31 marzo 2017

J. L. BORGES, Cosmogonia



Né tenebra né caos. La tenebra

richiede occhio che veda, come il suono

e il silenzio richiedono l'udito,

e lo specchio, la forma che lo popola.

Né spazio né tempo. E neppure

una divinità che premedita

il silenzio che anticipa la prima

notte del tempo, che sarà infinita.

Il gran fiume di Eràclito l'Oscuro

non ha intrapreso il corso irrevocabile

che dal passato va verso il futuro

e che va dall'oblio verso l'oblio.

Qualcosa gpatisce. Qualcosa implora.

E poi la storia universale. Ora.
Lo stesso testo in lingua originale:
 
Ni tiniebla ni caos. La tiniebla

requiere ojos que ven, como el sonido

y el silencio requieren el oído,

y el espejo, la forma que lo puebla.

Ni el espacio ni el tiempo. Ni siquiera

una divinidad que premedita

el silencio anterior a la primera

noche del tiempo, que será infinita.

El gran rio de Heráclito el Oscuro

su irrevocable curso no ha emprendido,

que del pasado fluye hacia el futuro,

que del olvido fluye hacia el olvido.

Algo que ya padece. Algo que implora.

Después la historia universal. Ahora.




Da Jorge Luis Borges, La rosa profonda, Adelphi, 2013

30 marzo 2017

MARLON BRANDO VISTO DA GOFFREDO FOFI




I diari di Marlon Brando

Goffredo Fofi

Pacchi di registrazioni su cassetta ritrovate, un ologramma del volto di Marlon che sembra scaturire dal mondo di là e confessarsi ai viventi, e un mucchio di spezzoni di film accuratamente scelti, di scene di lavorazione, di documenti e interviste televisivi e cinematografici. La preoccupazione principale di Marlon Brando è stata certamente quella di cercarsi interrogarsi trovarsi, nella convinzione che fosse possibile andare al fondo della conoscenza e, in sostanza, guarire, trovare la pace nell’accordo tra la propria biografia e la propria psiche, trai fatti della società e quelli della coscienza
Il film Listen to me Marlon - rispettoso e intelligente - che Steven Riley e il suo gruppo di collaboratori hanno costruito a partire dalle confessioni di Brando, da questa mole di materiale, è il tentativo di mettere insieme i pezzi seguendo in sostanza le indicazioni dell’attore, di dare unità alla parte privata e a quella pubblica della vita di un uomo celebrato e chiacchierato, che per decenni è stato al centro dell’attenzione dei media e dell’interesse degli spettatori. Ma non si tratta soltanto di una curiosità prevedibile per uno dei rari miti duraturi dello show business e della mass culture statunitense, di conseguenza un mito quasi mondiale, quel che il film di Riley finisce per suggerire - e non importa se questo era nelle sue intenzioni - è molto di più, e questo di più è Brando stesso a indicarlo, nelle sue confessioni registrate, presumibilmente a futura memoria. L’attore vi cita non a caso Shakespeare e maledice biblicamente la sua sorte, dopo aver arricchito, dice, centinaia di psicanalisti e psichiatri (e, anche se non lo dice, guru d’altro genere) e si confronta con Dio, che ci sia o non ci sia fa lo stesso, per chiedersi cos’è l’uomo, e cosa sono il bene e il male e come si mescolano e rendono difficile il distinguerli. Cosa è lui, Marlon Brando, il figlio di una madre dolce e alcolizzata, di un padre macho e violento che è stato a sua volta figlio di un padre che non lo ha amato, il giovane provinciale che diventa newyorkese negli anni che succedono a una guerra che non ha fatto in tempo a fare e che si scopre attore, e che attore!, frequentando l’Actor's Studio da allievo, ci dice il film, più di Stella Adler, figura materna protettiva ma esigente, che non di Lee Strasberg o di quell’Elia Kazan che lo porterà al successo in teatro e in cinema affidandogli il ruolo dell’istintivo Stanley Kowalski nel Tram che si chiama Desiderio. Da parte del pubblico giovanile venne allora venerato appena un po’ meno di James Dean e un po’ più di Montgomery Clift, e alla pari con l’unica giovane attrice che poté eguagliare la loro fama, Marilyn Monroe, che cadde molto prima di lui, distrutta, si può ben dire, dalla nemesi del successo che distruggerà solo più lentamente la vita di Brando.
Una fama eccessiva impedisce una vita normale, è ben noto, anche e forse soprattutto se la si è cercata, voluta. Ecco dunque i trionfi di Marlon attore nuovo, che impone sullo schermo una fisicità di inedita forza e un modo di recitare complesso, intimo e però evidente in cui la presenza fisica si impone insieme all’introspezione più accanita. Diventa il segno di un’epoca e questo gli impedisce di essere solo un attore con una vita normale. I suoi grandi film sono in realtà rari (il Tram, Fronte del porto, Viva Zapata, Il selvaggio e dopo anni di sciocchezze e rare buone interpretazioni per Penn o Huston, Il padrino e Apocalypse Now ovvero “the horror”, di Coppola, e quell’Ultimo tango a Parigi in cui Bertolucci lo guidò a essere e fare se stesso, a svelarsi e scoprirsi impudicamente e dolorosamente e bensì trionfalmente, in un incontro-scontro attore-regista che sapeva per entrambi di ossessive pratiche psicanalitiche. (Tentò anche la regia, e il film era buono anche se non lasciò molta traccia e Riley non ne parla, così come non parla dell’interesse di Brando per avere nel cinema un erede in Johnny Depp, che, tradito dalla critica quando tentò a sua volta la regia, tradì il suo mentore ed è oggi una qualsiasi pallida maschera del conformismo hollywoodiano.)
Fu il successo il suo nemico, la sua difficoltà a potersene districare, e il suo amore, nonostante tutto, per quel che il successo gli portava, anzitutto il denaro. È accaduto tante altre volte e accadrà ancora e sempre, nel contesto capitalistico dell'american way of life e della società dello spettacolo, è la condanna degli "arrivati”, destinati così spesso a fini ingloriose e addirittura tragiche.
Quel che però ricaviamo da questo film, e più che dal film dalle confessioni di Brando a se stesso ma nell’ovvia speranza che qualcuno prima o dopo potesse ascoltarle, è che egli, nonostante gli ovvi processi di autogiustificazione, fu - almeno nei suoi ultimi anni e dopo tante tragedie famigliari e una vecchiaia ingloriosa, e la perpetrata, e se conscia o inconscia è secondario, autodistruzione della propria immagine fisica - una persona molto più intelligente di quanto non si potesse pensare. Per questo il film di Riley è un giusto complemento alla visione dei suoi film migliori, e la dimostrazione che Brando è stato la tragica vittima di una cultura dell’ego e della fama, a lungo consenziente e alla fine spietatamente cosciente del proprio fallimento e della difficoltà di trovare risposta alle domande, metafisiche come sociali, che non angosciano gli stupidi soltanto fin quando pensano di essere più forti della condizione comune e della comune, umana fragilità.

Da “Il Sole 24 ore – domenica”, 15 novembre 2015

MARIA SILVIA CAFFARI, Mani pesci pani

ph. Maria Ribaudo

Sono mani
Sono pesci
Sono pani
Ai rami
Bocche
Agli ami
Code
Richiami
rondini
Penduli
Semi
Scoppiano
Restano
Involucri
Svolano
Figli
Primavera
Pèrdita
Restituzione.


Maria Silvia Caffari

LOTTE POPOLARI E MIGRAZIONI IN SICILIA

OGGI ALL'ARCHIVIO DI STATO DI PALERMO

DANILO DOLCI E LEONARDO SCIASCIA MAI COL POTERE






Queste foto riprendono il trentenne Danilo Dolci  in alcune fasi del processo per direttissima che subì nel 1956 per aver organizzato il suo primo "sciopero alla rovescia". Accanto a Danilo, Piero Calamandrei e Nino Sorgi, suoi avvocati di difesa nel corso del processo.




Danilo e Carlo Levi












       Devo a  Danilo Dolci e a Leonardo Sciascia quasi tutto quello che so sulla Sicilia e sulla mafia.  Col primo ci ho anche lavorato per due anni, nella metà degli anni settanta, e ho avuto così modo di conoscerlo meglio. Lo scrittore di Racalmuto, invece, l'ho conosciuto solo attraverso i suoi libri che non mi stanco mai di leggere e rileggere. 
        I due non si sono mai amati, eppure sono stati tra i primi a parlare e a scrivere di mafia. Lo hanno fatto con stile e modi assai diversi, tra loro, eppure hanno finito per sostenere le stesse cose. Peraltro scrivevano nello stesso giornale, L'ORA, diretto da Vittorio Nisticò. E quest'ultimo, al riguardo, qualche anno fa ha detto tutto quello che c'era da dire.
       Oggi mi piace ricordarli insieme perchè, durante il corso della loro vita, si sono trovati sempre a scrivere contro il potere. 
        Danilo Dolci, specialmente nei suoi primi vent'anni d'impegno in Sicilia, ha creduto fermamente a quello che faceva. Danilo era un uomo di fede e credeva nella forza delle idee.
         Leonardo Sciascia, da buon siciliano, non è mai stato un uomo di fede. Ed ha sempre avuto un debole per tutte le forme di eresia. Una forma sottile di scetticismo lo ha accompagnato per tutta la vita e la sua opera ne porta più di un segno. Eppure, in fondo, anche lui credeva nelle idee. Si rammaricava, infatti, del fatto che i siciliani ci credessero poco, a tal punto da scrivere:

 
"Qui non si è mai creduto che le idee muovano il mondo. Ci sono naturalmente delle ragioni, ragioni di storia, di esperienze. Ma la ragione che ha impedito alla Sicilia di andare avanti è il credere che il mondo non potrà mai essere diverso da come è stato. [...] in noi siciliani, persiste una mancanza di speranza, una diffidenza verso le idee perché le idee, anche quelle che apparivano nuove, subito sono diventate strumento di una certa classe sociale che grosso modo possiamo qualificare come borghese-mafiosa, non borghese. Io mi augurerei che in Sicilia ci fosse una borghesia. E’ una borghesia mafiosa, quella siciliana, anche là dove non sembra. Una borghesia che opera senza una visione del domani, a sfruttare determinate situazioni così come un tempo si diceva delle zolfatare: a rapina. Lo sfruttamento a rapina delle zolfatare era quello degli esercenti che si preoccupavano di cavare quanto più materia era possibile, senza curarsi dell’avvenire della zolfatara stessa, né della sicurezza di chi vi lavorava, Ora questa classe sembra inamovibile. Successa alla aristocrazia, essa si è comportata, anche grossolanamente, come l’aristocrazia. Per questo i siciliani non credono più alle idee. E infatti, quando cominciano a crederci, ecco interviene qualcosa per cui non ci crederanno più. Per esempio l’operazione Milazzo – è un giudizio per cui io mi batto da sempre – è stato un modo per ricacciare i siciliani nella sfiducia verso le idee."

fv

ROMA CAPITALE

1878. Costruzione del Ponte metallico di Ripetta (Pinterest - Collezione Roma sparita)


Roma Capitale: l'invasione dei “buzzurri” e il ponte di Ripetta

 Lucio Caracciolo 

Dio ha maledetto Roma Capitale? Il dubbio che una divina jettatura pendesse sull'Urbe nacque appena due mesi dopo il fatidico 20 settembre 1870: le acque giallastre del Tevere sfondarono gli argini a Ponte Molle e nella città bassa, irruppero attraverso Porta del Popolo nel centro storico, quasi a lavare l'onta inflitta dall' Italia laica al millenario privilegio papale. Fiorì allora sui fogli "neri" e sulla bocca di beghine, bigotti, semplici popolani, la leggenda della "maledizione divina" su Roma italiana. Il governo di Sua Maestà provvide poi - con una certa flemma - a bloccare il flagello delle inondazioni, fortificando gli argini del Tevere. Nondimeno una qualche sorta di malocchio continuò a incombere sulla città, tanto da indurre già Ricasoli a chiedersi se vi fosse "dunque in questa Roma una fatalità, che deve rendersi maledetta per l'Italia".
Fatto è che l'idea di Roma - suprema missione unitaria che appassionò i più diversi esponenti del Risorgimento, da Cavour a Mazzini, da Garibaldi a Gioberti - per l'Italia è restata un mito astratto. La crescita della Capitale è una vicenda di continui fallimenti di Stato e Comune nel tentativo di orientarla secondo un progetto. È ormai più di un secolo che Achille - la mano pubblica - s'affanna sulle tracce di un'inafferrabile tartaruga - la speculazione privata. Di questa corsa a handicap cominciamo qui a tracciare una cronaca certo non esaustiva, sperando di illuminare, attraverso alcune storie esemplari, cause e meccanismi di una "fatalità" nient' affatto "celeste".
Converrà anzitutto tenere a mente che la Roma finalmente ricongiunta alla patria non ha nulla delle grandi capitali europee. Non gli ampi boulevards e i moderni palazzoni ministeriali, non le industrie con l' annesso squallore degli slums. Roma sorge come una gigantesca fattoria in una campagna malsana e paludosa. Scrive un testimone del tempo: "Di notte il silenzio della Città Eterna è punteggiato di continuo dal canto dei galli, da ragli di asini e belati di pecore. Pare d'essere in una città d'agricoltori, e questa impressione è largamente confermata di giorno, dai branchi di pecore e di capre che lasciano chiari segni del loro passaggio anche nelle strade principali". Ancora nella seconda metà del secolo la malaria miete le sue vittime ben dentro la cinta d'Onorio, a piazza del Popolo, al Colosseo, al Viminale.
Roma è rimasta, grosso modo, quella del Seicento, divisa come ai tempi di Nerone in quattordici rioni. Duecentomila abitanti s' accalcano a Borgo, a Trastevere e nell' ansa del Tevere tra piazza del Popolo e il Circo Massimo. Il viandante che s' avventura per le anguste strade cittadine resta stordito dal contrasto fra il fascino dei monumenti e lo stato di abbandono delle case e delle vie, meandro inestricabile e spesso impraticabile. Il marciapiede è considerato un lusso transalpino; quei pochi esistenti sono in verità trappole per pedoni distratti, essendo sistemati su dislivelli di un metro e più che si aprono come baratri davanti ai piedi dei passanti. L'esiguo traffico di carri, botti o sgangheratissimi omnibus ippotrainati s'ingolfa improvvisamente intorno al Corso, che le colonnette patrizie, irrinunciabile simbolo di dignità araldica, riducono a un accidentato percorso di slalom speciale.
Il fondo stradale è evocato dalle cronache come uno strumento di tortura che "storpia chi si attenta a muovervi un passo, taglia il tomaio delle scarpe, graffia ed iscorza le vernici delle ruote e, penetrando fra i quarti delle unghie dei cavalli, azzoppa e fa barcollare le povere bestie". La “Gazzetta di Firenze” annota malignamente che se i piedi potessero votare per la Capitale d' Italia, certamente non eleggerebbero la Città Eterna. E le case? Se escludiamo i palazzi in pietra degli aristocratici, esse offrono un colpo d'occhio ben misero. Sembrano tante casupole di campagna addossate l'una all'altra dalla mano di un architetto cieco o folle. Luride e spesso fatiscenti, emanano un insopportabile lezzo di cavolo - prodotto dall'abbondante uso di erbe cotte, tipico della dieta romanesca - il quale a suo tempo ispirò a Stendhal appassionate invettive contro le abitudini igieniche dei quiriti.
In questa Roma attardata convivono blandamente alto clero e plebe indigente, nobiltà e piccolissima borghesia. La gran parte dei romani vive d'espedienti, fra la certezza della broda elargita dagli ospizi di mendicità e la chimera d'una vincita al lotto, la via più corta dalla miseria alla ricchezza. Il solo ceto vagamente assimilabile alla borghesia mitteleuropea è quello dei "mercanti di campagna", gli affittuari del latifondo pontino. Tolta una manciata di botteghe di fabbriferrai che in qualche statistica assurgono al rango di industrie, e quei pochi lanifici che fino al 1870 vegetano dietro lo scudo dei dazi pontifici, non v'è traccia d' industria.
Roma sembra dar ragione ai suoi più astiosi avversari, per i quali la città è destinata a vivere alle spalle del mondo, "prima con la preda, poscia con lo scrocco". Per Roma l' arrivo degli italiani è una rivoluzione. Un equilibrio secolare è stravolto. Mentre Pio IX si esilia nei palazzi vaticani, donde scaglia anatemi contro i "figli di Belial", "rappresentanti della più velenosa bava d' inferno", in città si riversa un'orda di "buzzurri", soprannome non benevolo (significa "venditori di castagne") con cui i popolani designano i loro liberatori. Da Firenze arrivano a migliaia gli impiegati dello Stato. Dall'alta Italia accorrono commercianti, finanzieri, speculatori, attratti dal miraggio di una nuova capitale da costruire. Dal Mezzogiorno ecco premere un esercito di braccianti, accattoni, avventurieri, avvocati. Roma è un sogno a buon mercato, una promettente California. L'ondata d'immigrazione triplica in poche settimane il prezzo degli affitti. Il Comune è costretto a requisire financo i fienili. Cantine e sottoscala vengono disputati come alberghi di lusso. Un foglio locale segnala che all'albergo della Ghiffa, a piazza Montanara, si spendono pochi centesimi per dormire "con tutt' er comido", cioè soli in un letto, e quasi nulla per un materasso sul quale nel corso della notte possono adagiarsi altre due persone. I meno fortunati s'accomodano a frotte sulla scalinata di Santa Maria Maggiore, in aperta campagna, buscandovi le febbri.
Che ne sarà di questa città arretrata e infida? Raggiunta infine la meta dei padri del Risorgimento, l'"arca del nostro patto", l'"ara del nostro dritto", gl'italiani s'accorgono di non saper bene che farne. Un uomo solo - un "alpinista solitario", come ama definirsi - sembra avere le idee chiare: Quintino Sella, industriale di Biella, intellettuale e uomo di governo fra i maggiori della Destra storica. La sua voce parla alto: "Non è soltanto per portarvi dei travet, che noi siamo venuti in Roma!". Roma è per Sella sinonimo di civiltà e di progresso; l'Italia ha emancipato la sua capitale dal dominio clericale per farne il centro della scienza. "La scienza per noi a Roma è un dovere supremo", proclama lo statista piemontese. "Fuori i lumi! Fari elettrici anzi devono essere, imperocchè abbiamo a che fare con gente che si chiude gli occhi e si tappa le orecchie, abbiamo a che fare con gente che vuol pigliare i giovani fin dall'infanzia, avviarli alle proprie scuole secondarie e poi vuol dare a costoro i più alti uffici che si possano affidare all'umanità".
Dunque è chiaro: occorre costruire ex novo "una Gran Roma italiana che faccia equilibrio a Roma papale". In termini urbanistici la direttiva selliana significa edificazione di nuovi quartieri sui colli, soprattutto Esquilino e Viminale (qui devono sorgere i grandi centri di ricerca scientifica), e nell'area intorno a via Venti Settembre, modernamente concepita come "asse attrezzato" lungo il quale si scaglioneranno i ministeri. Simbolo della nuova capitale è l'enorme palazzo del ministero delle Finanze, vero tempio della burocrazia, innalzato per volere di Sella a pochi passi da Porta Pia. A perenne monito contro le mire reazionarie del clero temporalista, Sella suggerisce di erigere nel cortile del palazzo un monumento al centurione romano, che piantando l'insegna esclami: "Hic manebimus optime!".
L'utopia selliana di Roma "cervello supremo della nazione", città della burocrazia e della scienza, non inquinata da una "soverchia agglomerazione di operai che considero pericolosa e sconveniente", è troppo astratta per resistere all' assalto dell'immigrazione di massa e della speculazione fondiaria. Il piano di Quintino Sella sarà travolto, proprio quando cominciava a realizzarsi, dall'espansione indiscriminata dell'edilizia privata, vera padrona di Roma. Ben prima che il Comune possa varare nel 1873 il primo piano regolatore, la febbre edilizia comincia a stravolgere il volto della città. La grande finanza internazionale, piemontese, toscana, si getta alla conquista dei terreni. Nascono nuovi imperi finanziari. La Compagnia Fondiaria Italiana diventa nel 1875 proprietaria di un terzo della superficie compresa entro le mura urbane, estendendo i suoi possedimenti intorno all' Esquilino e a Porta Pia. Qui sorgono i primi "casermoni", mastodonti di cinque-sei piani destinati agli impiegati ministeriali. La Italo-germanica si accaparra centomila metri quadrati al Castro Pretorio e ai Prati di Castello, dove ha grossi interessi anche la Banca di Credito romano. Non più di sei o sette gruppi capitalistici monopolizzano in breve il mercato dei suoli e degli immobili. Il Comune cerca di regolare la spinta all'urbanizzazione "selvaggia" col sistema delle convenzioni, che in teoria dovrebbe basarsi sul reciproco vantaggio: il municipio appalta terreni, concede incentivi, provvede a costruire strade, fogne, condutture di acqua e gas, e ne affida l'edificazione a imprese private, che costruiscono, secondo i loro tempi e le loro necessità, case a reddito continuo. Quanto al piano regolatore, vale poco più di un pezzo di carta. A che serve accennarvi uno schema di sviluppo urbano monodirezionale, indirizzato sui quartieri alti, quando la stessa giunta approva un ordine del giorno in cui il piano regolatore è ridotto a "piano di massima", mentre si avverte che "il Consiglio si riserva di discutere partitamente ogni tratto di lavoro allorquando verrà l'opportunità dell' esecuzione"? Mentre il Campidoglio "si riserva" o deve fare i conti con sedicenti architetti che, fiutata la possibilità di guadagno offerta dalle necessità di una nuova capitale, si lanciano in ardite proposte come quella di impiantare la Camera dei Deputati al Colosseo, coprendolo con una volta di cristallo, le imprese immobiliari spadroneggiano. Non è ancora entrato in vigore il piano regolatore, e già il Comune ha firmato sette convenzioni per quartieri localizzati al di là delle mura cittadine.
La partita decisiva tra gruppi privati e pubbliche istituzioni si gioca sulla riva destra del Tevere, attorno a un terreno melmoso invaso da ortaglie e vegetazione spontanea, incassato fra Monte Mario e la fortezza di Castel Sant' Angelo: i Prati di Castello. Un consorzio di finanzieri di Francoforte, Amsterdam, Vienna, Torino, Napoli e Roma vi ha subito individuato il cuore della futura città e ha acquistato a prezzi agricoli quell' area paludosa. Nel 1872 l'architetto Cipolla presenta su incarico del consorzio il progetto di un grande quartiere residenziale, solcato da un boulevard che dovrà collegare Piazza del Popolo a Piazza San Pietro, sventrando il Borgo. Due ponti collegheranno il nuovo quartiere al centro storico. Stato e Comune si incaricheranno di rafforzare gli argini del Tevere per impedire le inondazioni. Accogliere questo progetto significherebbe stravolgere l'idea dello sviluppo unidirezionale verso Est, sostenuta dai proprietari di quelle aree, da Sella e dalla maggior parte dei pubblici amministratori. La commissione tecnica del Comune si orienta perciò a riservare i Prati di Castello per "grandi piazze, fiere di bestiame, ippodromi, mercato di commestibili, locali di pubbliche esposizioni, stabilimenti di bagni e cose simili". Sulle pendici di Monte Mario si progetta addirittura un "Tivoli", un enorme Luna park servito da una funicolare.
La contesa fra "prataroli" e "monticiani" (i fautori dello sviluppo sui colli) è anche l'occasione di un'aspra disputa politico-ideologica. A favore di Prati si schierano i liberali radicali, i mazziniani, gli anticlericali intransigenti, Garibaldi in persona. Costoro vedono nel futuro quartiere borghese a ridosso di San Pietro una sfida laica contro il "papa prigioniero". Lì, a un passo dai sacri palazzi, l'Italia moderna costruirà un Palazzo di Giustizia, emblema della civiltà liberale, monito contro le velleità temporaliste del clero. Campione di questo partito è dal 1872 il sindaco Luigi Pianciani, democratico mazziniano, che non perde occasione per denunciare l'oppressione spirituale del "prete". Per contro la stampa clericale e l'opinione pubblica moderata considerano la riva destra del Tevere un "cuscinetto" fra Italia e Vaticano, fra la Roma tuttora devota al papa re e i "buzzurri" che si stanno installando nei quartieri alti. Lo scontro resta impregiudicato per lunghi anni. Il piano regolatore del 1873 esclude in via di principio l'edificazione dei Prati, salvo prevedere per essi un "piano speciale di ampliamento". Il progetto Cipolla è respinto dal Consiglio comunale perché "astratto e quasi speculativo", come con raffinata ambiguità s'esprime un membro della giunta. È chiaro che la riva destra del Tevere non potrà accogliere in eterno paludi malariche e piante selvatiche, ma la prassi pilatesca del Comune facilita l' urbanizzazione "spontanea" pilotata dai trust finanziari.
Non scegliendo il Comune, scelgono infine i privati, i quali non acquistarono certo 65 ettari di terreno edificabile per coltivarvi broccoli o cavoli. E allora, siccome in Prati non sarà possibile costruire nulla fintanto che non sarà possibile un collegamento diretto con la sponda sinistra, i proprietari delle aree perdono la pazienza: nel 1878 costituiscono una società-ombra e affidano alle officine Cottrau di Napoli la costruzione di un ponte di ferro a Ripetta. Prima, i romani che avessero voluto attraversare il Tevere a quell'altezza non disponevano che della celebre barca di Toto, mitico fiumarolo che deteneva il monopolio dei traghettamenti in quel tratto d'acqua. Da tempo immemorabile Toto trasportava al di là della corrente i pochi romani che s'avventuravano nella selva di Prati. Solo la domenica il traffico s'infittiva: borghesi e ministri, aristocratici e popolani s'imbarcavano su quel barcone a fondo piatto per guadagnare le osterie suburbane e gustare le "fittuccine al pomidoro", il pollo spezzato "alla padella" o l'abbacchio alla cacciatora. Il ponte di ferro spazza via Toto e, quel che è più grave, l'antico porto di Ripetta. La via ai Prati è aperta. In pochi anni sorge dal nulla un quartiere residenziale per decine di migliaia di abitanti. È la fine dell'espansione orientata solo verso Est. D'ora in avanti Roma crescerà sempre intorno al suo centro antico, a macchia d' olio.
la Repubblica, 18 novembre 1984