Una pagina tratta dall'ultimo libretto poetico di Pietro Romano
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
31 agosto 2018
V. MAJAKOVSKIJ, Voglio salvezza per tutta la terra
Che senso ha, se tu solo ti salvi?
Voglio salvezza per tutta la terra priva d'amore,
per tutta la folla umana nel mondo.
Sto qui da sette anni, e rimarrò altri duecento,
inchiodato ad aspettare questo.
Sul ponte degli anni, tra il disprezzo e le beffe,
con l'incarico di redentore dell'amore terrestre
dovrò rimanere e rimango per tutti,
per tutti pagherò, piangerò per tutti...
Risuscitami. Almeno perchè, da poeta,
ti ho atteso, rifiutando le balle di ogni giorno.
Risuscitami, almeno per questo!
Risuscitami: voglio finire di vivere il mio!
Vladimir Majakovskij
29 agosto 2018
ARTEMISIA GENTILESCHI VISTA DAL POETA NICOLA ROMANO
Nicola Romano è un noto poeta palermitano che riceverà il prossimo 2 settembre a Marineo il primo premio per la poesia edita raccolta nel volume "D'un continuo trambusto" ,Edizioni Passigli, Firenze 2018. Nei versi inediti sopra riportati il poeta ci restituisce il ritratto di una grande artista libera e forte. (fv)
POESIA E COMUNISMO IN F. FORTINI
Sempre sono stato comunista.
Ma giustamente gli altri comunisti
hanno sospettato di me. Ero comunista
troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi.
Giustamente non m'hanno riconosciuto.
La disciplina mia non potevano vederla.
Il mio centralismo pareva anarchia.
La mia autocritica negava la loro.
Non si può essere comunista speciale.
Pensarlo vuol dire non esserlo.
Così giustamente non m'hanno riconosciuto
i miei compagni. Servo del capitale
io, come loro. Più, anzi: perché lo dimenticavo.
E lavoravano essi, mentre io il mio piacere cercavo.
Anche per questo sempre ero comunista.
Troppo oltre le loro certezze e i miei dubbi
di questo mondo sempre volevo la fine.
Ma la mia fine anche. E anche questo, più questo,
li allontanava da me. Non li aiutava la mia speranza.
Il mio centralismo pareva anarchia.
Com'è chi per sé vuole più verità
per essere agli altri più vero e perché gli altri
siano lui stesso, così sono vissuto e muoio.
Sempre dunque sono stato comunista.
Di questo mondo sempre volevo la fine.
Vivo, ho vissuto abbastanza per vedere
da scienza orrenda percossi i compagni che m'hanno piagato.
Ma dite: lo sapevate che ero dei vostri, voi, no?
Per questo mi odiavate? Oh, la mia verità è necessaria,
dissolta in tempo e aria, cuori più attenti a educare.
*****
Come una dopo l'altra una dall'altra
una
e un'altra ininterrottamente come
lente e veloci
o come stagioni o come le ore o le
api o le voci
o il pianto degli innocenti o lo
strido delle foglie
o il vocío delle onde delle gocce
delle scaglie
di pigna o l'ondulío della ragione
nella sua cuna
o della dolorosa fortuna il lamento
ma sopra come la dominante ostinata
ragione
e dice e ridice una la verità.
FRANCO FORTINI, Una volta per sempre, ora in Versi scelti, Einaudi 1990
PRIMA L'ITALIANO E L'ANALISI LOGICA!
Secondo una
recentissima ricerca dell'Istituto Cattaneo in Europa è l'Italia il
paese più ostile ai migranti.
Adriana Pollice
In Europa gli italiani
sono i più ostili ai migranti
Tra gli europei, gli italiani sono quelli che più sovrastimano la percentuale di migranti presenti nel proprio paese (circa il 18% in più rispetto al dato reale) mostrando il «maggior livello di ostilità verso l’immigrazione e le minoranze religiose». È quanto emerge dall’analisi Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione dell’istituto Cattaneo di Bologna. Rispetto alla media europea del 57%, il 74% degli intervistati italiani sono convinti che gli immigrati peggiorino la situazione della criminalità, con una differenza di 17 punti rispetto al resto dell’Europa. A considerare che una maggiore immigrazione comporti una riduzione dell’occupazione per i residenti in Italia è invece il 58% sul totale, mentre la media europea si ferma al 41%.
«È un tema che ha contribuito al successo elettorale della Lega e sul quale lo stesso Matteo Salvini ha impostato la propria agenda di governo (e di comunicazione) come ministro dell’Interno» scrive l’istituto, che sottolinea: «Su questo argomento i dati a disposizione dell’opinione pubblica sono spesso frammentari e talvolta presentati in maniera “partigiana”, stiracchiandoli da una parte o dall’altra in base agli interessi dei partiti. Il che contribuisce a proiettare un’immagine distorta della realtà. Chi ne ingigantisce la portata, è indotto anche a ingigantirne le conseguenze».
Anche gli altri paesi europei sovrastimano i dati reali ma in Italia il fenomeno è molto più accentuato. Infatti, di fronte al 7,2% di immigrati non Ue presenti negli stati, gli intervistati ne stimano il 16,7%. Ma gli italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco tra la percentuale di immigrati non Ue realmente presenti (7,6%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%. Gli altri paesi che mostrano un «errore percettivo» di poco inferiore a quello italiano sono il Portogallo (+14,6%) e la Spagna (+14,4%). Al contrario, la differenza tra la percentuale di immigrati reali e «percepiti» è minima nei paesi nordici (Svezia +0,3%; Danimarca +2,2%; Finlandia +2,6%).
«All’aumentare dell’ostilità verso gli immigrati – scrive ancora l’istituto Cattaneo – aumenta anche l’errore nella valutazione sulla presenza di immigrati nel proprio paese. L’Italia si conferma, su entrambi i fronti, il paese collocato nella posizione più “estrema”, caratterizzata dal maggior livello di ostilità verso l’immigrazione e le minoranze religiose». E ancora: lo scarto tra la percentuale di immigrati presenti in Italia e quella percepita dagli intervistati è maggiore tra chi si definisce di centrodestra o di destra. In quest’ultimo caso, la percezione è del 32,4%, superiore di oltre 7 punti rispetto alla media nazionale.
Infine, le differenze tra gli atteggiamenti degli italiani e quelli degli europei sono più sfumate quando si tratta di valutare il contributo dell’immigrazione al welfare state: «In Italia, la percentuale di chi pensa che gli immigrati siano un peso per lo stato sociale è pari al 62%, mentre tra i cittadini europei questa percentuale è inferiore solo di 3 punti (59%)».
il manifesto 28.8.18
NICOLA GRATO SCRIVE AL MINISTRO SALVINI
Piazza Migranti del Mediterraneo, Santa Maria del Focallo. Qui apprendiamo della risoluzione del caso Diciotti e delle indagini aperte sul ministraccio: ne siamo lieti. Primo indagato del sedicente governo del cambiamento. Auguri, Salvini, ti mando questi versi che non capirai (n.g.)
vengo come tutti dal movimento:
i nonni alla prima guerra mondiale
in Albania, in Montenegro e dopo
per diversi destini chi a Milano,
chi a Caltanissetta. E prima ancora
l'America che divide con le strade
del mare lastricate di biglietti
di sola andata. Vengo come tutti
dalla migrazione, come gli uccelli
di passo sono gli uomini, chi cerca
cieli nuovi sia salvato, chi cerca
nuove terre accolto a braccia aperte,
spiegate come ali
nicola grato
28 agosto 2018
L'INCOMPRENSIONE DEL RAZZISMO
I comunisti e i socialisti di sinistra liquidarono le misure antisemite come un tentativo di deviare l’attenzione degli operai dai conflitti di classe. Ma anche coloro che videro la gravità della svolta, come Nenni e Rosselli, si limitarono a denunciare la barbarie di Mussolini assolvendo il popolo. Fuorviati dal mito della «brava gente», non colsero la modernità di una politica totalitaria efficace e coerente. Figli dell'illuminismo e di una concezione progressista della storia non potevano nemmeno concepire che paesi “culla della civiltà” come l'Italia (e la Germania) piombassero nelle barbarie. Per capirlo davvero fu necessario lo shock di Auschwitz, da cui il mito finalistico della storia come progresso non si è più ripreso.
Alessandra Tarquini
L’antifascismo non
capì l’Italia delle leggi razziali
Nel settembre del 1938, quando il regime fascista adottò le leggi razziali che trasformarono la vita dei cinquantamila ebrei italiani, nessuno prese le loro difese. Dalla Santa Sede, «L’Osservatore Romano» protestò perché venivano vietati i matrimoni misti, ma autorevoli intellettuali e noti politici si guardarono bene dal criticare pubblicamente i provvedimenti antiebraici. È vero che in uno Stato totalitario il pluralismo delle opinioni politiche è perseguito legalmente, e che se qualcuno fosse stato contrario avrebbe avuto non pochi problemi a esprimere il proprio punto di vista.
Ma come spiegare la
reazione della sinistra antifascista che, salvo rare eccezioni, non
si interrogò sulle cause e sulla natura della legislazione razziale?
Da una ricognizione quantitativa risulta che nel periodo 1897-1921, i
giornali della sinistra pubblicarono circa seicento articoli
sull’antisemitismo europeo, mentre negli anni 1922-1943, sugli
stessi periodici, non si trovano più di trecento contributi. Nel
momento in cui la violenza contro gli ebrei divenne un fatto politico
di rilevanza nazionale e internazionale, con l’avvento di Adolf
Hitler al potere e l’adozione in Italia di provvedimenti
antiebraici, l’antifascismo non le riconobbe l’attenzione che ci
si potrebbe aspettare.
La prima ragione risiede nella trasformazione della società italiana in uno Stato totalitario a partito unico. Alla fine del 1926 quasi tutti i dirigenti della sinistra erano stati arrestati e condannati a molti anni di reclusione. Chi era riuscito a fuggire affrontava la realtà dell’esilio, della solitudine e della sconfitta, disponendo di poche informazioni, per lo più ricavate dalla stampa di regime. Impegnati in una battaglia per la propria sopravvivenza, braccati da una rete capillare di informatori, gli antifascisti non sentivano come prioritario il tema dell’antisemitismo. È comprensibile immaginando la vita di uomini sconfitti, lontani dal loro Paese e dalle loro famiglie. D’altra parte, la realtà della clandestinità non è sufficiente a spiegare la sottovalutazione del problema, che dipese per un verso dalla cultura politica della sinistra, per un altro da una particolare interpretazione della storia d’Italia.
Come emerge dalle
pagine de «Lo Stato Operaio» (la rivista fondata dal leader
comunista Palmiro Togliatti nel 1927) dell’estate del 1938, per i
marxisti italiani «la lotta antisemita» costituiva un «tentativo
grossolano di far divergere le preoccupazioni crescenti e il
malcontento delle masse popolari» «verso l’obiettivo di una lotta
contro gli ebrei», un fatto «sovrastrutturale». Era, dunque, un
aspetto della lotta di classe, uno strumento utilizzato dalla
borghesia per esercitare la propria egemonia sulle classi subalterne.
All’interno di questo orizzonte ideologico, nessuno si chiese perché proprio gli ebrei fossero oggetto di una persecuzione che non aveva precedenti nella storia dell’Italia unita. Addirittura sull’«Avanti!» socialista un anonimo collaboratore si fece sfuggire uno stereotipo antisemita e nel luglio del 1938 scrisse che gli ebrei erano pericolosi due volte: come «capitalisti» e come «fascisti» — proprio in quanto «capitalisti», erano stati «fascisti entusiasti fin dall’inizio». Del resto, il fatto che la svolta antisemita avesse messo in allarme i Paesi «democratici», rimasti «insensibili alle persecuzioni dei proletari italiani», che fosse scattata un’immediata «solidarietà di classe»,collocava gli ebrei sul fronte opposto a quello del proletariato.
Accanto alle difficoltà del marxismo di immaginare altra forma di violenza al di fuori di quella di classe, c’era poi una considerazione più generale: per la sinistra antifascista le masse proletarie non erano antisemite e tanto meno fasciste. Si trattava di una delle versioni del mito del «bravo italiano», per cui ad essere razzisti erano sì i fascisti ma non gli italiani. Nel dicembre 1938 Angelica Balabanoff, la segretaria del Partito socialista massimalista, quello più vicino alle posizioni dei comunisti e della Terza Internazionale, si diceva convinta che l’antisemitismo non avrebbe trovato terreno fertile in Italia, sia per l’esiguità della comunità ebraica sia perché «incompatibile con il carattere e la mentalità» del Paese.
In realtà, nel mondo
della sinistra, solo Giustizia e Libertà, il piccolo movimento
fondato nel 1929 da Carlo Rosselli, a cui aderirono molti
intellettuali ebrei, e il Partito socialista riformista, che dal 1930
era guidato da Pietro Nenni, dedicarono attenzione al razzismo
antisemita con una certa costanza.
Il primo si occupò della
legislazione antiebraica in ogni numero della rivista omonima del suo
movimento seguendo i molteplici aspetti della svolta razziale del
1938. Il secondo sul «Nuovo Avanti!» sottolineò come i
provvedimenti antiebraici determinassero la rottura del principio di
eguaglianza dei cittadini. Cominciata con gli antifascisti,
l’esclusione dei «reprobi» dal corpo «sano» della nazione si
estendeva agli ebrei e minacciava di colpire altri gruppi di
italiani, mostrando la potenza del regime totalitario. Nessun
diversivo per la classe operaia, nessuna realtà sovrastrutturale:
l’antisemitismo di Stato seguiva lo «sterminio di diecine di
migliaia di abissini» e derivava dalla volontà di Mussolini di
eliminare gli ebrei.
Tuttavia, nel domandarsi quali fossero le cause e la natura di questo fenomeno, inedito in un Paese che non aveva un passato antisemita paragonabile a quello di altre nazioni europee, anche se l’antisemitismo di matrice cattolica era sempre esistito, gli stessi oppositori riformisti del fascismo restarono all’interno della tradizione politica di cui erano i rappresentanti. Proponendo un’interpretazione che avrebbe avuto ampia fortuna nel dopoguerra, quella secondo cui il regime non aveva prodotto una sua cultura, gli esponenti della sinistra riformista leggevano le persecuzioni antiebraiche come una delle espressioni della barbarie fascista, senza interrogarsi sulla sua specificità.
Da parte sua, Carlo
Rosselli era convinto che il fascismo esprimesse i vizi profondi, le
debolezze latenti, le miserie del popolo italiano. A suo avviso, ma
su questo l’accordo con il mondo della sinistra non comunista era
totale, si trattava di un fenomeno regressivo: la prova
dell’incapacità degli italiani di diventare moderni, l’esito di
uno sviluppo economico e politico diverso da quello degli altri Paesi
europei, il prodotto di un’Italia retorica, cattolica, arretrata,
illiberale e piccolo borghese. E come sul fascismo non vi era molto
da dire, anche sull’antisemitismo non vi fu dibattito: per i
collaboratori di «Giustizia e Libertà», le leggi del 1938
costituivano una conferma del carattere violento del regime che
imponeva il proprio dominio sugli italiani con il terrore, e che,
quindi, era meritevole di condanna e disprezzo, ma non di analisi
approfondite.
Nessuno allora sostenne
che l’Italia fosse un Paese razzista e antisemita; che il fascismo
non fosse un fenomeno politico barbaro e reazionario, ma un
esperimento moderno e totalitario; che moderna fosse la persecuzione
degli ebrei, pericolosi perché considerati nemici della nazione,
diversi da quell’italiano nuovo voluto dal regime mussoliniano,
impegnato in una rivoluzione antropologica. Nel confinare
l’antisemitismo di Stato alla classe dirigente, e nell’immaginare
gli italiani brava gente, immune dal contagio razzista, la sinistra
descrisse un Paese che, di fatto, non esisteva.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, e per i successivi quindici anni, sulle persecuzioni antisemite cadde il silenzio. O meglio, il silenzio proseguì da quel settembre del 1938 che cambiò la vita di cinquantamila nostri concittadini.
Il Corriere della sera/La
Lettura – 26 agosto 2018
L'INDIFFERENZA SECONDO MARIO BENEDETTI
Mario Benedetti
Desgana
Si cuarenta mil niños sucumben diariamente
en el purgatorio del hambre y de la sed
si la tortura de los pobres cuerpos
envilece una a una a las almas
y si el poder se ufana de sus cuarentenas
o si los pobres de solemnidad
son cada vez menos solemnes y más pobres
ya es bastante grave
que un solo hombre
o una sola mujer
contemplen distraídos el horizonte neutro
pero en cambio es atroz
sencillamente atroz
si es la humanidad la que se encoge de hombros.
Indifferenza
Se quarantamila bambini muoiono ogni giorno
nel purgatorio della fame e della sete
se la tortura dei poveri corpi
umilia le anime una ad una
e se il potere si fa vanto delle sue attenzioni
o se i poveri riconosciuti
sono sempre meno assistiti e molto più poveri
è già abbastanza grave
che un solo uomo
o una sola donna
contemplino distratti l’orizzonte neutro
mentre invece è atroce
semplicemente atroce
se è l’umanità a voltare le spalle.
nel purgatorio della fame e della sete
se la tortura dei poveri corpi
umilia le anime una ad una
e se il potere si fa vanto delle sue attenzioni
o se i poveri riconosciuti
sono sempre meno assistiti e molto più poveri
è già abbastanza grave
che un solo uomo
o una sola donna
contemplino distratti l’orizzonte neutro
mentre invece è atroce
semplicemente atroce
se è l’umanità a voltare le spalle.
Testi ripresi da https://rebstein.wordpress.com/2018/08/28/indifferenza/
SIAMO TUTTI IN CAMMINO
Pantelleria, ph. Serena Valenti
Uomini
e donne si incontrano e in un attimo si riconoscono gli uni con gli
altri nella loro essenzialità, si salutano, si scambiano un sorriso,
un'osservazione, si danno notizie sul sentiero o sulla loro
destinazione, rispondono alle richieste di informazioni di chi si è
smarrito. Il cammino è un universo della reciprocità .
David Le Breton
David Le Breton
CESARE PAVESE, Donne appassionate
Le ragazze al crepuscolo scendono in
acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono
caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La
schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo
l'acqua remota.
Le ragazze han paura delle alghe
sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e
le spalle:
quant'è nudo, del corpo. Rimontano
rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi
intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel
buio,
sono enormi e si vedono muovere
incerte,
come attratte dai corpi che passano. Il
bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole
calante,
più che i greto, ma piace alle scure
ragazze
star sedute all'aperto, nel lenzuolo
raccolto.
Stanno tutte accosciate, serrando il
lenzuolo
alle gambe, e contemplano il mare
disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe
qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal
mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i
piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo
tremante.
Ci son occhi nel mare, che traspaiono a
volte.
Quell'ignota straniera, che nuotava di
notte
sola e nuda, nel buio quando muta la
luna,
è scomparsa una notte e non torna mai
più.
Era grande e doveva esser bianca
abbagliante
perché gli occhi, dal fondo del mare,
giungessero a lei.
CESARE PAVESE, Lavorare stanca, 1936
UNA POESIA D'AMORE DI N. HIKMET
Nelle mie braccia tutta nuda
la città la sera e tu
il tuo chiarore l’odore dei tuoi
capelli
si riflettono sul mio viso.
Di chi è questo cuore che batte
più forte delle voci e dell’ansito?
è tuo è della città è della notte
o forse è il mio cuore che batte
forte?
Dove finisce la notte
dove comincia la città?
dove finisce la città dove cominci tu?
dove comincio e finisco io stesso?
NAZIM HIKMET da Poesie d'amore, Mondadori 2002 - Traduzione di Joyce Lussu
GIOVEDI TEATRO IN PIAZZA A MAZARA
Giovedì, nella terrazza Alhambra di Mazara, alle ore 21, si recita il grande Pirandello.
Ingresso libero
UN BULLO MESSIA...
“ Essendo probabile (lo pensiamo in tanti; ce lo insegnò Berlusconi) che il ruolo di "perseguitato dai giudici" porti a Salvini più popolarità e più voti, torna a brillare sopra le nostre teste l'antico monito della politica vera, quella che ha lo sguardo lungo: non si cambia una società se non cambia la sua gente. Non ci sono scorciatoie, non ci sono alibi o trucchi che reggano la scena.
Se gli italiani in buona maggioranza considerano eroe o Messia un bullo, lo votano oppure gli sono complici, ai cittadini di buona volontà non rimane che la fatica costante, paziente, quotidiana di fare e di dire qualcosa, ognuno nel suo, che riporti a princìpi migliori, a una cultura più gentile e a una società più rispettosa. Soprattutto rispettosa degli ultimi e dei fragili (gli eritrei della Diciotti sono una sintesi inimitabile del concetto).
È l'obbligo della politica nei due sensi: che è obbligatorio fare politica soprattutto quando la politica genera pessime cose; e che la politica è obbligata a manifestarsi anche quando è soccombente, impopolare, impotente. Non bisogna avere paura e nemmeno fretta, i tempi sono lunghi anche nell'apparente velocità di un evo nel quale tutto sembra volatile e di corto respiro.
Viviamo a stretto contatto con chi considera Salvini un grand'uomo e bisogna starci senza spocchia. Questo è l'aspetto più complicato: senza spocchia, anche quando verrebbe spontaneo sentirsi, se non migliori, persone meglio informate dei fatti.”
Michele Serra,
Da L’amaca de LA REPUBBLICA
ANCHE IO SONO PROFUGO
PROFUGO
Hanno incatenato la sua bocca
e legato le sue mani alla pietra dei morti.
Hanno detto: “Assassino!”,
gli hanno tolto il cibo, le vesti, le bandiere
e lo hanno gettato nella cella dei morti.
Hanno detto: “Ladro!”,
lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano.
Darwish Mahmoud
LA VERITA' DI SESTOV E SPINOZA
Se
volete trovare la verità, diceva Spinoza, dimenticate ogni cosa e,
anzitutto, dimenticate la rivelazione biblica, ricordatevi soltanto
della matematica.
Bellezza, deformità, bene, male, buono, cattivo, gioia, tristezza, paura, speranza, ordine, disordine, tutto questo è «umano» e transitorio, e non ha alcun rapporto con la verità. Voi credete che a Dio premano i bisogni degli uomini, che Egli abbia creato il mondo per l’uomo e persegua finalità elevate? Ma là dove sono finalità, disagio, gioia a tristezza, non vi è Dio. Per capire Dio bisogna cercare di liberarsi da ogni preoccupazione, gioia, paura, speranza e da ogni finalità, grande o piccola.
Il vero nome di Dio è necessità.
***
Abituata dalla matematica a giudizi chiari e distinti, la ragione vede che l’uomo è soltanto uno degli innumerevoli anelli della catena della natura, e che non si distingue in nulla dagli altri anelli; vede che il tutto, l’intera natura, o Dio, o la sostanza (come furono contenti tutti, quando Spinoza chiamò Dio «sostanza», parola «liberatoria» se mai ce n’è stata una!) è ciò che si trova al di sopra dell’uomo ed esiste di per sé, e neanche di per sé, perché ogni «per» umanizza il mondo: si dovrebbe dire che semplicemente esiste. Questo tutto è Dio, la ragione e la volontà del quale hanno tanto poco a che vedere con la ragione e la volontà dell’uomo quanto il cane, segno celeste, e il cane, animale latrante; il che equivale a dire che Dio non può avere né ragione né volontà. E questo è ciò che l’uomo deve capire prima di ogni altra cosa.
Lev Sestov/Sulla bilancia di Giobbe
Bellezza, deformità, bene, male, buono, cattivo, gioia, tristezza, paura, speranza, ordine, disordine, tutto questo è «umano» e transitorio, e non ha alcun rapporto con la verità. Voi credete che a Dio premano i bisogni degli uomini, che Egli abbia creato il mondo per l’uomo e persegua finalità elevate? Ma là dove sono finalità, disagio, gioia a tristezza, non vi è Dio. Per capire Dio bisogna cercare di liberarsi da ogni preoccupazione, gioia, paura, speranza e da ogni finalità, grande o piccola.
Il vero nome di Dio è necessità.
***
Abituata dalla matematica a giudizi chiari e distinti, la ragione vede che l’uomo è soltanto uno degli innumerevoli anelli della catena della natura, e che non si distingue in nulla dagli altri anelli; vede che il tutto, l’intera natura, o Dio, o la sostanza (come furono contenti tutti, quando Spinoza chiamò Dio «sostanza», parola «liberatoria» se mai ce n’è stata una!) è ciò che si trova al di sopra dell’uomo ed esiste di per sé, e neanche di per sé, perché ogni «per» umanizza il mondo: si dovrebbe dire che semplicemente esiste. Questo tutto è Dio, la ragione e la volontà del quale hanno tanto poco a che vedere con la ragione e la volontà dell’uomo quanto il cane, segno celeste, e il cane, animale latrante; il che equivale a dire che Dio non può avere né ragione né volontà. E questo è ciò che l’uomo deve capire prima di ogni altra cosa.
Lev Sestov/Sulla bilancia di Giobbe
25 agosto 2018
UN' INTERVISTA A M. FOUCAULT
Nessuno mi può giudicare: Michel Foucault
by francesco forlani • • 0 Comments
Nota introduttiva di effeffe
Mentre facevo delle ricerche per un progetto a cui sto lavorando mi sono imbattuto in questa intervista a Michel Foucault, tanto strana quanto illuminante rispetto al paesaggio letterario e politico della nostra Europa, particolarmente buio di questi ultimi mesi. Il filosofo pretende dal giornalista che l’intervista sia pubblicata mantenendo anonimo l’autore e, proprio nel passaggio in cui motiva la decisione presa, ho trovato che il pensiero di Foucault si facesse carico di quelle esperienze che oggi, nell’era dei social network, molto più di allora, stanno caratterizzando la nostra vita sociale.
“Non so se il pubblico si aspetti che il critico giudichi le opere o
gli autori. Ma credo che i giudici fossero già lì prima che il pubblico
potesse dire di che cosa aveva voglia. Sembra che Courbet avesse un
amico che si svegliava di notte urlando: “Giudicare, voglio giudicare”. È
incredibile quanto le persone amino giudicare. Si giudica ovunque, di
continuo. Probabilmente, per l’umanità, è una delle cose più semplici da
fare. Ma lei sa che l’ultimo uomo, quando l’ultima radiazione avrà
ridotto in cenere il suo ultimo avversario, prenderà un tavolo sbilenco,
si siederà e comincerà il processo al responsabile? Non posso fare a
meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far
esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea; accenderebbe dei
fuochi, guarderebbe crescere l’erba, ascolterebbe il vento e prenderebbe
al volo la spuma del mare per disperderla. Riprodurrebbe, invece che
dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro
sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica
sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille
di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe
con sé i lampi di possibili tempeste.” (Francesco Forlani)
Il filosofo mascherato
(1980)
intervista a Michel Foucault di C. Delacampagne, in “Le Monde”,
n. 10945, 6 aprile 1980: “Le Monde-Dimanche”, pp.I e XVII.
Traduttore: Sabrina Loriga Curatore: Alessandro Pandolfi
Immagino che lei conosca la storia di quegli psicologi che hanno
presentato un breve filmato in un villaggio nel cuore dell’Africa
profonda. Domandano agli spettatori di raccontare la storia, come
l’hanno capita. Ebbene, di una trama a tre personaggi, una sola cosa li
aveva interessati: il passaggio delle ombre e delle luci attraverso gli
alberi.
Da noi i personaggi dettano legge alla percezione. Gli occhi si
rivolgono preferibilmente verso le figure che vanno e vengono, spuntano e
scompaiono. Perché le ho suggerito di utilizzare l’anonimato? Per
nostalgia del tempo in cui ero assolutamente sconosciuto e, quindi, quel
che dicevo aveva qualche possibilità di essere inteso. Il contatto
immediato con l’eventuale lettore non faceva grinze. Gli effetti del
libro si riflettevano in luoghi imprevisti e disegnavano forme a cui non
avevo mai pensato. Il nome costituisce una facilitazione.
Vorrei proporre un gioco: quello dell’“anno senza nome”. Per un
anno si pubblicheranno soltanto libri privi del nome dell’autore. I
critici dovranno sbrigarsela con una produzione completamente anonima.
Ma penso che, forse, non avrebbero nulla da dire: tutti gli autori
aspetterebbero l’anno successivo per pubblicare i loro libri…
Crede che, oggi, gli intellettuali parlino troppo? Che ci
ingombrino con i loro discorsi al minimo pretesto e, spesso, anche senza
il minimo pretesto?
La morte degli intellettuali mi sembra uno strano concetto. Di
intellettuali, non ne ho mai incontrati. Ho incontrato persone che
scrivono romanzi e persone che curano i malati. Persone che studiano
economia e persone che compongono musica elettronica. Ho incontrato
persone che insegnano, persone che dipingono e persone di cui non ho ben
capito se facessero qualcosa. Ma non ho mai incontrato intellettuali.
Viceversa, ho incontrato molte persone che parlano dell’intellettuale.
E, a forza di ascoltarli, mi sono fatto un’idea di che tipo di animale
si tratti. Non è difficile, è il colpevole. Colpevole un po’ di tutto:
di parlare, di tacere, di non fare nulla, di impicciarsi di ogni cosa…
Insomma, l’intellettuale è la materia prima da giudicare, da condannare,
da escludere…Non penso che gli intellettuali parlino troppo, perché per
me non esistono. Ma penso che il discorso sugli intellettuali stia
passando il limite e sia poco rassicurante. Ho una brutta mania. Quando
le persone parlano tanto per parlare, quando fanno discorsi campati per
aria, cerco di immaginare dove porterebbero le loro parole se fossero
trascritte nella realtà. Quando “criticano” qualcuno, quando
“denunciano” le sue idee, quando “condannano” ciò che scrive, li
immagino in una situazione ideale in cui hanno pieno potere su di lui.
Riporto le loro parole al primo significato: “Demolire”, “abbattere”,
“ridurre al silenzio”, “seppellire”. E vedo schiudersi la radiosa città
in cui l’intellettuale sarebbe certamente imprigionato e impiccato, a
maggior ragione se fosse anche un teorico. È vero, non viviamo in un
regime in cui gli intellettuali vengono mandati nelle risaie; ma, in
realtà, mi dica, ha mai sentito parlare di un certo Toni Negri? Non è
forse in prigione proprio in quanto intellettuale?
Ma, allora, che cosa l’ha indotta a trincerarsi dietro
l’anonimato? Un certo uso pubblicitario che, oggi, certi filosofi fanno o
lasciano fare del loro nome?
Questo non mi turba minimamente. Nei corridoi del mio liceo ho
visto grandi uomini di gesso. E ora, sulla prima pagina dei giornali, in
basso, vedo la fotografia del pensatore. Non so se l’estetica sia
migliorata. La razionalità economica lo è sicuramente…In fondo, mi
colpisce profondamente una lettera scritta da Kant, quando era già molto
vecchio: contro l’età, la vista che si abbassava e le idee che si
confondevano, si affrettava, così racconta, a terminare un libro per la
fiera del libro di Lipsia. Racconto questo episodio per dimostrare che
non ha nessuna importanza. Pubblicità o no, fiera o no, il libro è
tutt’altra cosa. Non riusciranno mai a farmi credere che un libro sia
brutto perché si è visto il suo autore alla televisione. Ma neanche che
sia buono per questa sola ragione.
Se ho scelto l’anonimato, non è per criticare questo o quello, cosa
che non faccio mai. È un modo per rivolgermi più direttamente
all’eventuale lettore, l’unico personaggio che mi interessa:
“Siccome non sai chi sono, non avrai la tentazione di cercare le
ragioni per cui dico quello che leggi; lasciati andare, di’
semplicemente: è vero, è falso, mi piace, non mi piace. Punto e basta”.
Ma il pubblico non si aspetta che la critica fornisca dei giudizi precisi sul valore di un’opera?
Non so se il pubblico si aspetti che il critico giudichi le opere o
gli autori. Ma credo che i giudici fossero già lì prima che il pubblico
potesse dire di che cosa aveva voglia. Sembra che Courbet avesse un
amico che si svegliava di notte urlando: “Giudicare, voglio giudicare”. È
incredibile quanto le persone amino giudicare. Si giudica ovunque, di
continuo. Probabilmente, per l’umanità, è una delle cose più semplici da
fare. Ma lei sa che l’ultimo uomo, quando l’ultima radiazione avrà
ridotto in cenere il suo ultimo avversario, prenderà un tavolo sbilenco,
si siederà e comincerà il processo al responsabile? Non posso fare a
meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far
esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea; accenderebbe dei
fuochi, guarderebbe crescere l’erba, ascolterebbe il vento e prenderebbe
al volo la spuma del mare per disperderla. Riprodurrebbe, invece che
dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro
sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica
sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille
di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe
con sé i lampi di possibili tempeste.
Ma ci sono talmente tante cose da far conoscere, talmente tanti
lavori interessanti, che i media dovrebbero parlare tutto il tempo di
filosofia?
Certamente, tra la “critica” e coloro che scrivono libri esiste un
disagio di lunga data. Gli uni non si sentono capiti e gli altri credono
che si voglia fare pressioni su di loro. Ma il gioco è questo. Mi
sembra che oggi la situazione sia abbastanza particolare. Abbiamo
istituzioni povere, mentre ci troviamo in una situazione di
sovrabbondanza. Tutti si sono accorti dell’esaltazione che spesso
accompagna la pubblicazione (o la riedizione) di opere, che peraltro
talvolta sono interessanti. Si tratta, sempre, nientemeno che della
“sovversione di tutti i codici”, dell’“antagonista della cultura
contemporanea”, della “discussione radicale di tutto il nostro modo di
pensare”. Il suo autore deve essere un marginale incompreso.
In compenso, non c’è dubbio che gli altri debbano essere rispediti
nell’oscurità da cui non avrebbero mai dovuto uscire; non erano
nient’altro che la schiuma di “una moda irrilevante”, un semplice
prodotto istituzionale, ecc.
Si dice che si tratta di un fenomeno parigino e superficiale. Io vi
percepisco, invece, gli effetti di un’inquietudine profonda. Il
sentimento del “nessun posto libero”, “o lui o me”, “uno alla volta”. Si
sta in fila indiana, a causa dell’estrema esiguità di luoghi in cui
poter ascoltare e farsi sentire.
Ne consegue una specie di angoscia che prorompe in mille sintomi,
più o meno curiosi. Da qui, in coloro che scrivono, il sentimento della
loro impotenza di fronte ai media, ai quali rimproverano di dominare il
mondo dei libri e di far esistere o scomparire quelli che piacciono o
dispiacciono. Da qui, nei critici, il sentimento di non riuscire a farsi
ascoltare, a meno di alzare il tono e di tirar fuori dal cappello un
coniglio alla settimana. Da qui anche la pseudopoliticizzazione, che
maschera, dietro alla necessità di condurre una “battaglia ideologica” o
di stanare i “pensieri pericolosi”, l’ansia profonda di non essere né
letti né ascoltati. Da qui anche la fobia fantastica del potere: ogni
persona che scrive esercita un potere inquietante a cui bisogna cercare
di porre, se non un termine, almeno dei limiti. Da qui anche
l’affermazione un po’ incantatrice che, attualmente, tutto è vuoto,
desolato, privo di interesse e di importanza: affermazione che,
evidentemente, proviene da coloro che, non facendo nulla, pensano che
gli altri siano di troppo.
Ma non crede che la nostra epoca sia realmente priva di spiriti all’altezza dei suoi problemi e di grandi scrittori?
No, non credo al ritornello della decadenza, dell’assenza di
scrittori, della sterilità del pensiero, dell’orizzonte cupo e tetro.
Credo, al contrario, che ci sia un’abbondanza eccessiva. E che non
soffriamo per il vuoto, ma perché i mezzi per pensare a tutto quello che
accade sono troppo pochi. Ci sono moltissime cose da conoscere:
fondamentali, terribili, meravigliose o strane,insieme minuscole e
capitali. E poi c’è una curiosità immensa, un bisogno, un desiderio di
conoscere. Ci si lamenta sempre che i media imbottiscono la testa delle
persone. In questa idea c’è della misantropia. Credo, invece, che le
persone reagiscano; più si cerca di convincerle, più si interrogano. Lo
spirito non è una cera molle. È una sostanza reattiva. E il desiderio di
saperne di più, meglio e diversamente, cresce man mano che si cerca di
imbottire le teste.
Se questo è vero e se aggiungiamo a questo che, all’università e in
altri luoghi, si stanno formando grandi quantità di persone che possono
servire da scambiatori tra la massa di cose e l’avidità di sapere, si
può ben presto dedurre che la disoccupazione degli studenti è la cosa
più assurda che esista. Il problema è di moltiplicare i canali, le
passerelle, i mezzi di informazione, le reti televisive e quelle
radiofoniche, i giornali. La curiosità è stata un vizio stigmatizzato di
volta in volta dal Cristianesimo, dalla filosofia e persino da una
certa concezione della scienza. Curiosità, futilità. Eppure, la parola
mi piace. Mi suggerisce una cosa affatto diversa: evoca la “cura”,
l’attenzione che si presta a quello che esiste o potrebbe esistere; un
senso acuto del reale, che però non si immobilizza mai di fronte a esso;
una prontezza a giudicare strano e singolare quello che ci circonda; un
certo accanimento a disfarsi di ciò che è familiare e a guardare le
stesse cose diversamente; un ardore di cogliere quello che accade e
quello che passa; una disinvoltura nei confronti delle gerarchie
tradizionali tra ciò che è importante e ciò che è essenziale.
Sogno una nuova età della curiosità. I mezzi tecnici ci sono; il
desiderio c’è; le cose da conoscere sono infinite; le persone che
possono impegnarsi in questo lavoro esistono. Di che cosa soffriamo? Di
scarsità: canali stretti, striminziti, quasi monopolistici,
insufficienti. Non si tratta di adottare un atteggiamento protezionista
per impedire alla “cattiva” informazione di invadere e di soffocare la
“buona”. Bisogna, invece, moltiplicare i tragitti e le possibilità di
andare e venire. Nessun colbertismo in quest’ambito. Il che non
significa, come spesso si teme, uniformizzazione e livellamento verso il
basso. Significa, al contrario, differenziazione e simultaneità di reti
differenti. Immagino che, a questo livello, i media e le università
potrebbero avere funzioni complementari, invece di continuare a opporsi.
Lei ricorda la mirabile frase di Sylvain Lévy: l’insegnamento
comporta un uditore; appena ce ne sono due, diventa volgarizzazione.
Anche i libri, l’università, le riviste colte sono dei media. Si
dovrebbe evitare di chiamare media i canali di informazione ai quali non
si può o non si vuole accedere. Bisogna capire come far agire le
differenze; sapere se si debba instaurare una zona riservata, un “parco
culturale” per le fragili specie dei colti, minacciati dai grandi rapaci
dell’informazione, mentre tutto il resto dello spazio sarebbe una vasto
mercato per la paccottiglia.
Non mi sembra che una simile ripartizione corrisponda alla realtà.
Peggio: non mi sembra affatto augurabile. Per far agire le differenze
utili non deve esserci nessuna ripartizione.
Ma no, non va tutto male. In ogni caso, credo che non si debba
confondere la critica costruttiva contro le cose con le geremiadi
ripetitive contro le persone. Per quanto riguarda le proposte concrete,
esse appaiono come dei gadget, se prima non vengono precisati alcuni
princìpi generali. Questo, prima di tutto: il diritto al sapere non deve
essere riservato né a un’età della vita, né a certe categorie di
individui; si deve poterlo esercitare ininterrottamente e in forme
molteplici.
Ma questa voglia di sapere non è ambigua? Alla fine, che cosa se
ne farà la gente di tutto questo sapere che sta acquisendo? A che cosa
potrà servire?
Una delle funzioni principali dell’insegnamento consisteva in
questo: la formazione dell’individuo andava di pari passo con la
determinazione del suo posto nella società. Oggi bisognerebbe concepire
l’insegnamento in modo tale da permettere all’individuo di modificarsi a
suo piacimento; e questo è possibile soltanto alla condizione che
l’insegnamento sia una possibilità offerta “in permanenza”.
Insomma, lei è per una società colta?
Dico che il collegamento alla cultura deve essere continuo e il più
polimorfo possibile. Non dovrebbero esserci, da una parte, una
formazione che si subisce e, dall’altra parte, un’informazione a cui si è
sottomessi.
Che ne sarà, in una società colta, della filosofia eterna?…
Abbiamo ancora bisogno di lei, dei suoi interrogativi senza risposta e
dei suoi silenzi di fronte all’inconoscibile?
Che cos’è la filosofia, se non un modo di riflettere, non tanto su
ciò che è vero e ciò che è falso, ma sul nostro rapporto con la verità?
Talvolta ci si lamenta che in Francia non esista una filosofia
dominante. Tanto meglio. Non c’è nessuna filosofia sovrana, è vero, ma
c’è una filosofia o, piuttosto, della filosofia in attività. La
filosofia è il movimento per cui ci si distacca – con sforzi,
esitazioni, sogni e illusioni – da ciò che è acquisito come vero, per
cercare altre regole del gioco. La filosofia è lo spostamento e la
trasformazione dei quadri di pensiero, il modificarsi dei valori
ricevuti, tutto il lavoro che si fa per pensare diversamente, per fare
diversamente, per diventare altro da quello che si è. Da questo punto di
vista, gli ultimi trent’anni sono stati un periodo di intensa attività
filosofica. L’interferenza tra l’analisi, la ricerca, la critica “colta”
o “teorica” e i cambiamenti nel comportamento, la condotta reale delle
persone, la loro maniera di essere, il loro rapporto con se stesse e con
gli altri, è stata costante e considerevole. Un attimo fa dicevo che la
filosofia è un modo di riflettere sulla nostra relazione con la verità.
Bisogna aggiungere; è un modo di chiedersi: se questo è il rapporto che
abbiamo con la verità, come dobbiamo comportarci? Credo che sia stato
fatto e che si stia continuando a fare un lavoro considerevole e
molteplice, che modifica, contemporaneamente, il nostro legame con la
verità e la nostra maniera di comportarci. E questo in una congiunzione
complessa tra una serie di ricerche e un insieme di movimenti sociali. È
la vita stessa della filosofia. È comprensibile che alcuni piangano sul
vuoto attuale e si augurino, nell’ordine delle idee, un po’ di
monarchia. Ma quelli che, almeno una volta nella loro vita, hanno
provato un tono nuovo, una nuova maniera di guardare, un altro modo di
fare, quelli, credo, non sentiranno mai il bisogno di lamentarsi perché
il mondo è errore, la storia satura di inesistenze; è tempo che gli
altri tacciano, in modo da non sentire più il suono della loro
riprovazione…
Documento ripreso da: https://www.nazioneindiana.com/2018/08/26/nessuno-mi-puo-giudicare-michel-foucault/
EZIO SPATARO, Cu cunta a Marine' un cunta m'Palermu
Marineo vista dall'alto
Riprendo dal nuovo blog di Ezio Spataro - http://cavadeipoeti.blogspot.com/ - una delle sue ultime composizioni che mette alla berlina un costume radicato in tutte le piccole comunità:
Cu cunta a Marinè
un cunta m'Palermu
e cu cunta m'Palermu
cunta puru au nfernu
sempri nta un paisi
c'è corcunu chi cunta
si c'è corcunu chi l'avanta
Chissi su come lu ventu
e nuddu si cci para davanti
comu quann'è tramuntana
e la genti s'arrassa e s'alluntana
comu quannu c'è sciroccu
e a la genti ci pari
va vidi nzoccu
comu quannu organizzanu ss'eventi curturali
e pari ca ciusciassi lu maistrali
comu quannu la pulitica è cummerciu
e pari ca ciusciassi lu libecciu
Chissi chi cuntanu
allura la spuntanu
picchì nuddu fa nenti
picchì l'autri su gnuranti
allura vannu comu lu ventu
e nuddu li ferma
mancu si nni paramu centu
Chissi chi cuntanu a Marinè
ragiunanu cu "lu dammi e tè"
comu nta un firm di Tarantinu
unu cu l'autru si fannu ammuinu
io vantu a tia
tu vanti a mia
iu ti vasu
e tu mi vasi
siddu m'ha stima ti salutu
asinnò passu grittu e sputu
iu ti salutu si tu mi saluti
nta stu paisi di saputi
Cu cunta a Marinè
cunta puru a Bifarera
si metti lu cappeddu
ma si cala la pampèra
accussi nun vidi nenti
e po ghiri sempri avanti
accussi nun vidi a nuddu
e pò fari tempu tintu
e tempu beddu
Chissi chi cuntanu a Marinè
vannu trasennu unn'egghè
trasinu a la chiesa
e attrovanu na casa
trasinu au casteddu
e s'arrustinu l'agneddu
trasinu m'pulitica
e attrovanu l'Amedica
Nuautri cucuzzi senza simenza
chi capemu di cultura e scienza?
Iddi fannu discursi e sirmuna
pi nuatri poviri gnurantuna
iddi parranu e iddi dicinu
iddi dissiru e iddi ficiru
iddi cuntanu e iddi fannu
iddi c'eranu e iddi sannu
E' beru ed è un fattu :
cu cunta a Marinè
cunta puru a lu Strasattu.
(Ezio Spataro)
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