18 marzo 2017

SAN GIUSEPPE NELLA TRADIZIONE POPOLARE SICILIANA








       I santi, come si sa, occupano un posto centrale nella cultura popolare siciliana. San Giuseppe, poi, è stato sempre uno dei santi più amati dal popolo siciliano. Anche noi, oggi, lo vogliamo ricordare con l'aiuto di due articoli di Francesca La Grutta e di Angelo Cucco, già pubblicati in altri siti,  e con  alcune preghiere e filastrocche, in dialetto marinese, che l'amica Anna Fragale ci ha permesso di riprodurre in questo blog. Cominciamo da queste ultime:



San Giuseppi quann' era nicu
Sinni ja a cogghiri ficu
E di quantu nn' avia manciatu
Si sinteva disturbatu!

San Giuseppi giovanutteddu
S'accatta` serra e marteddu
E pi non muriri di fami
S'allocau nn'un falegnami!


San Giuseppi 'nsantitati
Cu Maria vinni spusatu
Matrimoni e viscuvati
Di lu celu su calati!


San Giuseppi a Nazaretti
Cu Gesuzzu e Maria stetti
E furmaru la Sacra Famigghia
Ca nni duna timuri e cunsigghia!


San Giuseppi l'ebanista
Fu lu primu socialista
Nni fu tantu nfervoratu
Ca funnau lu...sinnacatu!


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La Madinnuzza 'ncammara sidia
Li robi a San Giuseppi puntiava
Pizzudda vecchi e novi ci mittia
A comu li putia accummidari... San Giusippuzzu di fora vinia Purtava un panareddu di cirasi... Lu Bammineddu all'incontru ci ja: "Mamma, mamma, mamciamu ca veni lu tata?". "No Figghiu, mancia tu ca si picciriddu, Ca ju aspettu a to patri vicchiareddu... Ti conzu na culla all'arbulicchiu Pi fariti sintiri lu cantu di l'aceddu!" ...Passunu li Tri Rimaggi e dicinu vidennu lu Figghiu di Maria: "...Quantu è beddu!!!".


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Quannu la Madunnuzza cucinava
ogghiu e putrusinu ci mittia...
Lu ciavuru facia curriri San Giuseppi di la putia...
doppu manciatu Maruzza si puliziava e 'ncasa di Sant'Anna si nni ja Picchi a la nascita di Gesù si priparava e idda cosi boni ci 'nsignava... Passa lu tempu e lu Bammineddu nasci pi lavarici a tutti l'omini li grasci... E quannu fu grannuzzu a la putia si nni ja "Bonu vinutu figghiu di Maria Pigghia la sirricedda ca sirramu" E tutti li lignicedda a forma di cruci li facia! "Chi stati facennu figghiu di Maria?": A Iddu San Giuseppi ci dicia... E Iddu c'arrispunnia duci, duci: "A l'omini ha sarvari cu la Cruci!"
 
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La Madinnuzza 'ncammara sidia
Li robi a San Giuseppi puntiava
Pizzudda vecchi e novi ci mittia
A comu li putia accummidari...
San Giusippuzzu di fora vinia
Purtava un panareddu di cirasi...
Lu Bammineddu all'incontru ci ja:
"Mamma, mamma,
mamciamu ca veni lu tata?".
"No Figghiu, mancia tu ca si picciriddu,
Ca ju aspettu a to patri vicchiareddu...
Ti conzu na culla all'arbulicchiu
Pi fariti sintiri lu cantu di l'aceddu!"
...Passunu li Tri Rimaggi
e dicinu vidennu lu Figghiu di Maria:
"...Quantu è beddu!!!".

Fonte: la memoria di Anna Fragale (Marineo)


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                                       I mestieri scomparsi
                  C’era una volta e c’è ancora oggi ... l’Arte Bianca
                                       I Pani di San Giuseppe
                                      di Francesca La Grutta


“La cultura umana, la tecnica di frantumazione ed il consumo dei cereali sono strettamente legati fin dall’antichità al problema della nutrizione. Gli uomini primitivi non hanno conosciuto attrezzi per frantumare il grano poiché avevano mandibole talmente forti da rompere anche le noci. Solo in seguito, quando la forza della mandibola retrocesse ed aumentò l’intelligenza, l’uomo si avvalse delle pietre per frantumare il grano. Le prime notizie precise risalgono ai Sumeri, popolo che per primo si affacciò alla storia verso il 4.000 A. C. Nelle loro città, il tempio, che era sempre vicino al palazzo reale, fungeva da deposito delle granaglie ed il Grande Sacerdote ne era il custode.
I primi mulini a mano preistorici erano costituiti di un piatto di roccia di grande resistenza sul quale veniva sparsa una manciata di frumento per volta. I chicchi venivano frantumati con altra pietra dura, focaia, di forma rotondeggiante o piatta. Dalle prime pietre si passò ad un rudimentale mortaio composto da un trogolo e da un pestello, sistema ancora in uso in Africa e presso le popolazioni primitive. Il sistema, in verità grossolano, venne migliorato dagli Egiziani che incominciarono a ripassare su un contenitore piano e cilindrico, i granuli più grossi, in modo da ridurli per poter usare il prodotto così ottenuto anche per i bambini. Il primo tentativo di sfruttare il movimento rotatorio di due pietre circolari sovrapposte, di cm. 30 c. a., chiamate mole, fu realizzato dai greci, nel 3000 A.C. Bisognerà aspettare i Romani, però per poter parlare di vera e propria tecnica artigianale della “attività molitoria”. Presso gli Egiziani, i Greci e i Romani, i mulini erano mossi principalmente da animali, ma anche da schiavi, cittadini poveri, condannati. I mulini ad acqua furono un’invenzione del bacino orientale del Mediterraneo, la loro esistenza risale al I secolo A. C. Durante il tempo di Ottaviano Augusto, gli stessi, come ci tramanda Plinio, furono ampiamente costruiti a Roma sfruttando ruscelli e corsi d’acqua. Nel III e IV secolo d. C. , vi erano tre tipi di mulino: mulino a mano ( molae manuarie), mulino ad animale (molae iumentariae) e mulino ad acqua (molae acquariae). Anche Leonardo da Vinci, vegetariano, studiò i mulini ad acqua in ogni loro dettaglio. Quasi tutti i mulini con tramoggia, alla fine del secolo XVIII, erano ad acqua, esclusi quelli olandesi le cui pale delle ruote venivano azionate dal vento. Nella prima metà del XIX secolo, si raggiunse l’optimum delle cognizioni tecniche in materia di mulini e si ottennero i massimi risultati con le macine per mulini a pietra. Tra le novità introdotte, da evidenziare l’impiego di macine di quarzo più dure e capaci di reggere l’aumento della capacità di rotazione, la costruzione di parti in ghisa e acciaio al posto del legno, l’utilizzo di energie alternative come il vapore e l’elettricità. Il passaggio dalle macine a pietra al mulino a cilindri, nel XIX secolo, avvenne per l’appunto grazie all’invenzione della macchina a vapore e alla scoperta dell’elettricità. Ormai il cereale non viene più schiacciato e “confricato”, ma passa attraverso coppie di cilindri rotanti di ghisa dura. In tal modo viene realizzato un prodotto più raffinato e viene ridotto il surriscaldamento delle farine e, conseguentemente, il loro deterioramento. Oggi nell’industria alimentare, per mulino si intende l’intero impianto di trasformazione del frumento in sfarinati. Si dice che tre sono le persone che possono portare il camice bianco: i sacerdoti, i medici e i mugnai. Da sempre il mugnaio ha prodotto la farina e il fornaio e il pastaio hanno prodotto pane e pasta. La panificazione da sempre è stata considerata un’arte, comunemente definita Arte Bianca, ma quella che veramente è un’arte è la realizzazione dei panuzzi votivi .In Sicilia si realizzano panuzzi in occasione di molte feste religiose, ma quelli più famosi, e forse anche più belli, sono quelli che le donne realizzano in casa già un mese prima del 19 marzo, festa di san Giuseppe. Una tradizione, quella della festa di San Giuseppe, che affonda le radici nella mitologia greca con un preciso richiamo al culto di Demetra. La celebrazione della festa di San Giuseppe, il 19 marzo, risale al 1400 e si concretizza nella cultura popolare con la preparazione dei pani chiamati 'Cene di San Giuseppe' per ricordare l'ultima cena di Gesù con gli apostoli. San Giuseppe in Sicilia si conferma uno dei santi più amati, a giudicare dai numerosi festeggiamenti di cui è oggetto. E quella di San Giuseppe è una delle feste più tipiche e suggestive della tradizione dell'Isola. Un intreccio di fantasia e di abilità materiale, perché questa solare celebrazione del pane, quindi della fertilità e dell’abbondanza, apre anche le porte alla primavera. Feste che hanno il sapore di un risveglio dal torpore dell'inverno dato che il 19 marzo coincide con l'equinozio di primavera. Nei primi del 1600 San Giuseppe compare nel calendario romano universale e fino all'anno 1977 la data figura tra le festività religiose nazionali. I Pani votivi della Sicilia, vere sculture elaboratissime, oltre a raffigurare frutta, fiori, animali, mostrano dei costanti richiami simbolici alla sacralità di una festa che unisce al fervore religioso lo spirito di rinnovamento della terra nel momento che precede la primavera. Un culto che quasi sicuramente ha origini arcaiche: i culti della fertilità della terra in onore delle divinità delle messi: Demetra nella mitologia greca, Cerere in quella romana. A Demetra si attribuisce anche la nascita del pane, alimento di maggiore attenzione durante questa festa in quasi tutti i paesi della Sicilia. I pani vengono ricamati con varie forme che richiamano la natura, fiori, piante, animali, oppure le forme della religiosità cristiana, angeli, scale, sandali, corone di spine, croci, bastone e giglio di San Giuseppe. Aiutata dalle donne del quartiere, amiche e conoscenti, la donna, che ha fatto il voto di confezionare i panuzzi, lavora giorni e giorni per modellare con vera creatività ed arte tutto il pane. Si impastano quintali di farina, si lavora la pasta fino a che diventa omogenea, si divide in tocchetti e con vera maestria si procede alla modellazione figurativa, usando arnesi comuni come temperini, pettini con fitti denti, aghi, ditali, forbicine e un attrezzo metallico a pinza dentata. I pani del Santo vengono così creati dalle sapienti mani delle donne più esperte e alla fine saranno creati veri capolavori in miniatura. Tutti questi capolavori, prima della 'nfurnata’ (cottura in forno), vengono resi lucidi da una pennellata di chiara d'uovo battuto con succo di limone e, quando il colore dorato ricopre le teglie, la cottura è ultimata. Tutta la fatica dei preparativi viene offerta come un tributo d'amore a San Giuseppe, modello per ogni sposo cristiano. Il pane benedetto da un sacerdote viene poi donato ad amici e parenti che per un anno lo conserveranno nella loro casa come una reliquia . La donna che ha fatto il voto di realizzare i pani può anche preparare nella sua casa , il giorno di San Giuseppe , un altare che realizza allo scopo di chiedere una speciale protezione del focolare domestico e della famiglia dalle avversità. Sugli altari vengono posti pani a forma di croce, la colomba simbolo della pace, il pavone che indica l'immortalità, la palma che indica la redenzione, il pesce simbolo del Cristo, l'agnello che ricorda il sacrificio divino .Sugli altari compaiono spesso anche i caratteristici piatti dove sono cresciuti germogli di frumento, elemento anch'esso di forte simbolicità. Gli altari di ringraziamento sono elemento presente in quasi tutte le culture che si susseguirono in Sicilia, e che incisero nei costumi di varie località dell'isola.. Alcune storiche dominazioni hanno inoltre conferito un personale contributo alla tradizionale decorazione degli altari. Ad esempio, agli arabi si deve l'usanza di arricchire l'allestimento con la presenza di agrumi. In genere l’altare si prepara al centro della sala grande della casa , viene addossato a una parete interamente rivestita con un drappo bianco, deve avere cinque ripiani degradanti, tutti ricoperti di candidi lini ricamati, e si appende in alto un quadro raffigurante la Sacra Famiglia.
Ai lati si dispongono delle mensole con bianche tovaglie ricamate su cui si poggeranno oggetti simbolici di significato costante e di facile lettura: caraffe di vino, vasi di fiori, garofani e ‘balacu’ (violaciocche), frutta, fette di rossa anguria di gesso, lumini, candelabri, vasi con pesciolini rossi, arance e limoni alternati al pane. Ai piedi dell'altare si stende un tappeto dove vengono posati un agnello di pane, di gesso o di cartapesta, in riferimento al sacrificio di Cristo, un'anfora con acqua e un bianco asciugamano, disposto a forma di ‘M’, per ricordare la purificazione e dei piatti con germogli di frumento, che inneggiano alla terra .Questi sono tutti simboli presenti anche nei “sepolcri pasquali” perchè il tempo che intercorre tra la festa di San Giuseppe e la Pasqua, in genere, è breve . Una volta, in tempi lontani , c’era anche U mmitu di San Giuseppi , una usanza questa che oggi si sta riprendendo . U mmitu nasce originariamente come voto di ringraziamento o come voto per propiziasi una grazia. A farlo è in genere una persona devota, che si è impegnata con San Giuseppe a fare un pranzo di beneficenza, (cci prumettu di inchiri i panzuddri a tri picciriddri – prometto di riempire la pancia a tre bambini), per tre bambini poveri che rappresentano la Sacra Famiglia. U mmitu scioglie quindi una promessa, si adempie un voto fatto per fede e si segue la tradizione che ha, da sempre, un cerimoniale, fatto di gesti rituali, preghiere, canti, legato ad una simbologia assai complessa. La cena di San Giuseppe, folklore e rito insieme, è una dimostrazione esteriore di quella religiosità semplice, autentica, spontanea, singolare e piena di valore antropologico, solidarietà e fratellanza. Dopo la questua penitenziale fatta, a volte a piedi scalzi, per tutto il paese di porta in porta, se il voto è pubblicizzato, o a proprie spese se la promessa è: ‘fazzu u mmitu pi chiddu chi pozzu’ (faccio un pranzo per quello che posso) , la padrona di casa prepara , aiutata dai vari membri della famiglia e dalle amiche e vicine di casa, il pranzo, che deve essere di cento portate, deve prevedere nelle varie portate la presenza di tutte le primizie e deve essere servito dagli uomini . I mmiti più belli li ho sempre visti serviti nelle corti dei bagghi (Villapetrosa e Digerbato ) dove veniva, e ancora viene, montato un palco con un tavolo ricoperto da una tovaglia di lino ricamata al quale siedono un anziano che rappresenta San Giuseppe, vestito con un saio marrone e con un bastone in mano, , una giovanissima donna che rappresenta la Madonna, ricoperta da un manto di seta azzurra, e un bambino, che rappresenta Gesù, vestito con un saio candido. Queste tre persone povere mangiano tutto quello che possono mangiare ( cento portate ) e poi portano a casa tutto quello che è stato preparato ed è rimasto . Una tradizione questa che permetteva, e ancora permette, ai meno abbienti di poter avere di che cibarsi per qualche settimana. Oggi l’Arte bianca viene riproposta nelle scuole, nelle parrocchie, nelle famiglie e u mmitu, anche se sempre meno frequentemente, è qualcosa che si sta cercando di conservare nel tempo, per cui possiamo dire : C’era una volta …. Ancora c’è. 

Francesca La Grutta, articolo pubblicato nelle pagg.
12-13 de Il Vomere (Marsala)13 Marzo 2016.





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SAN GIUSEPPI SIDDIATU
alcune tipologie di voto al Santo Patriarca
di
Angelo Cucco

San Giuseppe è una delle figure più care alla devozione popolare siciliana e sono tante le feste che si celebrano in suo onore, molte delle quali, si scindono in due parti distinte ma complementari: una strettamente legata alla Chiesa (con processioni, solenni liturgie ecc.) e una marcatamente più popolare che prevede l’impegno del devoto nella realizzazione di tavole riccamente imbandite, fuochi rituali ed altre macchine festive. Ci occuperemo principalmente di questa seconda modalità di festa cercando di riassumere un argomento molto complesso e vario.

IL VOTO
Alla base di queste realizzazioni festive sta di solito un voto contratto da un singolo o una famiglia. Questo voto è vincolante e deve essere necessariamente sciolto, il Patriarca infatti è benevolo con i suoi devoti ma esige quanto promesso. Molti racconti di voti mancati per dimenticanza mettono in guardia dal promettere un altare, offerte di cibo, la tavula e poi non curarsene. Comune è, ad esempio, quello secondo cui l’immagine di San Giuseppe offeso (affunciatu) o triste (siddiatu) sia apparsa sul fondo del tegame a chi aveva dimenticato di assolvere al voto. Altrettanto comuni sono i racconti di sogni o “apparizioni” in cui il Santo redarguisce il devoto anche bastonandolo.
Il voto dunque come principio di un legame, la promessa, il patto con u Patri a Pruvidenza, nella consapevolezza che, quanto donato, ritornerà e che in ogni bisogno presente e futuro il Santo non abbandonerà i propri devoti: “Nta lu bisognu e nta nicissità San Giusepppi n’aiutirà!” “comu purtasti a Maria in Egittu, aiutatini nto bisognu strittu!
E’ bene ricordare che, oltre alle modalità di voto che andremo ad analizzare, ne esistono altre non meno importanti e diffuse: l’offerta di denaro, l’offerta di ex-voto o gioielli, l’offerta di candele, il seguire la processione a piedi scalzi, l’indossare un abito particolare (detto vutu).

OFFERTE ALIMENTARI
Il voto più comune è sicuramente l’offerta di cibo. Si offre cibo ai cantori che cantano in giro la novena o le parti di San Giuseppe, si può offrire del pane benedetto a chi ne fa richiesta, si può collaborare con offerte alimentari all’allestimento di un altare oppure, e questo è l’uso più diffuso, si può allestire un pranzo (solitamente giorno 19 ma non obbligatoriamente) per un certo numero di persone o bambini bisognosi. Le varie denominazioni assunte da queste figure – i Santi, i viriginiddi, la sacra famiglia, apuostuli ecc.- denunziano l’alterità della loro posizione: In quel momento, a pranzo, si recano figure sacre. Non a caso, a volte , indossano abiti particolari e si rievoca la fuga in Egitto con la reiterata richiesta di ospitalità. Il pranzo dei Santi ha una struttura precisa e prevede momenti rituali di grande intensità emotiva.
Per sciogliere questo voto, che spesso comporta la necessità di ingenti risorse, il devoto compie delle questue (tavula addimannata) e si fa aiutare da un gran numero di amici, vicini di casa e parenti. Nessuno nega il proprio contributo, perché a San Giuseppe non si dice mai di no!. Tutto il lavoro che si svolge è detto “u traficu di San Giuseppi” . All’aspetto caritativo che connota la festa si affianca anche un aspetto sociale di rinsaldamento dei legami, di fare comunità.
Aiuto maggiore serve nei casi in cui si contrae voto a tavula aperta ossia senza un numero prefissato di invitati: chiunque arriva deve essere servito.
Nei casi in cui invece il numero è fisso, l’ingresso delle pietanze nella stanza in cui si consuma il pranzo è spesso segnalato da scoppi di mortaretti e invocazioni gridate di “Evviva u Patriarca San Giuseppi”.
A Palermo, per strada, si allestiscono delle grandi tavolate che accolgono i bisognosi e in cui viene offerto un pranzo completo.
In genere è interdetto l’uso della carne perché San Giuseppe cade sempre in periodo quaresimale.

ALTARI, TAVULE, CENE, MENSE.
All’offerta alimentare si accompagna spesso la costruzione di sontuosi apparati domestici che recano alla sommità l’immagine del Santo e assumono vari nomi nei diversi paesi – tavule, altari, mense, cene ecc.- ed anche diversa struttura. Il principio è tuttavia comune: mettere in mostra la prosperità e il rigoglio naturale in onore di San Giuseppe. Non a caso infatti la festività cade a ridosso dell’equinozio di Primavera e segna un forte momento vitalistico e di confine, di rinascita e di richiesta di prosperità. Per comodità espositiva, quando generalizziamo, useremo il termine altari.
I cibi esposti su questi altari (sia cotti che crudi) possono variare, ma lo schema è sempre quello di una questua iniziale e una redistribuzione ai bisognosi. Immancabili sono comunque il pane, le arance -con il loro significato cosmogonico- e le primizie (gli stessi alimenti trovano spazio anche sui fercoli processionali). Il pane, alimento per eccellenza della tavola, si plasma con le più varie forme che vanno dall’universo naturale, a simboli della sacra famiglia, a parti del corpo del Santo (barba, mano, faccia), agli strumenti del lavoro (che ricordano anche quelli della passione), a simboli cristiani (croci, ostensori, calici) e cosmici (la spirale).
Famosi sono gli artistici pani di Salemi con cui si ricoprono enormi altari detti Cene. Ma altrettanto particolari sono, ad esempio, i pani di Salaparuta e Poggioreale riccamente intagliati su una base di marmellata di fichi (squartucciati). Anche a Palermo è uso fare pani dalla forma particolare per allestire gli altarini, mentre un pane particolare con i pizzi è detto di San Giuseppe.
Alimenti crudi (soprattutto vegetali) figurano in tutte le espressioni votive di Sicilia come a Giarratana, Corleone, Santa Caterina Villarmosa, Prizzi, Montemaggiore, Montelepre, Niscemi, Terrasini ecc. e, gradualmente, si sta diffondendo l’uso di inserire, in apposite stanze, offerte alimentari a lunga conservazione.
Sugli altari votivi, che si aprono solitamente il 18 sera e vengono visitati con ammirazione e devozione, possono trovare posto anche uno straordinario numero di pietanze cotte e dolci. A Borgetto (dove gli altari sono detti Mense), Partinico, San Giuseppe Jato, San Cipirello, Leonforte vige la regola dell’abbondanza e sulla tavola si dispone di tutto, anche olio, vino, acqua ecc. A a Poggioreale e Salaparuta fanno bella mostra tantissimi tipi di dolci, e, nel secondo comune la cura della simmetria è millimetrica.
Negli altari di San Giuseppe possono prendere posto anche piantine di grano germinato decorate con caramelle e confetti (come a Castelbuono, Salemi, Niscemi) prefigurazioni di un’abbondanza che deve ancora arrivare.
Non mancano i sempre verdi (alloro, erbe aromatiche, palme), palese richiamo vitalistico.
Tutto ciò che è presente su queste strutture verrà re-distribuito ai bisognosi secondo varie formule.
Il luogo dove è allestito l’altare diviene sacro. Chi entra non deve chiedere permesso ma salutare il Santo con un segno di croce o, come a Terrasini, acclamando “Evviva u Patriarca San Giuseppi” a cui si risponde con un triplice “Evviva”.

VASTUNI, CANNISTRU E STRAULA
In onore a San Giuseppe si costruiscono anche vere macchine festive.
Un esempio è costituito dal Vastuni di Villabate, una struttura a stendardo-albero ricoperta di fiori, frutta e offerte votive che è condotto in processione per le strade del centro abitato e le cui soste sono festeggiate con offerte di cibo e vino, sparo di mortaretti e momenti di convivialità.
I Cannistri, preparati a Sant’Angelo Muxaro e a San Biagio Platani, sono strutture (solitamente 3) a tempietto riccamente ornate di frutta e fiori al cui interno è custodito il pane votivo. I Cannistri sono posti su piccoli fercoli e portati in processione prima del pranzo dei Santi.
A Straula di Ribera è invece una macchina festiva costruita in alloro e ricoperta di pani votivi. Sul prospetto, simile ad una edicola votiva, è incastonata l’immagine del Santo e trova posto anche l’agnello pasquale. Questa interessante struttura è posta su un carretto e portata in processione -durante la cavalcata dell’alloro- la Domenica precedente la festa.

FUOCHI RITUALI
La sera del 18 è comune in tanti paesi accendere grandi falò in onore di San Giuseppe. Questi fuochi, detti anche vampe o luminarie, sono interpretati in vario modo. Alcuni sostengono servano a riscaldare il passaggio della sacra Famiglia in fuga, altri li interpretano come omaggio al Santo, altri ancora come modo gioioso di vivere la vigilia.
In realtà sono fuochi rituali che segano un momento liminare nel ciclo dell’anno, non dimentichiamo infatti che ci troviamo a pochi giorni dall’equinozio! Il fuoco ha inoltre valore purificatore e sacrale, e trattandosi di un fuoco vigiliare mette in mostra tutte queste qualità.
Tramite il fuoco, comunque, si può offrire al Santo: è il caso degli oggetti nuovi o utilizzabili che vengono accatastati insieme al resto della legna. Le vampe, a volte ancora organizzate da ragazzini, possono assumere anche grandi proporzioni. In molti casi era tollerato anche qualche furtarello rituale di legna o materiale da ardere. Anche a Palermo, nonostante diverse interdizioni e in piena città, si accendono numerose vampe con grande partecipazione popolare.

CAVALCATE
Ultima manifestazione di devozione semi-privata (ad oggi spesso organizzata da enti o associazioni) è costituita dalle cavalcate in onore di San Giuseppe.
Un esempio è la retina di Caccamo che ha le caratteristiche di offerta e questa.
Particolare è invece la cavalcata che si svolge a Scicli il sabato seguente la festa del Santo. Oltre ai cavalli bardati in maniera tradizionale, sfilano dei cavalli coperti da grandi manti artisticamente infiorati con ghirigori, disegni e immagini della sacra famiglia.
Cavalcate si fanno anche a Ribera, Cianciana e Valguarnera.
Le cavalcate sembrano uscire fuori dallo schema del voto, un tempo tuttavia anche questo poteva rientrare nel meccanismo votivo: qualora la grazia fosse stata concessa si sarebbe decorato l’animale e partecipato alla cavalcata portando doni al Santo o si sarebbe questuato a cavallo in suo onore.
Vorrei concludere questo breve testo citando una quartina tratta dal “tistamentu di San Giuseppi” che si canta a Castelbuono. In questo testo, che narra appunto le ultime volontà di San Giuseppe, è lo stesso Santo ad indicare sia le modalità di voto gradite (la tavulata) che le figure da privilegiare per le offerte alimentari (orfani, vedove e bambini poveri):
“e vi lassu l’orfaneddri
i cattivi e i virgineddri
Sempri sia pi iddri cunsata
A mia gloria na tavulata!”

Angelo Cucco



3 commenti:

  1. Fragale Anna: Gentile omaggio a San Giuseppe!
    Grazie per averle riproposte nella speranza che vengano ricordate al fine di valorizzare quanto fa parte della nostra cultura popolare.

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  2. Francesca Di Marco sul suo diario fb ha pubblicato anche questa deliziosa preghiera:

    "San Giusippuzzu fustivu patri
    fustivu figghiu comu 'na matri
    Maria è la rosa, Giuseppe lu gigghiu
    datimi aiutu, riparu e cunsigghiu
    e l'aiutu chi m'at'a dari
    ca nun m'aviti abbannunari"

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  3. Va ricordato, inoltre, che nel libro di Elisa Inglima,La poesia popolare religiosa in uso a Marineo, pubblicato da Abadir nel 2007, si trovano altri versi dedicati a S. Giuseppe.

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