21 ottobre 2016

IL PCI DI FRONTE ALLA RIVOLTA UNGHERESE DEL 1956






Ripensando a come il PCI reagì nel 1956 all'intervento sovietico in Ungheria, diventano più chiare le ragioni per le quali quel partito non poteva sopravvivere al crollo dell'unione sovietica. (fv)

1) "Impiccate pure Nagy, ma solo dopo le elezioni politiche in Italia. Così il PCI non perderà voti." E' quello che si legge nel verbale di un incontro a Mosca tra Togliatti e Kadar. E infatti si votò il 25 maggio 1958 e Nagy fu ucciso il 16 giugno.
Federico Argentieri
E Togliatti lodò la «lotta eroica» contro gli insorti di Budapest

Il sessantesimo della rivoluzione ungherese offre l’occasione per discutere lo stato delle nostre conoscenze sul 1956, specie sulle ripercussioni italiane. È però necessario premettere che alcuni fatti documentati vengono ignorati, il che ritarda il processo di acquisizione di una visione complessiva.

Primo esempio: nel libro Un nocciolo di verità (La Pietra, 1978), poco diffuso e quasi mai citato, l’autrice Felicita Ferrero testimoniò la presenza a Budapest di Aldo Togliatti, figlio di Palmiro, durante l’estate del 1956. L’ottimo e recente studio di Massimo Cirri Un’altra parte del mondo (Feltrinelli, pp. 352, e 18) richiama la nostra attenzione: in effetti, «Aldino», che soffriva di gravi problemi psichici, era in cura presso i medici ungheresi. Non è dato sapere quando esattamente rientrasse in Italia: sembra essere un segreto ottimamente custodito. È però probabile che la vicenda abbia svolto un ruolo nella fredda e rabbiosa determinazione con cui suo padre reagì alla rivoluzione magiara, dapprima invocando e poi festeggiando la sua repressione da parte delle truppe sovietiche.

Secondo esempio: in uno studio scrupolosamente documentato e mai citato, Oro da Mosca (Mondadori, 1999), Valerio Riva e Francesco Bigazzi pubblicarono un documento che dice molto, il cui originale si trova nell’archivio moscovita chiamato Rgani: una «nota spese» datata 4 dicembre 1956 di Boris Ponomariov, responsabile Pcus dei rapporti coi partiti fratelli, in cui si sottoponeva all’approvazione di Krusciov e compagni l’elargizione di due milioni e mezzo di dollari al Pci, la metà al Pcf e via calando. È evidente che, in presenza di tale documento, la retorica sui «capolavori» di Togliatti e sulla «via italiana al socialismo», consacrata qualche giorno dopo dall’VIII Congresso del Pci, acquisisce un significato diverso.

Passando agli inediti, è da registrare che ne manca all’appello almeno ancora uno: il verbale della riunione tra Krusciov e i dirigenti dei Paesi satelliti svoltasi a fine giugno 1956, dopo il lungo viaggio effettuato da Tito in Urss, durante la quale furono comunicate le condizioni appena concordate per la riappacificazione tra Mosca e Belgrado.
Tra queste vi era probabilmente la rimozione di Rákosi dai vertici ungheresi e forse anche la riabilitazione di László Rajk, la principale vittima dei processi-farsa contro il «titoismo», poi avvenuta il 6 ottobre e definita da Togliatti «una follia».
In attesa (probabilmente lunga) che l’archivio presidenziale russo ridiventi disponibile, è da registrare il verbale del colloquio tra Togliatti e Kádár, il leader ungherese installato al potere dai sovietici, svoltosi nel novembre 1957 a Mosca.
Oltre a chiedere l’ormai celebre rinvio dell’esecuzione di Nagy (il primo ministro portato al governo dalla rivolta di Budapest) a dopo le elezioni italiane del 1958, il capo del Pci disse di conoscere quest’ultimo «fin dal 1935 e di non considerarlo una persona seria». Al termine, Togliatti si congratulò con Kádár per la «lotta eroica» da lui guidata nel 1956: dal modo in cui è scritto il verbale e dall’assenza di una risposta, si deduce che questo commento creò comprensibile imbarazzo.

Il Corriere della sera/La Lettura – 16 ottobre 2016

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2) Sessanta anni fa Asor Rosa fu tra i firmatari del “Manifesto dei 101” intellettuali legati al Pci che solidarizzarono con gli insorti ungheresi. In un'intervista racconta quei giorni. Ne esce, per l'ennesima volta, smentito il mito dell'Ingrao “eretico”. Il dirigente comunista fu tra i più duri nel reprimere il dissenso interno.

Asor Rosa

Budapest 1956, i giorni che sconvolsero il mio mondo
intervista di Mirella Serri

«Entrammo nella sede romana dell’Unità, in via 4 Novembre, pieni di speranze e di attese. Facevo parte della delegazione di professori e studenti incaricata di consegnare al giornale un documento che prendeva di petto una questione cruciale: sollecitavamo il Partito comunista ad avviare una discussione su quanto stava accadendo a Budapest». Alberto Asor Rosa ricorda così quei convulsi giorni della rivolta ungherese del 1956, quando i blindati sovietici schiacciarono le speranze del paese satellite dell’Urss che chiedeva libertà culturali, economiche e politiche. Proprio in questo mese ricorrono i 60 anni dalla rivoluzione che, iniziata il 23 ottobre, segnò per la prima volta una fino ad allora impensabile cesura nel mondo comunista, e in cui morirono circa tremila ungheresi e quasi mille soldati sovietici, mentre fuggirono all’estero 250 mila persone.

Lo storico della letteratura aveva all’epoca 23 anni, era in procinto di laurearsi e fu uno dei firmatari del manifesto dei 101 intellettuali del Pci che decisero di non piegare la testa e di esprimere solidarietà con gli insorti. Quella firma siglò, però, una svolta radicale anche nella sua vita: l’anno successivo il futuro professore uscì dal partito di Togliatti, a cui aveva aderito quando aveva 20 anni, e vi rientrò solo venti anni dopo.





«Mi iscrissi dopo la morte di Stalin. Il rapporto di Nikita Krusciov al XX Congresso del Pcus del febbraio 1956, in cui si denunciavano i crimini del dittatore, ci fece in seguito respirare un’aria di apertura e di cambiamenti. Mario Tronti e io, per esempio, pubblicammo sulla rivista Il contemporaneo di Carlo Salinari un saggio sui problemi del marxismo per nulla allineato ai dogmi del Pci. Ero iscritto alla storica sezione universitaria Italia, nei pressi di piazza Bologna, di cui facevano parte docenti e studenti, e mi trovavo a discutere a fianco di professori che stimavo molto, come Carlo Muscetta e Natalino Sapegno, a cui si aggiungevano Tronti, Alberto Caracciolo, Lucio Colletti, Piero Melograni e tanti altri».

Come reagiste quando si diffuse la notizia della rivolta?

«Dopo riunioni fiume in sezione, stilammo il documento che chiedeva più democrazia ed esprimeva il sostegno ai ribelli. All’Unità ci ricevette il direttore, Pietro Ingrao, che era considerato un leader molto sensibile alle sollecitazioni della base».

Anche alle vostre richieste?

«Macché. Fu di una durezza senza pari, non fece nessuna concessione: obbediva al mandato che veniva dal vertice di stroncare qualsiasi deviazione dalle prese di posizione ufficiali. “In Ungheria”, ci disse, “si combatte una battaglia per la difesa nel sistema socialista nel mondo, e per questo non possiamo avere alcuna indulgenza”».

Ingrao pubblicò sull’Unitàl’editoriale «Da una parte della barricata» in cui appoggiava i sovietici. Successivamente farà ammenda.

«Con noi non ebbe esitazioni. Convocato dalla nostra sezione, ribadì il suo punto di vista. Mentre ascoltavo il suo intervento non percepii i dubbi di cui parlerà anni dopo: ma il suo atteggiamento è comprensibile, esisteva un vero culto per l’unità e la compattezza del partito».

La bozza di documento proposta all‘Unità dal gruppo universitario romano diventerà la base del manifesto dei 101 intellettuali messo a punto da Muscetta nella notte tra il 28 e il 29 ottobre (lo firmeranno anche Renzo Vespignani, Enzo Siciliano, Elio Petri, Renzo De Felice, Carlo Aymonino, Luciano Cafagna e tanti altri ancora) e sarà diffuso dall’Ansa. Non farà invece la sua apparizione sul giornale di Ingrao.

«Quando verrà arrestato e poi condannato a morte il presidente del Consiglio ungherese, Imre Nagy, che aspirava a nuove relazioni con l’Occidente, decisi per l’addio al Pci», commenta Asor Rosa. «Quelle giornate della ribellione magiara furono passionali e coinvolgenti, prenderanno corpo legami che dureranno tutta la vita, come quelli con Tronti e con Bianca Saletti che firmò il manifesto e che diventerà mia moglie. Abbiamo vissuto in un clima totalizzante nel quale il pensiero delle scelte da prendere, notte e giorno, non ci abbandonava mai. Ci sentivamo in trincea».

Un «eremita del socialismo»: così Italo Calvino, che nell’agosto 1957 darà anche lui le dimissioni dal Pci, diceva di sentirsi dopo lo strappo dalla grande famiglia comunista che era stata da poco abbandonata anche da Antonio Giolitti. È capitato anche a lei?

«Ho sempre avuto presenti le immagini degli operai ungheresi che si ribellavano per una giusta causa. Noi intellettuali, però, abbiamo percepito l’estraneità della gran massa degli iscritti al Pci alle nostre istanze. Basta un esempio: nella sala riunioni della sezione Italia si accedeva attraverso un corridoio spesso affollato da militanti, operai e conducenti dell’Atac. Avvertivamo nei nostri confronti - gli eretici che volevamo demolire il potere socialista - la loro riprovazione. Il mio nuovo approdo sarà la rivista socialista Mondo operaio, diretta da Raniero Panzieri che aveva duramente criticato la reazione sovietica. Dopo il 1956 il Pci cominciò, però, a orientarsi verso un percorso più liberale e tollerante».

La Stampa – 9 ottobre 2016

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