli anni della guerra e della sconfitta (ma non verso Mussolini che seguì con Marinetti a Salò), non nascose mai il suo pensiero di fascista disincantato ma convinto. Uno "schiaffo al secolo", appunto.

Roberta Scorranese
Schiaffo al secolo

Quanti schiaffoni sbatacchiano il primo Novecento. «Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno», recita il Manifesto dei Futuristi, italianissimo ma uscito su «Le Figaro» nel 1909. Schiaffi dipinti, quelli della Rissa in galleria di Boccioni, dell’anno dopo, e schiaffoni veri, quelli che nel 1911 lo stesso Boccioni assesterà in faccia a un critico secco e sulfureo, seduto in un caffè di Firenze e reo di aver definito «delusione sdegnosa» la mostra dei Futuristi allestita a Milano. Ecco, Ardengo Soffici, il critico preso a ceffoni, è la somma di tutti questi schiaffi.
Nato nel 1879, il fiorentino aveva appena un anno in più di Guillaume Apollinaire ma l’irruenza di una lingua che prova a cimentarsi con la violenza è la stessa. È un verme crepuscolare che si raggricchia in una goccia di fosforo/ Ogni cosa è presente, scrive il ragazzo di Rignano sull’Arno che a 21 anni, sul principio del secolo, se ne va a Parigi, affrontando mesi di «miseria, freddo e fame», come scriverà. Che cosa cercava? Uno schiaffo, ovviamente.
Non era soltanto l’ansia della rottura con la tradizione, che attraverserà buona parte del movimento futurista. Soffici rimase sempre molto legato alla sua terra e ai suoi riti. Lo «schiaffo» che cercava era piuttosto uno strumento, un modo di comprendere e raccontare il mondo che stava cambiando. Perché, a Parigi, il giovane Ardengo non aveva solo cercato di «proporre qualche disegno più o meno spiritoso ai giornali umoristici o licenziosi». Aveva anche studiato da vicino artisti come Paul Cézanne, al quale dedicherà uno scritto denso in «Vita d’arte», nel 1908. Soffici, che non era solo un pittore ma era anche uno scrittore, un elaboratore di teorie, notò la grande novità cezanniana: lo sguardo simultaneo sulle cose, il mostrare la realtà non come è (la prospettiva rinascimentale) e nemmeno soltanto come potrebbe essere (l’impressionismo), bensì come la vediamo noi. Le mele disposte in modo irregolare sopra a un tavolo (che secondo i dettami brunelleschiani potrebbero cadere da un momento all’altro), sono il modo con cui noi, sporgendoci al di sopra, le possiamo osservare realmente, con i nostri limiti come la posizione o il campo visivo.
Soffici capì che il solo concetto di velocità (che pure innervava tutto il Futurismo) non bastava a spiegare il mondo che stava nascendo. Nel saggio del 1920 Primi principi di una estetica futurista, del 1920, accenna a questo superamento e parla di un mondo che doveva Assonanze In alto Paul Cézanne, Paesaggio, 1885-1887. Sotto, Ardengo Soffici, Natura morta, 1939 tenere conto della simultaneità (pensiamo a quanto è importante oggi) e delle conseguenze stesse della velocità, come il fatto che qualcuno deve necessariamente rimanere indietro (e oggi la globalizzazione dimostra dolorosamente l’esattezza di questa intuizione). Soffici comprese che lo «schiaffo» vero del Novecento non poteva accontentarsi di uccidere il passato. Deve anche preparare una nuova sensibilità, pronta ad affrontare i cambiamenti.
Così anche la sua veste critica non si fermò mai alle stroncature, come dimostra Scoperte e massacri - Scritti sull’arte, la raccolta di articoli per La Voce e Lacerba che dà il titolo alla mostra degli Uffizi — uscita nel 1919 da Vallecchi. Un testo in cui, sì, c’erano ceffoni (critiche anche a Michelangelo), ma dove c’era anche il tentativo di rifondare l’arte con Courbet, Rosso o l’amato Cézanne.
Fu questa lungimiranza astorica che lo portò a vedere nei dipinti di Rousseau il Doganiere un rimando alla purezza del quattrocentesco Piero di Cosimo e ad apprezzare quelle tele del francese che pochi volevano? Fu questa sensibilità fuori dal tempo a farlo scendere in campo, nel 1955, per la liberazione di Ezra Pound? — il poeta era stato rinchiuso nel manicomio criminale di Washington dopo il sostegno al regime fascista.
E chissà quale demone dell’inconscio lo indusse a smarrire la preziosa copia dei Canti Orfici che l’amico Dino Campana gli aveva amorevolmente messo nelle mani. Per la cronaca: Campana dovette fare appello alla sua malandata memoria e ricostruire da zero l’opera più importante della sua vita, che poi uscì nel 1914. Scoperte, massacri e messaggi subliminali. L’amico Prezzolini lo aveva detto chiaro: «Va preso e lasciato com’è, Soffici, seddiovole».

Il corriere della sera/La Lettura – 2 ottobre 2016


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