02 marzo 2017

IL GIORNALISMO DI MATILDE SERAO

Politica e sentimento. Il giornalismo di Matilde Serao 

Lucio Villari

Proprietario e direttore di un quotidiano romano, “Il Tempo” (giornale « fatto senza troppa finezza e senza troppi scrupoli » e tuttavia molto diffuso), Riccardo Joanna resiste alla pressione di alcuni Uomini politici che vogliono comprare il giornale per un milione di lire (siamo alla fine del secolo scorso). È il principio della fine: “Il Tempo” va a rotoli e Joanna, chiudendo la sua giornata, consiglierà, mestamente, un giovane amico apprendista a trovarsi un altro mestiere. «Non posso, disse questi con voce grave. — Farò il giornalista».
Questo direttore sconfitto è il protagonista di uno dei rari «romanzi del giornalismo» della nostra letteratura: La vita e le avventure di Riccardo Joanna (1887). In esso Matilde Serao ha manifestato la sua idea di un giornalismo vissuto, anzitutto, come «sentimento», come rapporto sensitivo, indi-pendente, perfino, dai contenuti, culturali o politici, che in un giornale vanno comunque versati e dal giornale debbono scaturire. Tale visione, ruvida e calda, la Serao la porterà con sé nella varia attività di giornalista e di direttrice congiungendola, con grande naturalezza, all’abilissimo mestiere del giornalista-marito Edoardo Scarfoglio, insuperabile confezionatore (insieme ai figli Carlo e Paolo) del “Mattino” di Napoli.
E quando, lasciato II Mattino, la Serao si trovò sola con se stessa e con la letteratura, rivendicò presto la sua identità fondando, nel 1904, un nuovo giornale, “Il Giorno”, che negli anni immediatamente precedenti l’avvento del fascismo volle mostrare un aspetto bonario della borghesia meridionale e fu, come è stato osservato, «il rovescio pacifico ed accomodante della medaglia del Mattino ».
Una medaglia, “Il Mattino”, da tenere gelosamente in collezione perché vi è sbalzata molta parte della storia d’Italia a cavallo tra i due secoli dalla «grande frustrazione» meridionale ai più violenti spiriti militaristici e imperialistici della borghesia di Crispi. Scarfoglio e la Serao si intendevano a perfezione quando si trattava di eccitare gli animi dei lettori a «egregie cose» quali le spedizioni coloniali e la sottomissione di inermi popolazioni abissine. Dalla penna della Serao fiorivano, talvolta con pseudonimi, guarda caso, maschili, articoli fiammeggianti (« Non vedete — scriveva nel 1895 —• come l'Italia vuole dare [in Africa] il suo sangue? Non vedete che vogliono morire e lo richiedono, ridendo e cantando"? »). A loro giustificazioni deve però dirsi che lo stato di approssimazione incosciente con cui i nostri governi liberali organizzavano aggressioni colonialistiche diminuiva di molto la responsabilità morale e politica n di alcuni giornalisti entusiasti.
“Il Mattino era comunque il giornale più diffuso del Mezzogiorno e aderiva molto bene sia alla tradizione che alle variazioni della società napoletana. «Gli Scarfoglio - dirà poi Gramsci — erano dei giornalisti nati, cioè possedevano quella intuizione rapida e “simpatica” delle correnti passionali popolari più profonde che rende possibile la diffusione della stampa gialla ». Ed è singolare che di ciò fossero capaci Scarfoglio e la Serao che non erano napoletani e ohe avevano maturato la loro esperienza di giornalisti in un clima sociale molto diverso, quello di Roma. Questo fa pensare che l’opinione pubblica meridionale, la «cultura media» del Mezzogiorno si trovassero, alla fine dell'Ottocento e agli inizi del secolo nuovo, in uno stato di ipersensibilità, di tensione politica, di volontà di «separazione» dal resto dell’Italia, insomma in una condizione tale da costituire il luogo ideale per un giornalismo tendente a formare più che a informare. E non è detto che questo non fosse il prodotto della depressione economico-sociale del Mezzogiorno; solo che quel misto di inquietudine e di dilettantismo, di popolarismo e di chic europeo di una certa Napoli che “Il Mattino” interpretava in modo agile e moderno formano qualcosa di più sottile, una particolare ideologia, venata di nostalgie conservatrici e di spiriti avventurosi e guerrieri, sulla quale sarebbe utile indagare non con puntigliosità scolastica ma semplicemente con curiosità storica intelligente.
La posizione politica della Serao giornalista, ad esempio, ha avuto delle evoluzioni che non sarebbero comprensibili al di fuori di quella trama ideologica «sui generis». Come direttrice del “Giorno” ella aderì, sostanzialmente, alle posizioni di Nitti, cioè a un certo radicalismo progressivo che lei però (ecco l’ideologia) riusciva a smussare con dei tocchi conservatori. Il disegno nittiano di un Mezzogiorno riscattato da un moderno capitalismo industriale veniva diluito dalla Serao in una visione più «dégagé» delle necessità dello sviluppo economico del Sud.
La grande fiducia nell’intelligenza dei meridionali, nel loro trasformismo politico, era anche alla base dell’atteggiamento del “Giorno” nei confronti del fascismo montante. Un fascismo che la Serao e i suoi collaboratori (tra i quali vi fu anche Luigi Salvatorelli) ritenevano potesse essere addormentato, prosciugato dei suoi elementi di violenza e restituito come strumento di potere neo-liberale e antisocialista. «Il fascismo — scriveva “Il Giorno” nel 1921 — è un errore che va a schiacciarsi contro un altro errore e dai quali, simultaneamente, il buon senso paesano ha il dovere di guardarsi ».
È facile parlare di qualunquismo «ante litteram», in verità questa posizione morbida e annoiata della Serao nei confronti del fascismo è stata il perno della maggior parte dell’antifascismo italiano, quell’antifascismo borghese del «buon senso» che ha orientato non solo molte coscienze durante la dittatura ma molte strutture di potere della nostra repubblica. Con i risultati che sappiamo.
Non dimentichiamo, infatti, che molte antipatie antifasciste nascevano, specie nel Mezzogiorno, non dal dissenso politico nei confronti della dittatura ma dal fastidio per quel tanto di «popolare» che vi era nelle opere e nei giorni del regime. L’esperienza politica e giornalistica dell’ultima Serao va dunque valutata come un documento importante della nostra storia contemporanea.
“la Repubblica”, 21 febbraio 1977

Nessun commento:

Posta un commento