1878. Costruzione del Ponte metallico di Ripetta (Pinterest - Collezione Roma sparita)
Roma Capitale: l'invasione dei “buzzurri” e il ponte di Ripetta
Lucio Caracciolo
Dio ha maledetto Roma
Capitale? Il dubbio che una divina jettatura pendesse sull'Urbe
nacque appena due mesi dopo il fatidico 20 settembre 1870: le acque
giallastre del Tevere sfondarono gli argini a Ponte Molle e nella
città bassa, irruppero attraverso Porta del Popolo nel centro
storico, quasi a lavare l'onta inflitta dall' Italia laica al
millenario privilegio papale. Fiorì allora sui fogli "neri"
e sulla bocca di beghine, bigotti, semplici popolani, la leggenda
della "maledizione divina" su Roma italiana. Il governo di
Sua Maestà provvide poi - con una certa flemma - a bloccare il
flagello delle inondazioni, fortificando gli argini del Tevere.
Nondimeno una qualche sorta di malocchio continuò a incombere sulla
città, tanto da indurre già Ricasoli a chiedersi se vi fosse
"dunque in questa Roma una fatalità, che deve rendersi
maledetta per l'Italia".
Fatto è che l'idea di
Roma - suprema missione unitaria che appassionò i più diversi
esponenti del Risorgimento, da Cavour a Mazzini, da Garibaldi a
Gioberti - per l'Italia è restata un mito astratto. La crescita
della Capitale è una vicenda di continui fallimenti di Stato e
Comune nel tentativo di orientarla secondo un progetto. È ormai più
di un secolo che Achille - la mano pubblica - s'affanna sulle tracce
di un'inafferrabile tartaruga - la speculazione privata. Di questa
corsa a handicap cominciamo qui a tracciare una cronaca certo non
esaustiva, sperando di illuminare, attraverso alcune storie
esemplari, cause e meccanismi di una "fatalità" nient'
affatto "celeste".
Converrà anzitutto
tenere a mente che la Roma finalmente ricongiunta alla patria non ha
nulla delle grandi capitali europee. Non gli ampi boulevards e
i moderni palazzoni ministeriali, non le industrie con l' annesso
squallore degli slums. Roma sorge come una gigantesca fattoria
in una campagna malsana e paludosa. Scrive un testimone del tempo:
"Di notte il silenzio della Città Eterna è punteggiato di
continuo dal canto dei galli, da ragli di asini e belati di pecore.
Pare d'essere in una città d'agricoltori, e questa impressione è
largamente confermata di giorno, dai branchi di pecore e di capre che
lasciano chiari segni del loro passaggio anche nelle strade
principali". Ancora nella seconda metà del secolo la malaria
miete le sue vittime ben dentro la cinta d'Onorio, a piazza del
Popolo, al Colosseo, al Viminale.
Roma è rimasta, grosso
modo, quella del Seicento, divisa come ai tempi di Nerone in
quattordici rioni. Duecentomila abitanti s' accalcano a Borgo, a
Trastevere e nell' ansa del Tevere tra piazza del Popolo e il Circo
Massimo. Il viandante che s' avventura per le anguste strade
cittadine resta stordito dal contrasto fra il fascino dei monumenti e
lo stato di abbandono delle case e delle vie, meandro inestricabile e
spesso impraticabile. Il marciapiede è considerato un lusso
transalpino; quei pochi esistenti sono in verità trappole per pedoni
distratti, essendo sistemati su dislivelli di un metro e più che si
aprono come baratri davanti ai piedi dei passanti. L'esiguo traffico
di carri, botti o sgangheratissimi omnibus ippotrainati s'ingolfa
improvvisamente intorno al Corso, che le colonnette patrizie,
irrinunciabile simbolo di dignità araldica, riducono a un
accidentato percorso di slalom speciale.
Il fondo stradale è
evocato dalle cronache come uno strumento di tortura che "storpia
chi si attenta a muovervi un passo, taglia il tomaio delle scarpe,
graffia ed iscorza le vernici delle ruote e, penetrando fra i quarti
delle unghie dei cavalli, azzoppa e fa barcollare le povere bestie".
La “Gazzetta di Firenze” annota malignamente che se i piedi
potessero votare per la Capitale d' Italia, certamente non
eleggerebbero la Città Eterna. E le case? Se escludiamo i palazzi in
pietra degli aristocratici, esse offrono un colpo d'occhio ben
misero. Sembrano tante casupole di campagna addossate l'una all'altra
dalla mano di un architetto cieco o folle. Luride e spesso
fatiscenti, emanano un insopportabile lezzo di cavolo - prodotto
dall'abbondante uso di erbe cotte, tipico della dieta romanesca - il
quale a suo tempo ispirò a Stendhal appassionate invettive contro le
abitudini igieniche dei quiriti.
In questa Roma attardata
convivono blandamente alto clero e plebe indigente, nobiltà e
piccolissima borghesia. La gran parte dei romani vive d'espedienti,
fra la certezza della broda elargita dagli ospizi di mendicità e la
chimera d'una vincita al lotto, la via più corta dalla miseria alla
ricchezza. Il solo ceto vagamente assimilabile alla borghesia
mitteleuropea è quello dei "mercanti di campagna", gli
affittuari del latifondo pontino. Tolta una manciata di botteghe di
fabbriferrai che in qualche statistica assurgono al rango di
industrie, e quei pochi lanifici che fino al 1870 vegetano dietro lo
scudo dei dazi pontifici, non v'è traccia d' industria.
Roma sembra dar ragione
ai suoi più astiosi avversari, per i quali la città è destinata a
vivere alle spalle del mondo, "prima con la preda, poscia con lo
scrocco". Per Roma l' arrivo degli italiani è una rivoluzione.
Un equilibrio secolare è stravolto. Mentre Pio IX si esilia nei
palazzi vaticani, donde scaglia anatemi contro i "figli di
Belial", "rappresentanti della più velenosa bava d'
inferno", in città si riversa un'orda di "buzzurri",
soprannome non benevolo (significa "venditori di castagne")
con cui i popolani designano i loro liberatori. Da Firenze arrivano a
migliaia gli impiegati dello Stato. Dall'alta Italia accorrono
commercianti, finanzieri, speculatori, attratti dal miraggio di una
nuova capitale da costruire. Dal Mezzogiorno ecco premere un esercito
di braccianti, accattoni, avventurieri, avvocati. Roma è un sogno a
buon mercato, una promettente California. L'ondata d'immigrazione
triplica in poche settimane il prezzo degli affitti. Il Comune è
costretto a requisire financo i fienili. Cantine e sottoscala vengono
disputati come alberghi di lusso. Un foglio locale segnala che
all'albergo della Ghiffa, a piazza Montanara, si spendono pochi
centesimi per dormire "con tutt' er comido", cioè soli in
un letto, e quasi nulla per un materasso sul quale nel corso della
notte possono adagiarsi altre due persone. I meno fortunati
s'accomodano a frotte sulla scalinata di Santa Maria Maggiore, in
aperta campagna, buscandovi le febbri.
Che ne sarà di questa
città arretrata e infida? Raggiunta infine la meta dei padri del
Risorgimento, l'"arca del nostro patto", l'"ara del
nostro dritto", gl'italiani s'accorgono di non saper bene che
farne. Un uomo solo - un "alpinista solitario", come ama
definirsi - sembra avere le idee chiare: Quintino Sella, industriale
di Biella, intellettuale e uomo di governo fra i maggiori della
Destra storica. La sua voce parla alto: "Non è soltanto per
portarvi dei travet, che noi siamo venuti in Roma!". Roma è per
Sella sinonimo di civiltà e di progresso; l'Italia ha emancipato la
sua capitale dal dominio clericale per farne il centro della scienza.
"La scienza per noi a Roma è un dovere supremo", proclama
lo statista piemontese. "Fuori i lumi! Fari elettrici anzi
devono essere, imperocchè abbiamo a che fare con gente che si chiude
gli occhi e si tappa le orecchie, abbiamo a che fare con gente che
vuol pigliare i giovani fin dall'infanzia, avviarli alle proprie
scuole secondarie e poi vuol dare a costoro i più alti uffici che si
possano affidare all'umanità".
Dunque è chiaro: occorre
costruire ex novo "una Gran Roma italiana che faccia equilibrio
a Roma papale". In termini urbanistici la direttiva selliana
significa edificazione di nuovi quartieri sui colli, soprattutto
Esquilino e Viminale (qui devono sorgere i grandi centri di ricerca
scientifica), e nell'area intorno a via Venti Settembre, modernamente
concepita come "asse attrezzato" lungo il quale si
scaglioneranno i ministeri. Simbolo della nuova capitale è l'enorme
palazzo del ministero delle Finanze, vero tempio della burocrazia,
innalzato per volere di Sella a pochi passi da Porta Pia. A perenne
monito contro le mire reazionarie del clero temporalista, Sella
suggerisce di erigere nel cortile del palazzo un monumento al
centurione romano, che piantando l'insegna esclami: "Hic
manebimus optime!".
L'utopia selliana di Roma
"cervello supremo della nazione", città della burocrazia e
della scienza, non inquinata da una "soverchia agglomerazione di
operai che considero pericolosa e sconveniente", è troppo
astratta per resistere all' assalto dell'immigrazione di massa e
della speculazione fondiaria. Il piano di Quintino Sella sarà
travolto, proprio quando cominciava a realizzarsi, dall'espansione
indiscriminata dell'edilizia privata, vera padrona di Roma. Ben prima
che il Comune possa varare nel 1873 il primo piano regolatore, la
febbre edilizia comincia a stravolgere il volto della città. La
grande finanza internazionale, piemontese, toscana, si getta alla
conquista dei terreni. Nascono nuovi imperi finanziari. La Compagnia
Fondiaria Italiana diventa nel 1875 proprietaria di un terzo della
superficie compresa entro le mura urbane, estendendo i suoi
possedimenti intorno all' Esquilino e a Porta Pia. Qui sorgono i
primi "casermoni", mastodonti di cinque-sei piani destinati
agli impiegati ministeriali. La Italo-germanica si accaparra
centomila metri quadrati al Castro Pretorio e ai Prati di Castello,
dove ha grossi interessi anche la Banca di Credito romano. Non più
di sei o sette gruppi capitalistici monopolizzano in breve il mercato
dei suoli e degli immobili. Il Comune cerca di regolare la spinta
all'urbanizzazione "selvaggia" col sistema delle
convenzioni, che in teoria dovrebbe basarsi sul reciproco vantaggio:
il municipio appalta terreni, concede incentivi, provvede a costruire
strade, fogne, condutture di acqua e gas, e ne affida l'edificazione
a imprese private, che costruiscono, secondo i loro tempi e le loro
necessità, case a reddito continuo. Quanto al piano regolatore, vale
poco più di un pezzo di carta. A che serve accennarvi uno schema di
sviluppo urbano monodirezionale, indirizzato sui quartieri alti,
quando la stessa giunta approva un ordine del giorno in cui il piano
regolatore è ridotto a "piano di massima", mentre si
avverte che "il Consiglio si riserva di discutere partitamente
ogni tratto di lavoro allorquando verrà l'opportunità dell'
esecuzione"? Mentre il Campidoglio "si riserva" o deve
fare i conti con sedicenti architetti che, fiutata la possibilità di
guadagno offerta dalle necessità di una nuova capitale, si lanciano
in ardite proposte come quella di impiantare la Camera dei Deputati
al Colosseo, coprendolo con una volta di cristallo, le imprese
immobiliari spadroneggiano. Non è ancora entrato in vigore il piano
regolatore, e già il Comune ha firmato sette convenzioni per
quartieri localizzati al di là delle mura cittadine.
La partita decisiva tra
gruppi privati e pubbliche istituzioni si gioca sulla riva destra del
Tevere, attorno a un terreno melmoso invaso da ortaglie e vegetazione
spontanea, incassato fra Monte Mario e la fortezza di Castel Sant'
Angelo: i Prati di Castello. Un consorzio di finanzieri di
Francoforte, Amsterdam, Vienna, Torino, Napoli e Roma vi ha subito
individuato il cuore della futura città e ha acquistato a prezzi
agricoli quell' area paludosa. Nel 1872 l'architetto Cipolla presenta
su incarico del consorzio il progetto di un grande quartiere
residenziale, solcato da un boulevard che dovrà collegare
Piazza del Popolo a Piazza San Pietro, sventrando il Borgo. Due ponti
collegheranno il nuovo quartiere al centro storico. Stato e Comune si
incaricheranno di rafforzare gli argini del Tevere per impedire le
inondazioni. Accogliere questo progetto significherebbe stravolgere
l'idea dello sviluppo unidirezionale verso Est, sostenuta dai
proprietari di quelle aree, da Sella e dalla maggior parte dei
pubblici amministratori. La commissione tecnica del Comune si orienta
perciò a riservare i Prati di Castello per "grandi piazze,
fiere di bestiame, ippodromi, mercato di commestibili, locali di
pubbliche esposizioni, stabilimenti di bagni e cose simili".
Sulle pendici di Monte Mario si progetta addirittura un "Tivoli",
un enorme Luna park servito da una funicolare.
La contesa fra
"prataroli" e "monticiani" (i fautori dello
sviluppo sui colli) è anche l'occasione di un'aspra disputa
politico-ideologica. A favore di Prati si schierano i liberali
radicali, i mazziniani, gli anticlericali intransigenti, Garibaldi in
persona. Costoro vedono nel futuro quartiere borghese a ridosso di
San Pietro una sfida laica contro il "papa prigioniero".
Lì, a un passo dai sacri palazzi, l'Italia moderna costruirà un
Palazzo di Giustizia, emblema della civiltà liberale, monito contro
le velleità temporaliste del clero. Campione di questo partito è
dal 1872 il sindaco Luigi Pianciani, democratico mazziniano, che non
perde occasione per denunciare l'oppressione spirituale del "prete".
Per contro la stampa clericale e l'opinione pubblica moderata
considerano la riva destra del Tevere un "cuscinetto" fra
Italia e Vaticano, fra la Roma tuttora devota al papa re e i
"buzzurri" che si stanno installando nei quartieri alti. Lo
scontro resta impregiudicato per lunghi anni. Il piano regolatore del
1873 esclude in via di principio l'edificazione dei Prati, salvo
prevedere per essi un "piano speciale di ampliamento". Il
progetto Cipolla è respinto dal Consiglio comunale perché "astratto
e quasi speculativo", come con raffinata ambiguità s'esprime un
membro della giunta. È chiaro che la riva destra del Tevere non
potrà accogliere in eterno paludi malariche e piante selvatiche, ma
la prassi pilatesca del Comune facilita l' urbanizzazione "spontanea"
pilotata dai trust finanziari.
Non scegliendo il Comune,
scelgono infine i privati, i quali non acquistarono certo 65 ettari
di terreno edificabile per coltivarvi broccoli o cavoli. E allora,
siccome in Prati non sarà possibile costruire nulla fintanto che non
sarà possibile un collegamento diretto con la sponda sinistra, i
proprietari delle aree perdono la pazienza: nel 1878 costituiscono
una società-ombra e affidano alle officine Cottrau di Napoli la
costruzione di un ponte di ferro a Ripetta. Prima, i romani che
avessero voluto attraversare il Tevere a quell'altezza non
disponevano che della celebre barca di Toto, mitico fiumarolo che
deteneva il monopolio dei traghettamenti in quel tratto d'acqua. Da
tempo immemorabile Toto trasportava al di là della corrente i pochi
romani che s'avventuravano nella selva di Prati. Solo la domenica il
traffico s'infittiva: borghesi e ministri, aristocratici e popolani
s'imbarcavano su quel barcone a fondo piatto per guadagnare le
osterie suburbane e gustare le "fittuccine al pomidoro", il
pollo spezzato "alla padella" o l'abbacchio alla
cacciatora. Il ponte di ferro spazza via Toto e, quel che è più
grave, l'antico porto di Ripetta. La via ai Prati è aperta. In
pochi anni sorge dal nulla un quartiere residenziale per decine di
migliaia di abitanti. È la fine dell'espansione orientata solo verso
Est. D'ora in avanti Roma crescerà sempre intorno al suo centro
antico, a macchia d' olio.
la Repubblica, 18 novembre 1984