17 ottobre 2016

E. POUND E IL NAUFRAGIO DELL'OCCIDENTE

Ezra Pound giovane
 
Rendi forti i vecchi sogni
perché questo nostro mondo non perda coraggio
  a lume spento

E. Pound vecchio


Giorgio Agamben

Pound, non finisce mai il naufragio dell’Occidente


Non si comprende l’opera di Pound se non la si colloca innanzitutto nel suo contesto proprio. Questo contesto coincide con una frattura senza precedenti nella tradizione dell’occidente, una frattura da cui l’occidente non soltanto non è ancora uscito, ma nemmeno potrà farlo se non sarà prima in grado di misurarne la portata in ogni senso decisiva. Dopo la fine della prima guerra mondiale era, infatti, chiaro per chi avesse mantenuto la lucidità, che qualcosa di irreparabile si era prodotto in Europa e che il nesso tra passato e presente si era spezzato.

Che i primi a rendersene conto siano stati i poeti e gli artisti non deve stupire, poiché è ad essi che incombe in ogni tempo la trasmissione di ciò che vi è di più prezioso: la lingua e i sensi. Non si può nemmeno porre il problema delle avanguardie poetiche del Novecento se non s’intende preliminarmente che esse sono il tentativo di rispondere – con maggiore o minore consapevolezza secondo i casi – a questa catastrofe: esse non hanno a che fare con la poesia e con le arti, ma con la loro radicale impossibilità, col venir meno delle condizioni che le rendevano possibili.

La trasposizione in termini estetico-mercantili della crisi epocale che si era espressa nelle avanguardie è, per questo, una delle pagine più vergognose della storia dell’occidente, di cui i musei di arte contemporanea rappresentano oggi l’estrema e più ignava propaggine. Ciò in cui ne andava della stessa possibilità della sopravvivenza dell’uomo in quanto essere spirituale viene ridotto a un fenomeno di moda e liquidato una volta per tutte in forma di produzione di nuove merci […].
Soltanto in questo contesto l’opera di Pound – almeno a partire dai primi Cantos – diventa intellegibile. Egli è il poeta che si è posto con più rigore e quasi con «assoluta sfacciataggine» di fronte alla catastrofe della cultura occidentale. Ben più decisamente di Eliot, egli dimora in questa «terra devastata» – un inferno che, come egli suggerisce nel canto XLVII non si può credere, come ha fatto il «reverendo Eliot», di «attraversare in fretta».

Ma proprio per questo, per lui «tutte le età sono contemporanee» ed egli può riferirsi immediatamente all’intera storia della cultura, da Omero a Cavalcanti, da Mani a Mussolini, da Dante a Browning, da Persefone a Woodrow Wilson, da Confucio a Arnaut Daniel. «Soltanto Pound» ha detto Eliot «è capace di vederli come esseri viventi» – a condizione di precisare che, nei Cantos, essi sono in verità soltanto frantumi, che sbucano per un attimo dal Lethe e incessantemente si rituffano in esso […].

Se la tradizione è accessibile solo come scheggia e frammento, il poeta a caccia di forme non vede davanti a sé che macerie – anche se queste sono, almeno per lui, vive e vitali proprio in quanto frammenti. Il suo canto inaudito è intessuto di questi lacerti, che, una volta esaurita la loro funzione, non sopravvivono a esso. Di qui l’impressione di artificiosità, così spesso ingiustamente rimproverata alla sua poesia: Pound procede come un filologo che, nella crisi irrevocabile della tradizione, prova a trasmettere senza note a piè di pagina la stessa impossibilità della trasmissione.

Nella frase del Canto 76, in cui egli evoca se stesso come scriptor di fronte al naufragio dell’Europa, il termine sarà ovviamente da intendere «scriba», non scrittore. Di fronte alla distruzione della tradizione, egli trasforma la distruzione in un metodo poetico e, in una sorta di acrobatica «distruzione della distruzione» mima ancora, come copista, un atto di trasmissione. In che misura questo atto riesca, in che misura, cioè, il testo illeggibile, in cui un ideogramma cinese sta accanto a una parola greca e un vocabolo provenzale risponde a un emistichio latino, possa essere veramente letto è una questione a cui non è possibile rispondere sbrigativamente.

La verità e la grandezza di Pound coincidono – cioè si pongono e cadono – con la risposta a queste domande [...]. Di qui l’importanza di quegli scritti in prosa – come quelli di cui questo volume fornisce un’ampia testimonianza – in cui Pound espone le sue idee sulla poesia, sull’economia e la politica. Questi scritti sono a tal punto parte integrante della sua produzione poetica, che si è potuto a ragione affermare che «i Cantos sono ovviamente l’esposizione di una teoria economica che cerca nella storia una esemplificazione».
Come un poeta arcaico, Pound si sente responsabile dell’intero paideuma (come egli ama dire, usando un termine di Frobenius) dell’occidente in tutti i suoi aspetti. «Usura», «denarolatria» e, alla fine, «avarizia» sono i nomi che egli dà al sistema mentale – simmetricamente opposto allo «stato mentale eterno» che, secondo il primo assioma di Religio, definisce la divinità – che ne ha determinato il collasso e che domina ancora oggi – ben più che ai suoi tempi – i governi delle democrazie occidentali, dediti concordemente, anche se con maggiore o minore ferocia, all’«assassinio tramite capitale».
Non è qui il luogo per valutare in che misura, malgrado le sue illusioni sui «popoli latini» e sul fascismo, le teorie economiche di Pound siano ancora attuali. Il problema non è se la geniale moneta di Silvio Gesell, che tanto lo affascinava e sulla quale, per impedirne la tesaurizzazione, si deve applicare ogni mese una marca da bollo dell’un per cento del suo valore, sia o meno realizzabile: decisivo è, piuttosto, che, nelle intenzioni del poeta, essa denuncia quella «possibilità di strozzare il popolo attraverso la moneta» che egli vedeva non senza ragione alla base del sistema bancario moderno.

Che il poeta che aveva percepito con più acutezza la crisi della cultura moderna abbia dedicato un numero impressionante di opuscoli ai problemi dell’economia è, in questo senso, perfettamente coerente. «Gli artisti sono le antenne della razza. Gli effetti del male sociale si manifestano innanzitutto nelle arti. La maggior parte dei mali sociali sono alla loro radice economici».

La Stampa TuttoLibri – 1 ottobre 2016

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