25 agosto 2018

V. MILLEFOGLIE, Viaggio nell'Italia in minoranza


Basilicata, Ginestra, strada per Maschito – ph. Emanuela Colombo


      Roland Barthes raccontava di una tribù aborigena che, ogni volta in cui moriva un suo membro, eliminava una parola dal proprio vocabolario, in segno di lutto. L’aneddoto, letto in un manuale di geografia, gli piaceva perché, dal suo punto di vista, una simile tradizione equivaleva a «mettere sullo stesso piano il linguaggio e la vita, affermare che gli uomini detengono il potere sulla lingua, che le danno degli ordini, piuttosto che riceverne».
Mettere sullo stesso pieno il linguaggio e la vita, ricordare che «ogni parola è una persona», scrive Valerio Millefoglie nel primo dei reportage contenuti in “Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza”, dedicati alle lingue minoritarie che si parlano sul territorio italiano e che ancora contengono dei mondi. Dal walser all’occitano, dal tabarchino al grico, cominciando dall’arbëreshe: dei gusci-mondo linguistico-culturali, le lingue come trame indissolubilmente legate all’ordito di una comunità, al suo vissuto storico, alla sua esperienza.
Questo libro, incisivo sin dal progetto grafico di copertina, è il primo volume pubblicato da CTRL magazine; le narrazioni si accompagnano a una serie fotografica firmata da Emanuela Colombo, un contrappunto visivo mai didascalico, mai ammiccante, sempre poetico e profondamente onesto.
Propongo qui di seguito una prima parte del racconto/reportage di Valerio Millefoglie, ringraziando l’editore. [ornella tajani]

Stiamo scomparendo – Viaggio nell’Italia in minoranza

di Valerio Millefoglie
Se leggi non finisci più, Arbëreshe

Il mio viaggio abbecedario comincia dalla lettera di bukë, pane in lingua arbëreshe. A farmela scoprire è Arjana Bechere quando le chiedo qual è la parola della sua lingua che salverebbe dall’estinzione. Siamo in piedi, fuori dall’auto, in procinto di partire da Matera alla volta di San Paolo Albanese, il primo dei cinque comuni di origini arbëreshë della Basilicata che visiterò in questa ricerca di un dizionario a me oscuro. Ogni parola è una persona. Arjana descrive le pieghe delle mani di sua nonna e quelle del pane che prendeva forma, come se la pelle imprimesse i solchi degli anni all’acqua e alla farina, alla crosta e alla mollìca, in una casa di legno attraversata da geografie di tappeti, in un paesino ai confini del Montenegro. Così in una sola parola Arjana salva il cibo, il ricordo e un luogo che ha abbandonato all’età di undici anni per essere affidata a una famiglia italiana. Sul risvolto della giacca ha una spilla con sopra scritto Rete degli Imprenditori della Diaspora Albanese in Italia. «Avremo modo di parlare anche di questo», mi dice. Mai come in questo viaggio mi renderò invece conto che non c’è mai tempo per dire tutto. La mia agenda 2018, in pochi giorni, si riempie fino a dicembre non di impegni ma di termini sconosciuti. A volte vanno fuori dai bordi della pagina e allora cerco di depositarli nella memoria. «Questa è una lingua miracolo», mi dirà Donato Mazzeo, una delle tante persone che incontrerò, «Ha avuto la fortuna di avere un popolo combattente che senza libri, senza scuole, perché è sempre stata una lingua tramandata oralmente, l’ha tenuta in vita per secoli». Non la pagina scritta quindi, ma appunto la memoria. Non l’inchiostro ma il sangue. «Gjaku ynëi shprishur», il nostro sangue sparso. «È un modo di dire che indica come il nostro popolo, che ha lasciato la sua terra nel 1500 per non sottostare all’impero ottomano, sia ora ovunque», mi dice Rosangela Palmieri, responsabile del museo comunale della cultura arbëreshë di San Paolo Albanese. Per spiegarmelo meglio mi racconta di un 23 dicembre di molti anni fa, quando si ritrovò in un treno colmo di gente, non trovava posto a sedere e fu accolta in un vagone da alcuni studenti di cui riconobbe subito l’origine, «Parlavano in italiano fra l’altro, ma dal tono avvertivo una provenienza comune», ricorda. E mentre ci dirigiamo verso il museo ho l’impressione che il paese tutto sia un museo. Case in pietra, pietra che cade, travi in legno che sostengono architetture creando croci nel paesaggio, arcate del 1800, una piccola area giochi con due altalene, proprio quante i bambini residenti qui. La vecchia scuola diventerà una casa di riposo. Nessuno in piedi sui banchi, tutti stesi sul letto, il futuro è delle lenzuola e delle garze. Su un edificio leggo la scritta: “Benedetti coloro che riescono a dare ai propri figli ali e radici”. Il proprietario, scopro, non abita qui e non ha avuto figli. Un gatto ci segue, a volte ci precede, per animare al nostro arrivo le strade altrimenti silenziose. «Qui per quanti siamo rimasti o facciamo pace o facciamo pace. Non è che hai alternative. Già ci siamo divisi abbastanza», dice Annibale Formica, 72 anni, ex sindaco di San Paolo Albanese e fondatore del museo arbëreshë nel 1984. A lui, ad Arjana e a Rosangela chiedo come facciano ad avvertire la mancanza di qualcosa che in realtà non hanno mai vissuto. «Si tratta di un affetto remoto» risponde Formica, «Qualcosa che fa parte del tuo DNA e che ti crea una voglia, una nostalgia, un senso di appartenenza». Rosangela aggiunge: «Una volta a Bari c’erano due albanesi che camminavano davanti a me. Ho alzato il passo non perché mi interessasse sapere cosa si dicessero ma per sapere come lo dicevano, per sentire quel suono melodioso che ha qualcosa di me». L’arbëreshe infatti è una lingua arcaica, sopravvissuta anche all’albanese stesso. Su una parete del museo continuo la conoscenza della lettera di questo vocabolario immaginario, la di Bukura More, una canzone della tradizione popolare. «Le madri sollevavano i neonati sulle braccia per mostrargli dalle montagne lo Ionio che non avrebbero mai visto da vicino», mi spiegano, «Poi gli cantavano questa canzone». Mi faccio tradurre i primi versi, nel freddo di una sala in cui i visitatori, come la lingua, sono da rievocare: “Da che ti ho lasciata non ti ho più rivista, lì ho il mio signor padre, la mia signora madre, i miei fratelli. Tutti coperti, tutti sottoterra”.
«O e bukura More, Çёkur tёlje (lasçё) Mёnigjёtёpe, Atje kam unёzotin-tatё, Atje kam unёmёmёn time, Atje kam u tim vёlla, O e bukura More, Çёkur tёlje (lasçё)/ Mёnigjёtё».Me la canta Quirino Valvano, 54 anni, nella sua casa sulla riva del fiume Sarmento, a pochi metri dall’ingresso di San Costantino Albanese. A portarmi qui, a farmi intraprendere un sentiero di campagna dove le ruote dell’auto affondano nel fango causato dalle piogge dei giorni precedenti, è stata una voce, quella di Piero Abitante, che ho conosciuto solo telefonicamente perché da anni vive a Matera. Gli ho chiesto cosa gli mancasse del suo paese, «Tutto, è talmente piccolo che mi manca tutto». Gli ho chiesto allora di pensare a una persona per lui importante e mi ha raccontato di un costruttore di zampogne e di strumenti tipici come la ciaramella e la surdulina. «Quando eravamo più giovani io e i miei amici riscoprimmo le canzoni della nostra tradizione popolare e Quirino ci costruì le zampogne con cui suonammo in giro per il paese». L’acqua che scorre e il fruscio degli alberi sono il linguaggio che circonda la casa e il laboratorio di Quirino. «Nelle estati da adolescente», mi dice lui, «Venivamo fin qui dal paese a giocare sotto il ponte. Facevamo le capanne, i covi, avevamo le nostre armi, eravamo gli indiani. E adesso mi ritrovo ad abitare proprio qui. Questo appezzamento di terra era stato dato in concessione a mio nonno negli anni Cinquanta, quando ci giocavo io la casa c’era già ma all’epoca non conoscevo proprietà e confini, conoscevo soltanto il fiume». Come in un dizionario, dove le lettere mettono in fila parole di significato simile che poi da questo si allontanano per diventare e raccontare altro, Quirino mi indica il nome di un artigiano del posto. E il suo nome è il nome di un animale.
All’emporio acquisto una bottiglia di vino Aglianico e mi presento alla porta della tana del lupo. Proprio così c’è scritto: “La Tana del Lupo”. Su un’insegna c’è inciso: “Chi mi viene a trovare porti da bere o da mangiare”. Quando entro, Mario, il vero nome del lupo, sta lavorando l’argilla per darle la forma della testa di un demonio. Al muro c’è appesa la maschera di un lupo intagliata nel legno che gli calza perfettamente. Se dovesse salvare una sola parola di arbëreshsalverebbe libertà, anche se non sa esattamente come si scrive. «La mia infanzia qui è stata slegata, speciale, libera». Da adulto è emigrato in Francia, a Lione. «Ho messo su famiglia, ho fatto qualsiasi lavoro: scaricavo camion, lavoravo nella logistica, nei grandi depositi, facevo lo scalpellino in un’impresa. Finita la mia storia d’amore è finita anche la mia storia con il lavoro. Qualsiasi casa non mi piaceva, non avevo radici. Ho aspettato che mio figlio compisse 18 anni e lo scorso agosto, dopo ventidue anni, sono tornato qui». Quella che era la casa di famiglia, è tornata a essere la sua tana.
Seduto nella sala ristorante della locanda Tri Kartuche ho l’impressione di stare a bordo di una barca che salpa non per mari ma per montagne. Il camino è acceso. Dalle grandi vetrate si vede la riva degli alberi. Qualcuno mi racconta del giorno in cui è nato: il padre benda la madre, le mette davanti il calendario sul mese corrente e le dice di indicare un punto; il santo del giorno su cui finisce il dito materno diventa il suo nome.
«Non c’è niente di più giapponese dell’arbëreshe», mi dice un uomo al bancone. «Adesso vado che ho da lavorare per la NASA. Per lavorare alla NASA devi avere i documenti di Potenza». Gli chiedo che tipo di lavoro svolge per la NASA. «Tu fai domande troppo concrete», mi dice. «Io sono qui per fare le domande», gli dico. «Eh, e io faccio le risposte», conclude. Poi esce e quando dopo qualche minuto rientra dice «Stavo ragionando ora con la telecamera che c’era in piazza». In piazza una ragazza di 29 anni mi spiega che questa è la lingua dei nonni e che lei non la sa parlare bene. Un suo amico di 31 anni mi dice che è la lingua delle bestemmie, la usa ogni giorno al lavoro. Qualcun altro dice che è la lingua segreta con la quale ci si parla di nascosto quando ci sono i forestieri, come me. Trascorro la notte in una camera della locanda Tri Kartuce pensando a quello che mi hanno detto altri abitanti. «Dormirai nella casa accanto a quella dove si trova l’ultimo murale realizzato da Carlo Levi».
[…] 

Documento ripreso da  https://www.nazioneindiana.com/2018/08/25/75580/

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