Nessuno mi può giudicare: Michel Foucault
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• •Nota introduttiva di effeffe
Mentre facevo delle ricerche per un progetto a cui sto lavorando mi sono imbattuto in questa intervista a Michel Foucault, tanto strana quanto illuminante rispetto al paesaggio letterario e politico della nostra Europa, particolarmente buio di questi ultimi mesi. Il filosofo pretende dal giornalista che l’intervista sia pubblicata mantenendo anonimo l’autore e, proprio nel passaggio in cui motiva la decisione presa, ho trovato che il pensiero di Foucault si facesse carico di quelle esperienze che oggi, nell’era dei social network, molto più di allora, stanno caratterizzando la nostra vita sociale.
“Non so se il pubblico si aspetti che il critico giudichi le opere o
gli autori. Ma credo che i giudici fossero già lì prima che il pubblico
potesse dire di che cosa aveva voglia. Sembra che Courbet avesse un
amico che si svegliava di notte urlando: “Giudicare, voglio giudicare”. È
incredibile quanto le persone amino giudicare. Si giudica ovunque, di
continuo. Probabilmente, per l’umanità, è una delle cose più semplici da
fare. Ma lei sa che l’ultimo uomo, quando l’ultima radiazione avrà
ridotto in cenere il suo ultimo avversario, prenderà un tavolo sbilenco,
si siederà e comincerà il processo al responsabile? Non posso fare a
meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far
esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea; accenderebbe dei
fuochi, guarderebbe crescere l’erba, ascolterebbe il vento e prenderebbe
al volo la spuma del mare per disperderla. Riprodurrebbe, invece che
dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro
sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica
sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille
di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe
con sé i lampi di possibili tempeste.” (Francesco Forlani)
Il filosofo mascherato
(1980)
intervista a Michel Foucault di C. Delacampagne, in “Le Monde”,
n. 10945, 6 aprile 1980: “Le Monde-Dimanche”, pp.I e XVII.
Traduttore: Sabrina Loriga Curatore: Alessandro Pandolfi
Immagino che lei conosca la storia di quegli psicologi che hanno
presentato un breve filmato in un villaggio nel cuore dell’Africa
profonda. Domandano agli spettatori di raccontare la storia, come
l’hanno capita. Ebbene, di una trama a tre personaggi, una sola cosa li
aveva interessati: il passaggio delle ombre e delle luci attraverso gli
alberi.
Da noi i personaggi dettano legge alla percezione. Gli occhi si
rivolgono preferibilmente verso le figure che vanno e vengono, spuntano e
scompaiono. Perché le ho suggerito di utilizzare l’anonimato? Per
nostalgia del tempo in cui ero assolutamente sconosciuto e, quindi, quel
che dicevo aveva qualche possibilità di essere inteso. Il contatto
immediato con l’eventuale lettore non faceva grinze. Gli effetti del
libro si riflettevano in luoghi imprevisti e disegnavano forme a cui non
avevo mai pensato. Il nome costituisce una facilitazione.
Vorrei proporre un gioco: quello dell’“anno senza nome”. Per un
anno si pubblicheranno soltanto libri privi del nome dell’autore. I
critici dovranno sbrigarsela con una produzione completamente anonima.
Ma penso che, forse, non avrebbero nulla da dire: tutti gli autori
aspetterebbero l’anno successivo per pubblicare i loro libri…
Crede che, oggi, gli intellettuali parlino troppo? Che ci
ingombrino con i loro discorsi al minimo pretesto e, spesso, anche senza
il minimo pretesto?
La morte degli intellettuali mi sembra uno strano concetto. Di
intellettuali, non ne ho mai incontrati. Ho incontrato persone che
scrivono romanzi e persone che curano i malati. Persone che studiano
economia e persone che compongono musica elettronica. Ho incontrato
persone che insegnano, persone che dipingono e persone di cui non ho ben
capito se facessero qualcosa. Ma non ho mai incontrato intellettuali.
Viceversa, ho incontrato molte persone che parlano dell’intellettuale.
E, a forza di ascoltarli, mi sono fatto un’idea di che tipo di animale
si tratti. Non è difficile, è il colpevole. Colpevole un po’ di tutto:
di parlare, di tacere, di non fare nulla, di impicciarsi di ogni cosa…
Insomma, l’intellettuale è la materia prima da giudicare, da condannare,
da escludere…Non penso che gli intellettuali parlino troppo, perché per
me non esistono. Ma penso che il discorso sugli intellettuali stia
passando il limite e sia poco rassicurante. Ho una brutta mania. Quando
le persone parlano tanto per parlare, quando fanno discorsi campati per
aria, cerco di immaginare dove porterebbero le loro parole se fossero
trascritte nella realtà. Quando “criticano” qualcuno, quando
“denunciano” le sue idee, quando “condannano” ciò che scrive, li
immagino in una situazione ideale in cui hanno pieno potere su di lui.
Riporto le loro parole al primo significato: “Demolire”, “abbattere”,
“ridurre al silenzio”, “seppellire”. E vedo schiudersi la radiosa città
in cui l’intellettuale sarebbe certamente imprigionato e impiccato, a
maggior ragione se fosse anche un teorico. È vero, non viviamo in un
regime in cui gli intellettuali vengono mandati nelle risaie; ma, in
realtà, mi dica, ha mai sentito parlare di un certo Toni Negri? Non è
forse in prigione proprio in quanto intellettuale?
Ma, allora, che cosa l’ha indotta a trincerarsi dietro
l’anonimato? Un certo uso pubblicitario che, oggi, certi filosofi fanno o
lasciano fare del loro nome?
Questo non mi turba minimamente. Nei corridoi del mio liceo ho
visto grandi uomini di gesso. E ora, sulla prima pagina dei giornali, in
basso, vedo la fotografia del pensatore. Non so se l’estetica sia
migliorata. La razionalità economica lo è sicuramente…In fondo, mi
colpisce profondamente una lettera scritta da Kant, quando era già molto
vecchio: contro l’età, la vista che si abbassava e le idee che si
confondevano, si affrettava, così racconta, a terminare un libro per la
fiera del libro di Lipsia. Racconto questo episodio per dimostrare che
non ha nessuna importanza. Pubblicità o no, fiera o no, il libro è
tutt’altra cosa. Non riusciranno mai a farmi credere che un libro sia
brutto perché si è visto il suo autore alla televisione. Ma neanche che
sia buono per questa sola ragione.
Se ho scelto l’anonimato, non è per criticare questo o quello, cosa
che non faccio mai. È un modo per rivolgermi più direttamente
all’eventuale lettore, l’unico personaggio che mi interessa:
“Siccome non sai chi sono, non avrai la tentazione di cercare le
ragioni per cui dico quello che leggi; lasciati andare, di’
semplicemente: è vero, è falso, mi piace, non mi piace. Punto e basta”.
Ma il pubblico non si aspetta che la critica fornisca dei giudizi precisi sul valore di un’opera?
Non so se il pubblico si aspetti che il critico giudichi le opere o
gli autori. Ma credo che i giudici fossero già lì prima che il pubblico
potesse dire di che cosa aveva voglia. Sembra che Courbet avesse un
amico che si svegliava di notte urlando: “Giudicare, voglio giudicare”. È
incredibile quanto le persone amino giudicare. Si giudica ovunque, di
continuo. Probabilmente, per l’umanità, è una delle cose più semplici da
fare. Ma lei sa che l’ultimo uomo, quando l’ultima radiazione avrà
ridotto in cenere il suo ultimo avversario, prenderà un tavolo sbilenco,
si siederà e comincerà il processo al responsabile? Non posso fare a
meno di pensare a una critica che non cerchi di giudicare, ma di far
esistere un’opera, un libro, una frase, un’idea; accenderebbe dei
fuochi, guarderebbe crescere l’erba, ascolterebbe il vento e prenderebbe
al volo la spuma del mare per disperderla. Riprodurrebbe, invece che
dei giudizi, dei segni di vita; li chiamerebbe, li strapperebbe dal loro
sonno. Talvolta li inventerebbe? Tanto meglio, tanto meglio. La critica
sentenziosa mi fa addormentare; vorrei una critica fatta di scintille
di immaginazione. Non sarebbe sovrana, né vestita di rosso. Porterebbe
con sé i lampi di possibili tempeste.
Ma ci sono talmente tante cose da far conoscere, talmente tanti
lavori interessanti, che i media dovrebbero parlare tutto il tempo di
filosofia?
Certamente, tra la “critica” e coloro che scrivono libri esiste un
disagio di lunga data. Gli uni non si sentono capiti e gli altri credono
che si voglia fare pressioni su di loro. Ma il gioco è questo. Mi
sembra che oggi la situazione sia abbastanza particolare. Abbiamo
istituzioni povere, mentre ci troviamo in una situazione di
sovrabbondanza. Tutti si sono accorti dell’esaltazione che spesso
accompagna la pubblicazione (o la riedizione) di opere, che peraltro
talvolta sono interessanti. Si tratta, sempre, nientemeno che della
“sovversione di tutti i codici”, dell’“antagonista della cultura
contemporanea”, della “discussione radicale di tutto il nostro modo di
pensare”. Il suo autore deve essere un marginale incompreso.
In compenso, non c’è dubbio che gli altri debbano essere rispediti
nell’oscurità da cui non avrebbero mai dovuto uscire; non erano
nient’altro che la schiuma di “una moda irrilevante”, un semplice
prodotto istituzionale, ecc.
Si dice che si tratta di un fenomeno parigino e superficiale. Io vi
percepisco, invece, gli effetti di un’inquietudine profonda. Il
sentimento del “nessun posto libero”, “o lui o me”, “uno alla volta”. Si
sta in fila indiana, a causa dell’estrema esiguità di luoghi in cui
poter ascoltare e farsi sentire.
Ne consegue una specie di angoscia che prorompe in mille sintomi,
più o meno curiosi. Da qui, in coloro che scrivono, il sentimento della
loro impotenza di fronte ai media, ai quali rimproverano di dominare il
mondo dei libri e di far esistere o scomparire quelli che piacciono o
dispiacciono. Da qui, nei critici, il sentimento di non riuscire a farsi
ascoltare, a meno di alzare il tono e di tirar fuori dal cappello un
coniglio alla settimana. Da qui anche la pseudopoliticizzazione, che
maschera, dietro alla necessità di condurre una “battaglia ideologica” o
di stanare i “pensieri pericolosi”, l’ansia profonda di non essere né
letti né ascoltati. Da qui anche la fobia fantastica del potere: ogni
persona che scrive esercita un potere inquietante a cui bisogna cercare
di porre, se non un termine, almeno dei limiti. Da qui anche
l’affermazione un po’ incantatrice che, attualmente, tutto è vuoto,
desolato, privo di interesse e di importanza: affermazione che,
evidentemente, proviene da coloro che, non facendo nulla, pensano che
gli altri siano di troppo.
Ma non crede che la nostra epoca sia realmente priva di spiriti all’altezza dei suoi problemi e di grandi scrittori?
No, non credo al ritornello della decadenza, dell’assenza di
scrittori, della sterilità del pensiero, dell’orizzonte cupo e tetro.
Credo, al contrario, che ci sia un’abbondanza eccessiva. E che non
soffriamo per il vuoto, ma perché i mezzi per pensare a tutto quello che
accade sono troppo pochi. Ci sono moltissime cose da conoscere:
fondamentali, terribili, meravigliose o strane,insieme minuscole e
capitali. E poi c’è una curiosità immensa, un bisogno, un desiderio di
conoscere. Ci si lamenta sempre che i media imbottiscono la testa delle
persone. In questa idea c’è della misantropia. Credo, invece, che le
persone reagiscano; più si cerca di convincerle, più si interrogano. Lo
spirito non è una cera molle. È una sostanza reattiva. E il desiderio di
saperne di più, meglio e diversamente, cresce man mano che si cerca di
imbottire le teste.
Se questo è vero e se aggiungiamo a questo che, all’università e in
altri luoghi, si stanno formando grandi quantità di persone che possono
servire da scambiatori tra la massa di cose e l’avidità di sapere, si
può ben presto dedurre che la disoccupazione degli studenti è la cosa
più assurda che esista. Il problema è di moltiplicare i canali, le
passerelle, i mezzi di informazione, le reti televisive e quelle
radiofoniche, i giornali. La curiosità è stata un vizio stigmatizzato di
volta in volta dal Cristianesimo, dalla filosofia e persino da una
certa concezione della scienza. Curiosità, futilità. Eppure, la parola
mi piace. Mi suggerisce una cosa affatto diversa: evoca la “cura”,
l’attenzione che si presta a quello che esiste o potrebbe esistere; un
senso acuto del reale, che però non si immobilizza mai di fronte a esso;
una prontezza a giudicare strano e singolare quello che ci circonda; un
certo accanimento a disfarsi di ciò che è familiare e a guardare le
stesse cose diversamente; un ardore di cogliere quello che accade e
quello che passa; una disinvoltura nei confronti delle gerarchie
tradizionali tra ciò che è importante e ciò che è essenziale.
Sogno una nuova età della curiosità. I mezzi tecnici ci sono; il
desiderio c’è; le cose da conoscere sono infinite; le persone che
possono impegnarsi in questo lavoro esistono. Di che cosa soffriamo? Di
scarsità: canali stretti, striminziti, quasi monopolistici,
insufficienti. Non si tratta di adottare un atteggiamento protezionista
per impedire alla “cattiva” informazione di invadere e di soffocare la
“buona”. Bisogna, invece, moltiplicare i tragitti e le possibilità di
andare e venire. Nessun colbertismo in quest’ambito. Il che non
significa, come spesso si teme, uniformizzazione e livellamento verso il
basso. Significa, al contrario, differenziazione e simultaneità di reti
differenti. Immagino che, a questo livello, i media e le università
potrebbero avere funzioni complementari, invece di continuare a opporsi.
Lei ricorda la mirabile frase di Sylvain Lévy: l’insegnamento
comporta un uditore; appena ce ne sono due, diventa volgarizzazione.
Anche i libri, l’università, le riviste colte sono dei media. Si
dovrebbe evitare di chiamare media i canali di informazione ai quali non
si può o non si vuole accedere. Bisogna capire come far agire le
differenze; sapere se si debba instaurare una zona riservata, un “parco
culturale” per le fragili specie dei colti, minacciati dai grandi rapaci
dell’informazione, mentre tutto il resto dello spazio sarebbe una vasto
mercato per la paccottiglia.
Non mi sembra che una simile ripartizione corrisponda alla realtà.
Peggio: non mi sembra affatto augurabile. Per far agire le differenze
utili non deve esserci nessuna ripartizione.
Ma no, non va tutto male. In ogni caso, credo che non si debba
confondere la critica costruttiva contro le cose con le geremiadi
ripetitive contro le persone. Per quanto riguarda le proposte concrete,
esse appaiono come dei gadget, se prima non vengono precisati alcuni
princìpi generali. Questo, prima di tutto: il diritto al sapere non deve
essere riservato né a un’età della vita, né a certe categorie di
individui; si deve poterlo esercitare ininterrottamente e in forme
molteplici.
Ma questa voglia di sapere non è ambigua? Alla fine, che cosa se
ne farà la gente di tutto questo sapere che sta acquisendo? A che cosa
potrà servire?
Una delle funzioni principali dell’insegnamento consisteva in
questo: la formazione dell’individuo andava di pari passo con la
determinazione del suo posto nella società. Oggi bisognerebbe concepire
l’insegnamento in modo tale da permettere all’individuo di modificarsi a
suo piacimento; e questo è possibile soltanto alla condizione che
l’insegnamento sia una possibilità offerta “in permanenza”.
Insomma, lei è per una società colta?
Dico che il collegamento alla cultura deve essere continuo e il più
polimorfo possibile. Non dovrebbero esserci, da una parte, una
formazione che si subisce e, dall’altra parte, un’informazione a cui si è
sottomessi.
Che ne sarà, in una società colta, della filosofia eterna?…
Abbiamo ancora bisogno di lei, dei suoi interrogativi senza risposta e
dei suoi silenzi di fronte all’inconoscibile?
Che cos’è la filosofia, se non un modo di riflettere, non tanto su
ciò che è vero e ciò che è falso, ma sul nostro rapporto con la verità?
Talvolta ci si lamenta che in Francia non esista una filosofia
dominante. Tanto meglio. Non c’è nessuna filosofia sovrana, è vero, ma
c’è una filosofia o, piuttosto, della filosofia in attività. La
filosofia è il movimento per cui ci si distacca – con sforzi,
esitazioni, sogni e illusioni – da ciò che è acquisito come vero, per
cercare altre regole del gioco. La filosofia è lo spostamento e la
trasformazione dei quadri di pensiero, il modificarsi dei valori
ricevuti, tutto il lavoro che si fa per pensare diversamente, per fare
diversamente, per diventare altro da quello che si è. Da questo punto di
vista, gli ultimi trent’anni sono stati un periodo di intensa attività
filosofica. L’interferenza tra l’analisi, la ricerca, la critica “colta”
o “teorica” e i cambiamenti nel comportamento, la condotta reale delle
persone, la loro maniera di essere, il loro rapporto con se stesse e con
gli altri, è stata costante e considerevole. Un attimo fa dicevo che la
filosofia è un modo di riflettere sulla nostra relazione con la verità.
Bisogna aggiungere; è un modo di chiedersi: se questo è il rapporto che
abbiamo con la verità, come dobbiamo comportarci? Credo che sia stato
fatto e che si stia continuando a fare un lavoro considerevole e
molteplice, che modifica, contemporaneamente, il nostro legame con la
verità e la nostra maniera di comportarci. E questo in una congiunzione
complessa tra una serie di ricerche e un insieme di movimenti sociali. È
la vita stessa della filosofia. È comprensibile che alcuni piangano sul
vuoto attuale e si augurino, nell’ordine delle idee, un po’ di
monarchia. Ma quelli che, almeno una volta nella loro vita, hanno
provato un tono nuovo, una nuova maniera di guardare, un altro modo di
fare, quelli, credo, non sentiranno mai il bisogno di lamentarsi perché
il mondo è errore, la storia satura di inesistenze; è tempo che gli
altri tacciano, in modo da non sentire più il suono della loro
riprovazione…
Documento ripreso da: https://www.nazioneindiana.com/2018/08/26/nessuno-mi-puo-giudicare-michel-foucault/
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