08 ottobre 2016

M. RECALCATI SUL "TRADIMENTO" DI BENIGNI




Tranne gli inizi (Tele Vacca e il Cioni Mario), non ci è mai molto piaciuto Benigni. Ricordiamo il suo “La vita è bella” come una delle cose più brutte viste al cinema. Non ci piace la sua comicità marchettara da toscano furbo (si tratti di Dante, della Madonna o della Costituzione), da italiano che “tiene famiglia” , bene attento a non mettersi mai controvento. Ma, detto questo (e precisato che voteremo NO), pensiamo che abbia come chiunque altro il diritto di esprimere le sue opinioni senza essere linciato in rete. Forse qualcuno non ha capito che si tratta di un referendum costituzionale, massimo esempio di democrazia (per chi ci crede), e non di prove tecniche di guerra civile.


Massimo Recalcati

Il “tradimento” di Benigni


La scadenza per il voto sul referendum costituzionale si avvicina e, come è normale, il dibattito politico si infiamma. In ogni referendum che ha marcato il passo, il paese si è inevitabilmente diviso (monarchia e repubblica; divorzio, aborto). Accade in democrazia che vi sia una maggioranza e una minoranza.

La cosa che più mi colpisce non è quindi né l’infiammarsi del dibattito politico, nè la divisione del paese, ma un sintomo che manifesta una grave malattia che ha da sempre storicamente afflitto la sinistra (ora pienamente ereditata dal M5S). Ne ha fatto recentemente le spese Roberto Benigni aspramente attaccato per la sua presa di posizione a favore del Sì. A quale grave malattia mi sto riferendo? Si tratta della malattia (ideologica) del “ tradimento”. Anche una parte del fronte di sinistra del No ne è purtroppo afflitta. Non coloro che ragionano nel merito dei contenuti della riforma non condividendoli (come provò a fare con cura Zagrebelsky in un recente confronto televisivo con Matteo Renzi), ma coloro che vorrebbero situare il confronto sul piano etico impugnando, appunto, l’antico, ma sempre attualissimo, tema del tradimento degli ideali.

L’accusa patologica di tradimento implica innanzitutto l’idea di una degradazione antropologica del traditore, di una sua irreversibile corruzione morale. Non un cambio di visione, non la formulazione, magari tormentata, di un giudizio diverso, non l’esistenza di contraddizioni difficili da sciogliere, non il travaglio del pensiero critico. Niente di tutto questo. Il traditore è colui che ha venduto la propria anima al potere, al regime, al sistema.

È l’accusa che risuona oggi, non a caso, nella bocca di diversi intellettuali schierati per il No rivolta verso quelli che sostengono le ragioni del Sì: venduti, servi, schiavi dei “poteri forti”. Non a caso agli inizi della campagna referendaria Il fatto quotidiano ne pubblicò addirittura una lista di 250 per mostrarne l’indegnità e la consistenza risibile. L’accusa è che il traditore abbia subdolamente cambiato idea o abbia condiviso un’idea ingiusta per difendere avidamente i propri interessi personali. Il che lo rende moralmente ancora più infame. Egli ha barattato in modo sacrilego la purezza assoluta dell’Ideale con la volgarità interessata e meschina del proprio Io. Ambizione personalistica, prevalenza dell’individuale sul collettivo, incapacità di servire umilmente la Causa perché l’attaccamento “borghese” al proprio Io prevarrebbe cinicamente sul senso universale della storia e sulle sue ragioni.

Questo fantasma del tradimento non anima evidentemente solo la vita politica della sinistra — recentemente Alfano fu accusato da Berlusconi e dai suoi di alto tradimento, come Hitler accusò alcuni suoi generali dissidenti, o, per fare un esempio un po’ più modesto, la Lega inveii con il Trota impugnando le scope che avrebbero dovuto ripulire il partito dall’ombra della corruzione — .

E, tuttavia, è proprio a sinistra che esso trova il suo terreno di attecchimento più fertile. Perché? Perché l’accusa di essere un traditore degli Ideali è un sintomo tipico della sinistra? Tocchiamo qui la radice profondamente stalinista di questa cultura che è dura a morire. Ogni uomo di sinistra — quale io mi ritengo d’essere — dovrebbe provare a fare sempre i conti con questa radice oscena. Dovrebbe sforzarsi, innanzitutto soggettivamente e non solo collettivamente, di confrontarsi con il suo carattere scabroso, anti-liberale e anti-libertario: dovrebbe provare a fare sempre attenzione allo stalinista che c’è in lui per lavorarci contro, per impedire che questo grave morbo lo accechi e lo condizioni nella sua azione.

La radice inconscia del fantasma del tradimento porta alle estreme conseguenze un principio che appartiene a sua volta al fondamentalismo insito nel concetto “marxista” di militanza. La Causa obbliga alla spogliazione di sé, al sacrificio assoluto della propria individualità, alla soppressione del pensiero critico come un bene superfluo e borghese. Il traditore della Causa è insopportabile perché sancisce invece il ritorno dell’Io e della sua puerile meschinità laddove l’affermazione militante del collettivo avrebbe dovuto estirparne ogni ambizione soggettivistica. Se una personalità pubblica di sinistra oggi difende le ragioni del Sì, le accuse di incoerenza (ma come? prima era per il no ed ora ha cambiato opinione?) ne ricoprano, in realtà, altre ben peggiori.

È il caso tipo di Benigni: lo fa per avere contratti, soldi, potere, riconoscimenti o, peggio ancora, perché è servo della finanza, delle banche, dell’Europa dei burocrati o degli Stati Uniti imperialisti, o di chissà quale altro, non meglio identificato, “potere forte”. Lo fa, insomma, perché si è smarrito moralmente. Vizio storico, ancestrale, primario della sinistra anti-liberale, anti-libertaria e anti-riformista. È la corruzione etica a spiegare la ragione ultima del ragionamento politico, nel senso che quest’ultimo non è altro che il frutto di un calcolo cinico e puramente strumentale del “traditore”.

In esso non c’è nessun senso del bene comune, nessun senso della Causa, ma solo un incontenibile protagonismo narcisistico dell’Io. Ai tempi di Stalin questo portava dritti verso il plotone di esecuzione oppure verso i campi di rieducazione (il modello maoista fu, in questo, un esempio notevole di applicazione della pedagogia autoritaria al servizio dell’ideologia). Oggi, in un sistema democratico, conduce tendenzialmente alla diffamazione. La corruzione morale non viene soppressa con la morte, ma con il linciaggio mediatico. La lista dei degenerati attende sempre di essere completata con una tessera in più.

La Repubblica – 7 ottobre 2016

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