Roland Barthes raccontava di una tribù aborigena che, ogni volta in cui moriva un suo membro, eliminava una parola dal proprio vocabolario, in segno di lutto. L’aneddoto, letto in un manuale di geografia, gli piaceva perché, dal suo punto di vista, una simile tradizione equivaleva a «mettere sullo stesso piano il linguaggio e la vita, affermare che gli uomini detengono il potere sulla lingua, che le danno degli ordini, piuttosto che riceverne».
Mettere sullo stesso pieno il linguaggio e la vita, ricordare che «ogni parola è una persona», scrive Valerio Millefoglie nel primo dei reportage contenuti in “Stiamo scomparendo. Viaggio nell’Italia in minoranza”, dedicati alle lingue minoritarie che si parlano sul territorio italiano e che ancora contengono dei mondi. Dal walser all’occitano, dal tabarchino al grico, cominciando dall’arbëreshe: dei gusci-mondo linguistico-culturali, le lingue come trame indissolubilmente legate all’ordito di una comunità, al suo vissuto storico, alla sua esperienza.
Questo libro, incisivo sin dal progetto grafico di copertina, è il primo volume pubblicato da CTRL magazine; le narrazioni si accompagnano a una serie fotografica firmata da Emanuela Colombo, un contrappunto visivo mai didascalico, mai ammiccante, sempre poetico e profondamente onesto.
Propongo qui di seguito una prima parte del racconto/reportage di Valerio Millefoglie, ringraziando l’editore. [ornella tajani]
Stiamo scomparendo – Viaggio nell’Italia in minoranza
di Valerio Millefoglie
Se leggi non finisci più, Arbëreshe
Il mio viaggio abbecedario comincia dalla lettera b di bukë, pane in lingua arbëreshe. A farmela scoprire è Arjana Bechere quando
le chiedo qual è la parola della sua lingua che salverebbe
dall’estinzione. Siamo in piedi, fuori dall’auto, in procinto di partire
da Matera alla volta di San Paolo Albanese, il primo dei cinque comuni
di origini arbëreshë della
Basilicata che visiterò in questa ricerca di un dizionario a me oscuro.
Ogni parola è una persona. Arjana descrive le pieghe delle mani di sua
nonna e quelle del pane che prendeva forma, come se la pelle imprimesse i
solchi degli anni all’acqua e alla farina, alla crosta e alla mollìca,
in una casa di legno attraversata da geografie di tappeti, in un paesino
ai confini del Montenegro. Così in una sola parola Arjana salva il
cibo, il ricordo e un luogo che ha abbandonato all’età di undici anni
per essere affidata a una famiglia italiana. Sul risvolto della giacca
ha una spilla con sopra scritto Rete degli Imprenditori della Diaspora Albanese in Italia.
«Avremo modo di parlare anche di questo», mi dice. Mai come in questo
viaggio mi renderò invece conto che non c’è mai tempo per dire tutto. La
mia agenda 2018, in pochi giorni, si riempie fino a dicembre non di
impegni ma di termini sconosciuti. A volte vanno fuori dai bordi della
pagina e allora cerco di depositarli nella memoria. «Questa è una lingua
miracolo», mi dirà Donato Mazzeo, una delle tante persone che
incontrerò, «Ha avuto la fortuna di avere un popolo combattente che
senza libri, senza scuole, perché è sempre stata una lingua tramandata
oralmente, l’ha tenuta in vita per secoli». Non la pagina scritta
quindi, ma appunto la memoria. Non l’inchiostro ma il sangue. «Gjaku ynëi shprishur»,
il nostro sangue sparso. «È un modo di dire che indica come il nostro
popolo, che ha lasciato la sua terra nel 1500 per non sottostare
all’impero ottomano, sia ora ovunque», mi dice Rosangela Palmieri,
responsabile del museo comunale della cultura arbëreshë di
San Paolo Albanese. Per spiegarmelo meglio mi racconta di un 23
dicembre di molti anni fa, quando si ritrovò in un treno colmo di gente,
non trovava posto a sedere e fu accolta in un vagone da alcuni studenti
di cui riconobbe subito l’origine, «Parlavano in italiano fra l’altro,
ma dal tono avvertivo una provenienza comune», ricorda. E mentre ci
dirigiamo verso il museo ho l’impressione che il paese tutto sia un
museo. Case in pietra, pietra che cade, travi in legno che sostengono
architetture creando croci nel paesaggio, arcate del 1800, una piccola
area giochi con due altalene, proprio quante i bambini residenti qui. La
vecchia scuola diventerà una casa di riposo. Nessuno in piedi sui
banchi, tutti stesi sul letto, il futuro è delle lenzuola e delle garze.
Su un edificio leggo la scritta: “Benedetti coloro che riescono a dare
ai propri figli ali e radici”. Il proprietario, scopro, non abita qui e
non ha avuto figli. Un gatto ci segue, a volte ci precede, per animare
al nostro arrivo le strade altrimenti silenziose. «Qui per quanti siamo
rimasti o facciamo pace o facciamo pace. Non è che hai alternative. Già
ci siamo divisi abbastanza», dice Annibale Formica, 72 anni, ex sindaco
di San Paolo Albanese e fondatore del museo arbëreshë nel
1984. A lui, ad Arjana e a Rosangela chiedo come facciano ad avvertire
la mancanza di qualcosa che in realtà non hanno mai vissuto. «Si tratta
di un affetto remoto» risponde Formica, «Qualcosa che fa parte del tuo
DNA e che ti crea una voglia, una nostalgia, un senso di appartenenza».
Rosangela aggiunge: «Una volta a Bari c’erano due albanesi che
camminavano davanti a me. Ho alzato il passo non perché mi interessasse
sapere cosa si dicessero ma per sapere come lo dicevano, per sentire
quel suono melodioso che ha qualcosa di me». L’arbëreshe infatti
è una lingua arcaica, sopravvissuta anche all’albanese stesso. Su una
parete del museo continuo la conoscenza della lettera b di questo vocabolario immaginario, la b di Bukura More,
una canzone della tradizione popolare. «Le madri sollevavano i neonati
sulle braccia per mostrargli dalle montagne lo Ionio che non avrebbero
mai visto da vicino», mi spiegano, «Poi gli cantavano questa canzone».
Mi faccio tradurre i primi versi, nel freddo di una sala in cui i
visitatori, come la lingua, sono da rievocare: “Da che ti ho lasciata
non ti ho più rivista, lì ho il mio signor padre, la mia signora madre, i
miei fratelli. Tutti coperti, tutti sottoterra”.
«O e bukura More, Çёkur tёlje (lasçё) Mёnigjёtёpe, Atje kam unёzotin-tatё, Atje kam unёmёmёn time, Atje kam u tim vёlla, O e bukura More, Çёkur tёlje (lasçё)/ Mёnigjёtё».Me
la canta Quirino Valvano, 54 anni, nella sua casa sulla riva del fiume
Sarmento, a pochi metri dall’ingresso di San Costantino Albanese. A
portarmi qui, a farmi intraprendere un sentiero di campagna dove le
ruote dell’auto affondano nel fango causato dalle piogge dei giorni
precedenti, è stata una voce, quella di Piero Abitante, che ho
conosciuto solo telefonicamente perché da anni vive a Matera. Gli ho
chiesto cosa gli mancasse del suo paese, «Tutto, è talmente piccolo che
mi manca tutto». Gli ho chiesto allora di pensare a una persona per lui
importante e mi ha raccontato di un costruttore di zampogne e di
strumenti tipici come la ciaramella e la surdulina.
«Quando eravamo più giovani io e i miei amici riscoprimmo le canzoni
della nostra tradizione popolare e Quirino ci costruì le zampogne con
cui suonammo in giro per il paese». L’acqua che scorre e il fruscio
degli alberi sono il linguaggio che circonda la casa e il laboratorio di
Quirino. «Nelle estati da adolescente», mi dice lui, «Venivamo fin qui
dal paese a giocare sotto il ponte. Facevamo le capanne, i covi, avevamo
le nostre armi, eravamo gli indiani. E adesso mi ritrovo ad abitare
proprio qui. Questo appezzamento di terra era stato dato in concessione a
mio nonno negli anni Cinquanta, quando ci giocavo io la casa c’era già
ma all’epoca non conoscevo proprietà e confini, conoscevo soltanto il
fiume». Come in un dizionario, dove le lettere mettono in fila parole di
significato simile che poi da questo si allontanano per diventare e
raccontare altro, Quirino mi indica il nome di un artigiano del posto. E
il suo nome è il nome di un animale.
All’emporio acquisto una bottiglia di vino Aglianico e
mi presento alla porta della tana del lupo. Proprio così c’è scritto:
“La Tana del Lupo”. Su un’insegna c’è inciso: “Chi mi viene a trovare
porti da bere o da mangiare”. Quando entro, Mario, il vero nome del
lupo, sta lavorando l’argilla per darle la forma della testa di un
demonio. Al muro c’è appesa la maschera di un lupo intagliata nel legno
che gli calza perfettamente. Se dovesse salvare una sola parola di arbëreshe salverebbe libertà,
anche se non sa esattamente come si scrive. «La mia infanzia qui è
stata slegata, speciale, libera». Da adulto è emigrato in Francia, a
Lione. «Ho messo su famiglia, ho fatto qualsiasi lavoro: scaricavo
camion, lavoravo nella logistica, nei grandi depositi, facevo lo
scalpellino in un’impresa. Finita la mia storia d’amore è finita anche
la mia storia con il lavoro. Qualsiasi casa non mi piaceva, non avevo
radici. Ho aspettato che mio figlio compisse 18 anni e lo scorso agosto,
dopo ventidue anni, sono tornato qui». Quella che era la casa di
famiglia, è tornata a essere la sua tana.
Seduto nella sala ristorante della locanda Tri Kartuche
ho l’impressione di stare a bordo di una barca che salpa non per mari
ma per montagne. Il camino è acceso. Dalle grandi vetrate si vede la
riva degli alberi. Qualcuno mi racconta del giorno in cui è nato: il
padre benda la madre, le mette davanti il calendario sul mese corrente e
le dice di indicare un punto; il santo del giorno su cui finisce il
dito materno diventa il suo nome.
«Non c’è niente di più giapponese dell’arbëreshe»,
mi dice un uomo al bancone. «Adesso vado che ho da lavorare per la
NASA. Per lavorare alla NASA devi avere i documenti di Potenza». Gli
chiedo che tipo di lavoro svolge per la NASA. «Tu fai domande troppo
concrete», mi dice. «Io sono qui per fare le domande», gli dico. «Eh, e
io faccio le risposte», conclude. Poi esce e quando dopo qualche minuto
rientra dice «Stavo ragionando ora con la telecamera che c’era in
piazza». In piazza una ragazza di 29 anni mi spiega che questa è la
lingua dei nonni e che lei non la sa parlare bene. Un suo amico di 31
anni mi dice che è la lingua delle bestemmie, la usa ogni giorno al
lavoro. Qualcun altro dice che è la lingua segreta con la quale ci si
parla di nascosto quando ci sono i forestieri, come me. Trascorro la
notte in una camera della locanda Tri Kartuce pensando a quello che mi
hanno detto altri abitanti. «Dormirai nella casa accanto a quella dove
si trova l’ultimo murale realizzato da Carlo Levi».
[…]
[…]
Documento ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2018/08/25/75580/
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