03 marzo 2017

LA CITTA' DEI PORCI


Città dei porci. Il supermercato

di Davide Orecchio

(La supercarne più rossa del rosso. Più sanguinosa di una vena recisa. Più tenera di un boccone di petali. Più nutriente di tre pasti completi. La mangiano gli uomini. Ai maiali, invece, disgusta ← la sua morbidezza, la sua fragranza. Il maiale rifiuta pancarnis.)
[…]
Sul marmo dei padroni e nel cartongesso dei servi. Dov’è la conurbazione degli avi e dei posteri. Nel solco dei padri e sulla calce dei figli. Un maiale si sveglia, riprende coscienza, scioglie le cispe, si ritrova in un parco urbano che sbocca, al di là di un rondò, sull’asfalto ed è tornato in città, e dalla calotta ne riconosce il diorama e le sopravie.
Apre lo sportello dell’ignipotens e mette piede sull’erba che non è la vegetazione di ieri, ora è domestica, sintetica per la microvita della macrocittà e che disastro, o forse fortuna, potrei tornare a casa, riposare un poco, chiarirmi le idee, ma come la trovo?, dove mi trovo? ← pensa Felix e scorge un edificio al di là della siepe, della strada, e vuole raggiungerlo.
S’incammina per la callaia, esce dal parco, corre sul mucchioselvaggio ma non rintraccia nessuno. La città ha zone spurie di transito tra industria e servizi che sono intervalli, che se fossero un uomo non ne troveresti il carattere, che se fossero un libro diresti: non hanno carattere. L’edificio che Felix puntava non ha carattere → il magazzino impiombato e chiuso da chissà quanto tempo; le finestre sigillate da scuri che perdono farina di legno. Non c’è nulla. E nessuno. Non c’è lavoro, non c’è voce, non c’è produzione.
Passa oltre sul mucchioselvaggio tra decine di palazzi così. Qualcosa o qualcuno incontrerò, prima o poi, ma forse è meglio di no e si scoraggia, già debole per la denutrizione, avvilito mentre le forze l’abbandonano, scoraggiato dal fatto che ogni cosa o persona si sbricioli e dissipi mentre già entra in una strada stretta, e sulle finestre dei fabbricati si ripercuote il buio di stanze deserte, non c’è vita e morte neppure, i pluviali sono secchi: dove crescono ragnatele e si riparano i topi e le blatte.
Di chiavica in chiavica, di chiusino in caditoia Felix procede tristissimo. Traspira grasso dal grugno, il sudore delle fatiche subite e che insozzano. Portoni di piombo o alluminio. Ferrocemento, gesso. Neanche il passaggio di un extracarrus. Senza tempra, senza curiosità, si muove a caso, non sa dove andare, eppure cammina. La casa vuota è lui, la strada sgombera è lui, autore del cammino nella scopatura del quartiere tra le cui immondizie c’è ancora lui che trova se stesso con la rotta, il sogno, le anime perse.
Nella coda del topo vede se stesso. Nella poltiglia vede se stesso. Nell’angolo ceneroso. Nei serrami orlati di sudicio. Nella minestra di selci e brecciame. Lo sconforta la chiazza di urina asciugata. In ogni cosa storta suona l’allarme del suo fallimento. Incontra il vetro rotto e va con meno muscoli e ossa, quasi per l’inerzia della sua storia, come se gli bastasse strisciare. Al vecchio si rompe il femore e s’accontenta di stare seduto, e accetta il decubito come forma di vita. Al cieco è sufficiente l’ascolto e ci si aggrappa. Al porco non resta che il viaggio, la necrosi del viaggio, il tormento del viaggio, il dovere del viaggio in cancrena. Così Felix passa sfiorando ed è sfocato, e non sa dove va.
Sta perdendo il desiderio di farcela. Ora s’accorge che laggiù, a tre incroci da qui, due normoarto istruiscono porci, s’imbatte in daffare. Ma li guarda come si guarda la nebbia, il proprio sonno. E non li raggiunge. Cerca aiuto ma non chiede aiuto. Preferisce dondolarsi nel prospetto d’asfalto. Tiene gli occhi rauchi sulle zampe e prende una strada ancora più stretta e riscuote giusto un chiassuolo che gli offre dove incespicare. È buio, angusto, lurido. Il vento s’incanala e solleva carta straccia, pellicole di plastica, piume, peli come se li risvegliasse ma poi, quando si ritrae, finisce col posarli e cullarli. Tra poco il vento tornerà per il circo.
Si potrebbe immaginare un budello il cui compito non sia lasciar scorrere ma trattenere, e in quest’entrame a cielo aperto, ma scortato a destra e sinistra dalle pareti alte di palazzi senza colore, installare il cammino di un maiale tra le aderenze. Si potrebbe paragonare a un rantolo l’itinerario e volgere lo sguardo per non vedere le zampe umiliate da quello che pestano. Quanto pesti però esiste con la sua puzza e la materia che s’attacca e ti contamina, e ancora la cenere, il pulviscolo, lo sterco secco, la polvere avvizzita di aeternus, le mura che aumentano e incombono, il vomito di animali randagi, le piume di uccelli dissugati, ciascuna macchia con la sua origine organica, il dovere di avanzare ed esistere anch’esso come forma di esistenza, l’ostinazione del respirare come forma di esistenza cui nessuno tiene a parte te (la solitudine come forma di esistenza fragile), l’appetito e la nausea, lo sguardo e il ribrezzo, la debolezza e l’inerzia → tutto esiste sommandosi nel porco, finché appare una fessura nel muro che chiude l’approdo del vicolo, ossia il culo di sacco.
Un imbocco. Felix lo raggiunge e inizia a studiarlo. È aperto e consente il passaggio a chi si accoccoli sulle ginocchia. Nello studio della cosa Felix un poco si sveglia, riprende curiosità e si domanda: cos’è questo buco?, sarà il caso di entrare? L’apertura getta caldo a vampate e rumore d’aria spinta da un meccanismo. Dentro è buio, ma s’intravede un tubo che potrebbe essere la conduttura di un’areazione. Accanto, per terra, c’è il sigillo che qualcuno ha scardinato. Poi Felix vede scarti di confezioni, scatolame svuotato, fagioli, foglie di rucola, pane secco, bottiglie, una latta di zucchero, barattoli di caffè, ossa posate su vaschette di polistirolo macchiate di sangue. Avanzi sparsi per terra ai piedi di un muro rosso, come digeriti ed evacuati. Sembrano i resti di un pasto e lui si accovaccia, infila la testa nel tubo, poi una mano avanti, poi un ginocchio, poi l’altra mano e l’altro ginocchio ed è entrato.
Ora striscia nel condotto nero. Gocce d’acqua, vapore al rovescio, gli cadono addosso. Scivola sulle pareti innaffiate. Urta una spalla. Ansima. Si rialza. L’aria turbina ed è il rumore dell’antro. Si graffia un po’ le ginocchia, le mani un po’, i gomiti, starnutisce nell’umido, penetra il caldo. Va all’incontrario nel ventre, dall’uscita verso l’ingresso. Ora c’è luce. Qualcosa di luce. Si vede che l’altro capo è vicino. Ma se c’è luce resta anche buio, ossia l’una definisce l’altro e il contrario. Ma è vero che la luce aumenta e il buio cala.
Non è lunga, la tubatura. È già finita. Felix è al cospetto di una grata di resina. Posa l’occhio sulle feritoie. C’è un bagliore e ancora luce, ormai la sorgente, in uno spazio bianco, pulito, attorniato da scaffali bianchi colmi di merce che Felix, lontano, non riconosce. Ma dev’essere cibo. Ma dev’essere un forum. Dei normoarto. È la strategia. I magazzini del cibo allignano nei distretti della desolazione, antifecondano pericoli, assalti, proteggono il cibo sui nastri automatici ← robot smistano gli ordini verso i funghi, verso le orchidee; i porci non frequentano i forum, ai porci la pancarnis non interessa, i forum sono vietati ai porci ma Felix, disordinato dalle coincidenze, imbrogliato da enigmi, disanimato dagli accidenti, convinto di essere un naufrago vuole verificare, vuole sapere e decide di entrare e stacca la grata (alla rete della città la grata comunica che Felix sta entrando), volge il corpo, afferra il muro, cala le zampe, le poggia sullo scaffale più alto, poi sul penultimo, poi sul terzultimo intanto aggrappandosi all’ultimo, insomma viene giù finché atterra e subito corre a nascondersi in un angolo, così che i robot non lo vedano.
Nella corsia dei viveri. È tutto bianco. Anche le confezioni. È una gondola lunga, bianca, colma di ripiani carichi di merce impacchettata nel bianco. Felix poggia le spalle su una scaffalatura. Ha fame, ma non sa che mangiare. Non vede l’erba e le ghiande fra la mercanzia, tra le scorte di viveri, bevande, piatti pronti, biscotti, etichette, il marzapane, il leccume, le pappe e tutto il bendidio, cibo in scatola, in polvere, imbustinato, surgelato, precotto, macrobiotico, le vitamine, le proteine. Ma non vede l’erba e le ghiande. Suppone l’assortimento di pseudocarni, pseudopesci e molluschi → simulacri per il desiderio polifagico, normoarto di ingurgitare creature che volassero, pascolassero, nuotassero. Immagina il ristucco, la sazietà, la nausea e gli manca il fiato. Ha fame. Ma non vede l’erba e le ghiande. Anche il più innocuo dei pani potrebbe essere intruglio. Meglio astenersi.
Ma non sa cosa cerca, cos’è venuto a verificare. Nello spazio candido. Un montacarichi s’aziona e spaventa Felix. Teme il consumo e l’abbondanza che coglie nelle provviste. I forum dei grandifrogie non sono ricchi così. Tanto spreco lo disgusta anche. E cosa c’è dentro quelle buste, torna a chiedersi? Quale vivanda elaborata? Quali forme un tempo di vita e adesso di vitto? Espositori lunghi decine di metri, alti metri su metri, nel bianco. L’intensità della luce bianca gli dà l’emicrania. Nessuna finestra. La merce come deceduta, contenitore di ex pseudocreature raffinate in prodotti inerti e forse nutrienti o forse nocivi. Un cimitero di maschere. Una messinscena in forma di pacchetto e moltiplicazione di pacchetti: bianchi.
Felix capisce il segreto di questi luoghi: è che lo disgustano, non sono adatti al suo sguardo. Ma non vede l’erba e le ghiande. Ma non sa cosa sia la pancarnis. Non l’ha mai voluto sapere, ma è l’ora di verificare e gli pare d’aver sbirciato un traguardo; è lontano e gli sembra la forma di un nastro, un punto dove la corsia finisce. Dall’altra parte invece, verso destra, non c’è nulla se non il limite della sua vista, il declino dello sguardo (non) oltre la nebbia degli scaffali e sotto l’accanimento della luce, nel bianco. Quindi lui striscia verso sinistra senza fiducia, senza coraggio, senza rumore.
Una cordigliera di prodotti immobili, se non per l’aria condizionata che solletica custodie e sposta pellicole, presiede al gattonare di Felix che si fa avanti con la cautela della testuggine e gli sembra che non debba finire più, mano sinistra e ginocchio destro, mano destra e ginocchio sinistro. Non s’alza, non si ferma né indietreggia, nello stile della testuggine → il posto è deserto. I robot lo ignorano. Di cosa ha paura? ← del sistema che intuisce appena. Paura e ostinazione: è un mescolo che lo costringe ad avanzare seppure acquattato, però senza arresti, al modo della testuggine. Ancora rumori: montacarichi, traslazioni non viste ma udite, consegne in partenza sui droni, forse una risata o un messaggio vocale l’intimoriscono e convincono a restare chino.
Eppure va avanti, mano e ginocchio, mano e ginocchio, finché arriva al nastro, che è un nastro di carni. È gonfio di rocchi, di fette e tocchetti. C’è un tagliere. C’è un tritarcarne. C’è un trinciapollo. C’è una mannaia. Cosce di pseudovitello e pseudotacchino. Quarti di bue sintetico sullo sfondo. Bistecche, fettine, lombi, fese e girelli. È pronto per il filetto, se qualcuno lo chiede; e per il macinato.
Felix alza il muso e si accorge, però, che è tutta uguale, la carne, cambia nella forma ma non nella sostanza che smaglia, più che rossa è arancione, lucida e fosforescente, affettata sulle vasche di maiolica dove l’hanno sdraiata. Forse non è nemmeno carne, ragiona Felix. E invece lo è. Quello che non è, è che non è pseudocarne. È carne, è supercarne, è pancarnis: lo spiega un display sulla testa del nastro e di Felix, che ora legge, appunto, “Pancarnis”, e la riconosce; poi il novero seguita nelle sottospecie della “pancarnis al sapore di pollo”, e della “pancarnis al sapore di abbacchio”, e della “pancarnis al sapore di tonno”. La carne camaleontica. Prende le forme desiderate. Dal desiderio. Sembra che si prostituisca. Grazie agli aromi, agli impianti genetici. È pronta a non essere nulla, pur di essere tutto. Che strane abitudini hanno gli uomini – (riflette Felix) – di mangiare cose che hanno il gusto, di altre cose, di non pretendere, il vero, ma per dettato, coscienza, lavoro sembra che sbagli, perché sul display l’elencazione prosegue finché si rivela la “pancarnis nel suo sapore”, “l’originale sapore della pancarnis, che viene dal maiale della città”, “fresco, del quinto anno”, “stagionato, in salame”.
.
“Che viene dal maiale
della città”.

Qui non ci sono
l’erba e le ghiande.

“Fresco, del quinto anno.
Stagionato, in salame”.
“Capocollo, biroldo, àrista, cotica e coppa, lardo e guanciale, spalla, nicchio, ventresca, pancetta, zampone, roventino, culatello, strutto” → nella città, sul marmo dei padroni e nel cartongesso dei servi, dov’è la conurbazione degli avi e dei posteri, nel solco dei padri e sulla calce dei figli ← il maiale si vende, il maiale si compra, il maiale si mangia e il maiale cade sul pavimento del forum, è steso, ha le spalle contro il pavimento del mondo, ha gli occhi bene aperti sul mondo, ha la bocca bene aperta per il mondo che entra nella vita nuova di Felix che era il maiale senza memoria, senza sapere, che è il porco il quale oggi vede → un ologramma sulla testa del nastro e della pancarnis, come a riprodurre pubblicità del Novecento, mostra una donna dentro la casa di un fungo di città alta, nella sua zona di alimentazione, che taglia una fetta da un insaccato non molto diverso da quelli del capanno del bifolco nel bosco, e la offre a suo figlio che se l’infila in bocca, l’assapora, la scioglie e dice buona! con gli occhi.
{ “L’originale sapore della pancarnis, che viene dal maiale della città”. }
I normoarto dicono buona con gli occhi mentre dal pavimento del mondo, rannicchiato tra quello e lo scaffale come uno che giochi a nascondino, sdraiato pancia a terra e la fronte sul braccio, Felix urla No!; Cos’è questa vita? – piange Felix –, che sta succedendo? E l’ologramma prosegue. Il prosciutto dalle mani della madre al palato del figlio. Le ghiottonerie. I volti felici. La buona educazione dei normoarto. Le frasi fatte. Il sapore di carne. Il sapore nuovo. La mortalità. La ferocia. Il potere. La cosmesi. L’ipocrisia. Il prezzo della carne. Non voglio guardare, non voglio sapere. La luce bianca Astroeclissi™. Il colore arancione che smaglia. La verità. Il gusto dell’uomo, la sua gola. Il condimento, la conserva. I grani di pepe tra i denti, le scorie di pelle. Il grasso. Il sale, la sete.
E si sente piangere. Si sente un lamento. Viene dal basso. Tradisce un grugnito. Un pianto che si nutre del lamento e cresce per autogenesi. Si gonfia. Si fomenta. Allora si muove un robot. Viene avanti dal nastro, si tiene al centro del corridoio. Guarda in basso. Dove il pianto aumenta. Il pianto si sfoga. È desolato e ascoltandosi s’affligge. È un pianto che stride ed erutta. Si ascolta, non trova nient’altro da ascoltare e perciò piange. La fronte sul braccio per non vedere. La pancia a terra. Le ginocchia fredde. Il moccio interrompe il respiro. Fiotti di gemiti dalla gola usata per respirare, che invece prorompe.
Il robot si china, vede il maiale. I denti, la polvere, le unghie. La verità. L’abbandono. Il derelitto sotto lo scaffale. La vita come un movimento dal passato che poi imbocca il culo di sacco. Il pianto ha solo il pianto. Mangia pianto, beve pianto, lo respira. Il pianto rifiuto. Il pianto in rivolta, senza la forza né la violenza. Il pianto si rannicchia e non vorrebbe esibirsi, ma scoppia la reazione dell’individuo dentro la natura del corpo (per uscirne e gridare pianto): col pianto. Così ogni singhiozzo e convulsione sfugge a un domatore sconfitto. È stato inutile acquattarsi. Senza effetto piangere tra il muro e lo scaffale. È superfluo nascondere gli occhi nel braccio. Ormai il pianto è pubblico. Il lamento del porco nel forum degli uomini tra pezzi di carne e il robot. Il pianto spettacolo.
Il robot continua a osservarlo: un maiale accucciato che piange in un forum, dove non dovrebbe essere ← riceve il comando di portarlo via. E il pianto, che ascoltava il comando, aumenta in un grido. Adesso viene una percussione dal corridoio gondola. Passi, tacchi robotici. Oggetti spostati. Impazienza. Cade qualcosa. Il pianto non smette. Ora cambia ritmo per la stanchezza di corde vocali e trachea. I gemiti rimbalzano tra le pause come polpette. Silenzio, polpetta gemito, silenzio, polpetta gemito. Il pianto di Felix rovista nel corpo di Felix. Corre nelle caverne in cerca di consenso: è giusto che io pianga e mi disperi?, trova consenso e riemerge per enunciare il suo pianto.
Piangendo, il pianto si spiega. Chiunque ascoltandolo capirebbe perché piange. Ma come posso parlare il suono del suo pianto? Tu riesci a sentirlo? Il dettato? I segni non emettono suoni. E io sono debole. Penso a un soldato sulla spiaggia di sangue, il corpo maciullato, la gamba divelta; prima gridava, ma ora s’è sfiatato e tra poco rantolerà. Il pianto protesta. I passi sono il galoppo di un branco e ora si fermano. Il branco è arrivato. Altri tre robot che s’aggiungono al primo. Due afferrano la zampa destra di Felix. Due la zampa sinistra. Lo tirano. Un maiale tappeto. Felix pensa solo al pianto. Rifiuta di mettersi in piedi. Rammollisce, non cammina. I robot lo issano per la schiena e lo portano in alto. Le mani di plastica come puntelli e materassi per Felix che ora sta a pancia in su vicino al soffitto. Nella luce, nel bianco, nel pianto.
Inizia la marcia. Verso l’uscita. Felix vivo e lagnoso ma trincerato dietro agli occhi e nel pianto. Trasportato in silenzio. L’unico suono è il suo pianto. Felix esanime se non per il pianto che cola sui pori della pelle e la irriga ed entra per le labbra nella bocca che respira e geme; anche sui robot ne cola un poco. Lambiscono merci. Sul corridoio lungo. Salame e bistecche colmano il suo (non) sguardo. Felix portato sul dorso. Le braccia scivolano, penzolano, sfiorano le spalle robot. Nelle zampe inerti si arrende. Le zampe denunciano la forza che gli è mancata. Non sono zampe. Chiamale mani. Gli zigomi rossi. Il sudore. Una smorfia lo modifica a tal punto da sembrare un ghigno e si somma al piagnisteo che, cantilenato, assomiglia a uno sfottò, a un’isteria, a un piantoriso. Invece non ride affatto. Piange il suo pianto.
Il torace palpita. Mica solo il cuore. Il ventre, il petto e i polmoni. La carotide. La mandibola. La processione come una lenta nuotata sul dorso nella corsia. Se ci fosse acqua a portarlo e una leggera corrente, e non i robot, allora piangerebbe l’acqua che lo sospinge. Il pianto sarebbe il suo fiume. Ma anche adesso non è diverso, visto che piange. Ghermito, il grugno puntato verso il soffitto, la testa calva e rosa che ha perso il cappello, le fauci insalivate, le unghie svenevoli, il verro si concentra su quanto lo spezza, sebbene lo pensi con riserbo e senza dirlo se non col pianto: sono solo, chi non lo sarebbe se scoprisse di stare al mondo per lavorare e poi un giorno essere mangiato?
Ed ecco l’uscita. La luce naturale. La sfocatura della città bassa. Scendono una rampa di scale. Ora Felix s’irrigidisce e sembra un cadavere. Apre gli occhi. Vede le guglie di città alta. I robot lo posano su un ignipotens. Salgono con lui due robot. L’ignipotens s’invola. A bordo, Felix spegne l’ascolto della memoria avariata e dei fatti di oggi e di ieri, rifiuta le rievocazioni e i traumi che ora sono orfani della mente (la madre adottiva) e della realtà (la madre naturale). La realtà è la madre naturale di ogni turbamento, ma la madre adottiva è la mente che alleva e tiene in vita il ricordo del dolore, un’altra forma di dolore, finché si fortifica ed è adulto. Succede però che la madre adottiva si consenta pause e rifiuti il ricordo, come adesso Felix lo esonera.
Parlerà e piangerà ancora, e denuncerà? Silenzio, il maiale riposa.

DAVIDE ORECCHIO

Da  https://www.nazioneindiana.com/2017/03/03/citta-dei-porci-il-supermercato/?pk_campaign=feed&pk_kwd=citta-dei-porci-il-supermercato&utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed%3A+NazioneIndiana+%28Nazione+Indiana%29

Parte 1: l’appartamento, la città
Parte 2: una gita in campagna

(Foto: Pig slavesDoctor Who; fonte: http://tardis.wikia.com/wiki/Pig_slave)

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