16 ottobre 2016

ARIOSTO IMMORTALE




Gli errori (deliberati) e il meraviglioso, così Ariosto creò una realtà parallela.

Chiara Fenoglio

Il cavaliere resistente

Italo Calvino (il più ariostesco, insieme a Borges, tra gli autori novecenteschi) era solito dire che l’Orlando Furioso contiene tutto il mondo e che in questo mondo è inscritto a sua volta un libro che vuol essere mondo: nel rispecchiamento e nella rifrazione, come nel labirinto per Borges, Calvino fonda il rapporto tra «mondo scritto» e «mondo non scritto». La metafora del libro della natura ha peraltro una lunga tradizione, dall’idea medievale che il cosmo sia il libro attraverso cui Dio ci parla, a quella rinascimentale portata a compimento da Montaigne che vi vede lo specchio da scrutare per conoscere se stessi. Un mondo che nel capolavoro ariostesco, di cui si celebrano i 500 anni dalla prima edizione, si configura nell’immagine della corte estense.

E proprio alla corte di Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, è in corso la mostra Cosa vedeva Ariosto quando chiudeva gli occhi? che celebra l’immaginario e la visionarietà del poeta ponendo in dialogo la sua opera con dipinti, sculture, libri, armi e oggetti rari capaci di restituire l’universo culturale e artistico in cui Ariosto si muoveva, come avviene con il corno d’avorio dell’XI secolo, in cui è tradizionalmente riconosciuto l’olifante suonato da Orlando a Roncisvalle.

Si tratta di una mostra policentrica, proprio come il Furioso, poema del movimento, della dilatazione e della dispersione, e insieme poema della visione e dell’illusione, della trasfigurazione onirica della realtà: se per Caldèron de la Barca la vita è sogno, per Ariosto il sogno consente di descrivere la realtà proprio in forza della sua inconsistenza. Il poema è «finzion d’incanto» che fa apparire «rosso il giallo», ma in assenza del quale tuttavia nessuna esperienza del mondo sarebbe possibile. Nel Furioso ogni forma, ogni corpo, ogni parola emerge «con l’evidenza della cosa reale» ma, come ha osservato Vittorio Sereni, sfugge a chi tenti di ghermirla «rivelando la propria aerea sostanza».

Il favoloso è lì, solido ed evidente nei nostri sogni, ma scompare come un fantasma appena riapriamo gli occhi. Dunque in questo breve battito di ciglia, l’immaginario si proietta sulla realtà e fornisce una misura al mondo: ogni immagine, come ogni ottava, è lo spazio che Ariosto attraversa per organizzare il caos, contenere la pura estensione della materia nei confini ordinati del poema, emblema di un mondo e di una società ideali.

L’incanto naturalmente è fallace, nasconde i «felici errori» che Leopardi addebita ad Ariosto, le belle favole, gli «strani pensieri» in cui il poeta si rifugia, e che costituiscono dal punto di vista del moderno una regressione nel mito e nel meraviglioso: ma sono anche, secondo questo Leopardi, un errore liberamente assunto da Ariosto, per proteggerci dai guasti e dai mostri della storia. Così nella Minerva che scaccia i Vizi dal giardino delle Virtù di Mantegna, ammirata da Ariosto nello studiolo d’Isabella d’Este, ritroviamo le stravaganze che Ruggiero incontra nel regno di Armida nel canto VI: da Astolfo mutato in mirto, alla «strana torma» di alcuni esseri che «dal collo in giù d’uomini han forma, /con viso altri di simie, altri di gatti; /stampano alcun’ con piè caprigni l’orma; /alcuni son centauri agili et atti; /son gioveni impudenti e vecchi stolti, /chi nudi e chi di strane pelli involti». Analogamente, per le descrizioni delle battaglie Ariosto attinge al vasto repertorio di combattimenti e di cavalieri medievali, di tradizione francese e non solo, che dal San Giorgio di Paolo Uccello giungono fino al Gattamelata di Giorgione. L’immagine di Angelica è compresa e plasmata a partire da due modelli femminili assai diversi: la Venere botticelliana i cui capelli si intorcono come i nodi d’amore e la Giuditta guerriera di Marco Zoppo.

Ultimo dei romanzi cavallereschi e primo dei romanzi moderni (in anticipo di cent’anni su Cervantes, con cui la mostra si chiude), il Furioso connette il tempo mitico dei «cavallieri antiqui» alle vicende a lui contemporanee, alle guerre tra Francesco I e Carlo V per l’egemonia nel nord Italia, ma soprattutto connette il tempo perduto del sogno alla realtà.

E lo fa con un linguaggio naturale, una discorsività alta capace di giocare con gli «accessori inessenziali del linguaggio» già descritti da De Sanctis. Grazie a questo stile, plasmato sulle regole di Pietro Bembo, Ariosto crea il «puro e dolce idioma nostro, /levato fuor del volgar uso tetro», grazie al quale il Furioso è giunto fino a noi, fino alla riproposizione teatrale di Sanguineti-Ronconi, alle riletture di Calvino e di Celati.

Il poema dell’armonia descritto da Croce è diventato il poema della mobilità e dell’intrico, scomposto e ricomposto, come la fortuna scompone e ricompone le vicende umane, con infinita varietà del possibile: il vero protagonista di questo poema del vagabondaggio, è quel teatro del mondo che aveva trovato nella corte rinascimentale la sua incarnazione più vitale.


Il Corriere della sera – 8 ottobre 2016

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