03 ottobre 2016

IL TEATRO DI SIMONE CARELLA


Simone Carella e il teatro del Tremila

E alla fine se n’è andato, Simone Carella. A guardarlo lì, smagrito nel letto di un ospedale di Roma, non sembrava più lui, finché gli occhi un po’ spersi si facevano di nuovo attenti e ti guardava. E allora eccolo di nuovo lì, a fare capolino da una faccia scavata che non sembrava la sua, e a dire, senza riuscire davvero a parlare, con quella noncuranza sorniona che lo contraddistingueva, “Oggi non va, ci vediamo domani”.
E come fare, adesso, a raccontarlo Simone Carella? A raccontare le tante incarnazioni che ha avuto? Regista, artista sperimentale, organizzatore, agitatore culturale. Sempre in movimento eppure sempre legato a quella Roma che, se ancora vale la pena, è anche per l’impronta lasciata da gente come lui. Gente curiosa, attenta, gente per cui il gesto artistico è sempre legato agli altri, al teatro inteso come “noi” prima che come “io”. Persone che aprono spazi dove provare, sbagliare, ricominciare, spazi dove sentirsi a casa. C’è n’è sempre meno di quella gente. Oggi, con la scomparsa di Simone, c’è n’è drammaticamente ancora meno.
In questi giorni in tanti hanno provato a riassumere la parabola umana e artistica di Simone Carella, catapultato dalla provincia barese alla Roma delle cantine, protagonista di tanti luoghi, momenti, azioni che hanno segnato la storia – e il mito – della cultura della nostra città: il Beat 72, il festival di poesia di Castelporziano, Carmelo Bene, la Gaia Scienza (leggetevi Andrea Cortellessa su Doppio Zero, Simone Nebbia su Teatro e Critica, Paolo Brogi sul Corriere, il ricordo bello e dolente che Lucia Calamaro ha mandato alla commemorazione laica che si è tenuta al Teatro India, nel caso lo pubblicasse).
In tanti hanno provato a mettere a fuoco dei pezzi di quell’esistenza singolare e straordinaria che sarà importante continuare a raccontare, per chi non l’ha vissuta. Lo stesso Carella lo stava facendo, con un libro pubblicato di recente per Stampa Alternativa («Il romanzo di Castelporziano», scritto con Paola Febbraro e Simona Barberini), ma anche con un progetto che proprio il Teatro India doveva ospitare, che avrebbe coinvolto i protagonisti della stagione teatrale che anche lui aveva contribuito ad animare, a renderla il mito che è diventata nel tempo.
Quella stagione io non l’ho conosciuta, per limiti d’età (sono nato nel 1978). E quindi il Simone Carella che ho conosciuto io appartiene alle sue ultime incarnazioni: gli esperimenti di quella video-enciclopedia del presente che era E-Theatre (realizzati con Areta Gambaro), che ha cercato di fare memoria di un’arte che per definizione si dissipa nel qui e ora; il vitalismo irregolare di Poetitaly, che ci ha ricordato che la poesia e materia viva, urbana, distante mille miglia dall’immaginario polveroso in cui tanti ancora la confinano. Ovviamente il Teatro Colosseo.
Ecco, già queste iniziative, tutte così aperte, tutte così generose, danno un’idea – minima – di chi era Simone Carella. Del perché è stato un punto di riferimento per più di una generazione di artisti, senza mai incappare neppure per sbaglio nella spocchia che alle volte si portano dietro quelli che hanno vissuto una stagione straordinaria. Alle volte i miti si consumano nell’atto stesso di raccontarsi, tanto più a Roma, una città che stritola tutto come uno schiacciasassi e che dimentica scientificamente, trattandoti, dopo i canonici 15 minuti di gloria, come il famoso marziano di Flaiano.
È in momenti del genere che a volte i rapporti tra le generazioni, tra le arti, tra gli spazi, si convertono a un’asfittica logica identitaria. Ma questa sensazione, con Carella, non la avvertivi mai. Era talmente radicata in lui la convinzione che il teatro – e la poesia – è soprattutto le persone che lo fanno (che lo hanno fatto, che lo faranno, che lo stanno facendo ora), che ogni steccato immaginato o immaginario si scioglieva rapidamente come neve al sole.
Con quel suo modo di fare, con quell’aria leggermente beffarda mista a una curiosità sincera, a una militanza artistica schietta e presenzialista, Simone Carella è stato forse l’unico ad aver traghettato un po’ dell’entusiasmo della sua generazione verso le sponde di quelle successive. Semplicemente perché non ha mai smesso di esserlo, un entusiasta. Un entusiasta scazzato, smaliziato, scoglionato, ma sempre innamorato del teatro che si fa e delle persone che lo fanno.
Io non posso che ricordarlo con i miei occhi, ovvero in uno degli ultimi avatar di quella straordinaria sequenza di incarnazioni che è stato Simone Carella. Infagottato in un improbabile trench marrone, quando veniva al Rialto, che quindici anni fa era un po’ il catalizzatore di quella scena che pure lui ha contribuito a far crescere, a guardarsi spettacoli bellissimi o bruttissimi, geniali e sconclusionati. I teatranti più giovani, che in certi casi nemmeno sapevano chi fosse, a volte non capivano perché questo tizio col trench marrone li avvicinasse per dire che cosa pensava dello spettacolo.
Lui, invece, nemmeno se lo poneva il problema, perché si sentiva naturalmente in contatto – a prescindere – con tutto quello che succedeva di interessante a Roma. Era, più che una questione intellettuale, una questione di famiglia. La sua famiglia, quella degli artisti che continuano a fare arte nonostante tutto. Che crescono nelle crepe di questa città malata come la gramigna, che si arrampicano dove possono e lo fanno a prescindere e in modo beffardo. Come il suo saluto, “A Grazià”, che diceva tutto, che era allo stesso tempo gentile e strafottente. Un connubio impossibile, come il materiale di cui è fatta quella Roma degli sperimentatori, degli artisti squattrinati, degli intellettuali sognatori e senza patria, che come il famoso calabrone riesce a volte a volare proprio perché non è consapevole di non poterlo fare.
Se un’immagine di lui va consegnata, come è giusto negli articoli che scriviamo per cercare faticosamente di contrastare il lavoro della morte, io scelgo quella di un convegno di qualche anno fa, uno di quei convegni con cui critici, operatori, artisti amano sfasciarsi la testa periodicamente. La Crisi con la “c” maiuscola, quella che ci attanaglia tuttora, era iniziata da poco e tutti si riempivano la bocca di profezie apocalittiche, in una sequela di pianti e stridor di denti che suonavano le campane a morto del teatro pubblico, vittima di tagli di budget continui, e con lui della sperimentazione che certo non può permettersi di sottostare alle leggi del mercato. Il momento, in effetti, era fosco, anche se nessuno immaginava quanto ancora più nero sarebbe diventato.
Così, quando toccò a lui parlare, Simone Carella spiazzò tutti allontanandosi dal coro delle cassandre, e dicendo qualcosa che, se la memoria non mi inganna, suonava pressappoco così: “Io non lo so dove si farà il teatro tra cinquant’anni. Non so nemmeno se ci saranno ancora i teatri. Ma chissenefrega. Il teatro si farà ovunque, si continuerà a fare pure tra mille anni. Magari si farà sulle astronavi, sulle stazioni spaziali. Io, anzi, vorrei proprio vederlo questo teatro del Tremila. Magari sarà fatto di cose che oggi non riusciamo a immaginare, che nemmeno si possono capire. Ma sarà comunque bello andarselo a vedere”.
Se la morte annulla le leggi dello spaziotempo così come noi lo conosciamo, mi piace allora immaginare che Simone sia andato a fare una capatina da quelle parti, su quelle astronavi di cui parlava, dove si fanno spettacoli che non si possono nemmeno immaginare, a fare quello che in fondo ha sempre amato fare, ovvero guardare il teatro che ancora deve essere scritto, lontano dalle etichette, dalle burocrazie, dalle istituzioni e vicino esclusivamente al fuoco dell’arte, che è in fondo l’unica trascendenza che un artista sia in grado di immaginare. E di consegnare al mondo.

Articolo pubblicato sabato, 1 ottobre 2016, da   http://www.minimaetmoralia.it/

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