16 marzo 2017

L' IRONIA DI BRUNO MUNARI





Bruno Munari al Museo Fico di Torino. La mostra fuga ogni malinteso sulla versatilità del designer milanese: ognuno dei suoi «giochi» risalta per necessità progettuale e un raro senso della semplicità che, così vide Argan, si produce dall’ironia .

Maurizio Giufrè

Munari, un bambino grande fra realismo e evasione
“Munari è un uomo piccolo, il suo volto magro ha l’impressione chiara e sempre vagamente stupefatta di un bambino. Ride volentieri degli stravaganti ordigni ma li prende molto sul serio». Così nel 1948 Dino Buzzati presentava Bruno Munari ai visitatori della Galleria Borromini di Milano. In poche righe un ritratto perfetto perché contiene i due basilari aspetti del suo fare creativo: il mondo giocoso e favolistico dell’infanzia e quello esatto della tecnica, accomunati dalla ricerca, dal metodo, dall’esperienza. Nel loro reciproco interagire si svolge l’affascinante carriera di artista e di designer di Munari.

Si può convenire con Claudio Cerritelli che la sua sia stata arte «totale», come spiega già nel titolo la mostra da lui curata al Museo Fico di Torino: Artista totale Bruno Munari (fino all’11 giugno), perché «relativa al metodo d’indagine più che alla somma delle esperienze effettuate». Ma occorre ricordare che questo «passare da una cosa a un’altra come se niente fosse» (così una volta ci disse) non piacque a molti critici e causò spiacevoli malintesi.

Occorre, infatti, insistere che in Munari i principi univoci dell’estetica razionalista sono stati sempre saldi e sempre verificati nei confronti dei cambiamenti della realtà, lontano da ogni genere di sperimentalismo che non avesse ben chiare le proprie finalità. Questo punto nodale rinvia al confronto tra realismo ed evasione, che ancora prima della critica delle avanguardie resta ancora lì irrisolto e che dobbiamo tenere a mente per collegare il poliedrico «mestiere» di Munari, tra arte pura e arte applicata, tutte e due da lui sviluppate secondo metodo e ragionamento per essere trasmesse a qualificati «progettisti creativi».

Per comprendere bene il significato di quest’aspetto occorre superare le prime sale dedicate al Munari epigono del Futurismo (L’ospedale delle macchine, 1929; Futurista, 1931) e di «altre influenze» (L’ipercritico, 1930; Due linee bianche, c. 1930), per giungere all’ambiente alto e luminoso che accoglie le sue Macchine inutili. Dopo avere attraversato il lungo corridoio dove ritroviamo i suoi famosi Negativi-Positivi, gli altrettanti geometrici olii delle Curve di Peano (anni settanta) e i fogli sovrapposti della serie Los Alamos (1958), sono le «sculture» di Munari, appese o poggiate, a rendere chiara la sua idea che «l’invenzione è una modalità connecessaria del suo fare, ma non lo esaurisce, e nemmeno da sola riuscirebbe a definirlo veramente» (Carlo Ludovico Ragghianti).

Insomma, ancora con Ragghianti, non è la «trovata», o meglio la «novità degli oggetti come tali che fa l’autenticità e la forza di Munari». Piuttosto i suoi interessi pluridisciplinari concorrono, guidati dall’indole, a non cadere dentro quei «processi intellettualistici» propri dell’astrattismo o dell’estetica delle forme pure. Il rimedio è la costruzione di un «universo esatto e favoloso» in grado di misurarsi (progettualmente) e di intervenire (didatticamente) nella realtà di là da qualsiasi precettistica normativa.

Quanto ciò sia vero è facile appurarlo in catalogo (Corraini Edizioni) nell’intervista del curatore con Gillo Dorfles, nella quale il critico milanese, fondatore con Munari nel 1948 del M.A.C. (Movimento Arte Concreta), afferma: «a differenza di Soldati, Reggiani o Veronesi che si impegnavano a fare opere non figurative ma pittoricamente importanti, a Munari interessava poco che fossero importanti, in quanto non figurative».

Purtroppo il guardare «dal di fuori» i «compagni d’azione» è stato intesa in seguito – Dorfles lo testimonia – con l’equivoco di una «doppia personalità»: da un lato la veridicità della tecnica (il design), dall’altro gli «scherzi sociali» o il «divertimento giocoso» (l’arte). Il gioco, però, non può essere inteso come semplice divertissement, ma come lo stratagemma per desacralizzare l’arte e addentrarsi così «in una realtà non utopica e non idealizzata» (Fossati), dove la meraviglia dell’«equilibrio degli opposti» si compie attraverso un processo rigoroso e disciplinatissimo che combina intuizione e regola, casualità e certezza, superfluo e necessario.
In modo agevole e chiaro tutto ciò è evidente nel piano superiore del museo dove i «codici» dell’arte di Munari sono accostati ai suoi prodotti di design. L’«utilità» di una serie di questi – dai semplici Cubi alla lampada Falkland per Danese ad Abitacolo per le Edizioni Robots (1972) fino al paravento Spiffero per Zanotta (1988) – sfidano l’«inutilità» di altri: dalla sedia Singer per visite brevissime di Zanotta (1945) alle Forchette parlanti.

Con lo stesso procedimento, nell’editoria e nella grafica, i suoi Libri illeggibili contendono la loro legittima funzione percettiva e immaginifica con le copertine delle collane Einaudi (Menabò, Saggi, NUE, ecc.), di riviste («La Lettura») o di LP (Ricordi). Ancora «ovvie» ma non banali, e solo in «apparenza illogiche», sono le ricostruzioni delle Scritture illeggibili (anni settanta) a confronto con i fogli Alberi: elaborazioni grafiche ispirate dal vero ideogramma giapponese (anni novanta).

L’ironia di Munari si genera, come fece notare Giulio Carlo Argan, «dalla semplificazione e dalla specularità». Le sue attenzioni sono rivolte a scoprire cosa c’è da imparare dalla natura e come tradurre in tre dimensioni le scoperte, ma senza «l’ironia degli oggetti e dei soggetti verso se stessi – sempre Argan – entrambi sarebbero immobili e immutabili» e il mondo ideale di Munari – «un asilo-nido per adulti» – è lì per farci «essere semplici senza essere rozzi»: un insegnamento da custodire con impegno.

Il manifesto – 5 marzo 2017

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