Gandhi, la verità e l'India. Le differenze con Tagore
Marco Restelli
«Spero di essere
abbastanza umile per arrivare alla verità, qualsiasi sia la fonte da
cui provenga» scriveva Gandhi nel 1928 in una lettera dal suo ashram
di Sabarmati. La ricerca della verità e della nonviolenza, del suo
significato sul piano religioso, morale, sociale e politico, la
ricerca della sua praticabilità nella vita quotidiana fu il vero
filo conduttore della vita del Mahatma, tanto che intitolò
l’autobiografia Storia dei miei esperimenti con la verità.
Poche figure del XX secolo sono altrettanto note e altrettanto
fraintese del Mahatma; in Italia poi parlare di Gandhi senza far
parlare Gandhi è stato uno dei numerosi malvezzi della cultura
nazionale (con pochissime eccezioni, fra cui la vecchia e benemerita
antologia einaudiana Teoria e pratica della nonviolenza a cura
di Giuliano Pontara). Nonostante ciò il nucleo dell’universo
gandhiano - la nonviolenza - permane di incandescente attualità in
tutte le sue implicazioni -come dimostra per esempio la recente
polemica su «Gandhi e gli ebrei» fra Vigevani e Pontara su
“Micromega” e “Linea d’ombra”.
Difficilmente Gandhi può
essere parcellizzato o fruito in pillole (a meno che non gli si
voglia far dire tutto e il contrario di tutto): il pensiero forte
gandhiano, straniero ai più in quest’epoca debolista, richiede un
approccio olistico, rispettoso della sua ricca dialettica interna.
Per questi motivi va accolta come un autentico evento editoriale la
pubblicazione del primo volume della grande antologia gandhiana La
forza della verità. Scritti etici e politici.
Un piccolo editore
torinese, Sonda, in collaborazione con il movimento nonviolento e con
i più attenti gandhisti italiani (oltre al citato Pontara, Gianni
Sofri e Enrico Fasana) si è impegnato nella pubblicazione della più
prestigiosa edizione europea di scritti gandhiani, quella curata per
la Oxford University Press da Raghavan Iver (che risulta curatore
anche dell'edizione italiana). I Collected Works del Mahatma
Gandhi sono stati pubblicati in India in novanta volumi, l’antologia
italiana sarà costituita da tre corposi tomi rappresentativi della
sua produzione più significativa sul piano religioso e politico. Il
primo porta come sottotitolo Civiltà, politica e religione; i
prossimi due saranno intitolati Verità e nonviolenza e
Resistenza nonviolenta e trasformazione sociale.
Sulla nonviolenza
nessun trattato
Va notato che Gandhi
scrisse in realtà pochissimi libri; l’antologia raccoglie quindi
soprattutto i luoghi più consueti di espressione del pensiero
gandhiano, cioè i numerosi articoli sulle riviste da lui stesso
fondate e dirette, e l’enorme epistolario, che tenne con
corrispondenti di tutto il mondo. «Scrivere un trattato sulla
scienza dell’ahimsa (la nonviolenza, ndr.) va oltre le mie
facoltà. Non sono fatto per scritti accademici. Il mio campo è
l’azione» scrive Gandhi con la consueta umiltà nel 1946.
Impegnato a fondere costantemente pensiero e azione, raramente Gandhi
trovò il tempo per scrivere sistematizzazioni di ampio respiro: una
di quelle rare occasioni fu il lungo viaggio in nave compiuto
dall’Inghilterra all’India nel 1909, durante il quale scrisse
Hind Swaraj (L’autogoverno dell’India); l’opera, inclusa
nel volume antologico, costituisce un «manifesto d’accusa» contro
la civiltà occidentale e una delle più evidenti manifestazioni
della convinzione gandhiana riguardo alla superiorità dei valori
espressi dalla civiltà indiana.
È in base a questa
convinzione che Gandhi, a differenza degli altri leader
nazionalistici, si batte contro gli inglesi per fare dell’India non
solo un paese libero ma soprattutto un paese diverso
dall’Inghilterra: «l’Hindustan non deve diventare un Englistan».
Gandhi, che da giovane era stato avvocato, si scaglia in Hind
Swaraj contro gli avvocati, i medici, i notabili indiani
anglicizzati. Il lungo soggiorno londinese della sua gioventù gli è
servito per capire tutto ciò che non vuole.
Oltre a Hind Swaraj
l’antologia presenta cinque gruppi di scritti raccolti
tematicamente, a cominciare dalle opinioni di Gandhi su se stesso e
la propria missione. Vi è poi una sezione dedicata alle influenze
culturali esercitate su Gandhi dai libri letti (soprattutto in
carcere; Sandhi utilizzava infatti le frequenti incarcerazioni «negli
alberghi di Sua Maestà» come occasioni per dedicarsi alla lettura),
e costituisce certo un motivo di interesse per il lettore notare la
varietà degli apporti che concorrono alla formazione del pensiero
gandhiano: dalla Bhagavad Gita al nazionalismo mazziniano (Mazzini e
Garibaldi furono assai studiati dai nazionalisti indiani), da Tolstoj
(con cui Gandhi tenne una fitta corrispondenza) a Ruskin, a Thoreau,
di cui Gandhi ripeteva sempre la massima «il governo migliore è
quello che governa meno». Una terza sezione è dedicata agli scritti
sulla civiltà occidentale e quella indiana: la quarta e la quinta
sono dedicate invece alle considerazioni sulla religione e sulla
natura di Dio.
Religione, moralità,
impegno sociale e politico sono assolutamente inscindibili in Gandhi,
poiché in ciascuno di essi si rivela uno dei volti della verità,
che è nonviolenza, il dharma, o legge morale, che si esprime
nello spirito di tutte le religioni. «Le religioni sono strade
diverse che convergono nello stesso punto» scrive in Hind Swaraj.
Da qui il suo costante sforzo di far superare agli indiani le loro
divisioni (come l’ostilità fra hindu e musulmani]; unirete la
perenne preoccupazione del Mahatma.
Anche nei confronti degli avversari politici il Gandhi
unitario è contemporaneamente ferreo ed elastico: non considera suoi
nemici gli inglesi bensì il loro modello di civiltà, perciò si
dichiara disposto (al contrario degli altri nazionalisti) ad
accettare perfino che gli inglesi rimangano in India... purché siano
disposti a vivere secondo i valori morali della tradizione indiana.
Il ruolo centrale della religione (ma dovremmo dire: religiosità)
nel pensiero di Gandhi non significa che egli sia disposto ad
accettare le forme di oppressione di derivazione religiosa; lo
testimonia la lotta che per tutta la vita lui, profondamente hindu,
condusse contro tradizioni hindu come il matrimonio infantile o la
prostituzione nei templi, e a favore della promozione sociale degli
harijan, gli intoccabili, destinati dal sistema castale hindu
a vita miserrima. La sua opera come la sua vita si possono osservare
correttamente solo con un punto di vista olistico, lo stesso che lo
animò nell’approccio a qualsiasi tematica, problema culturale o
battaglia politica. Valga come esempio quanto scriveva nel 1926: «Per
quanto mi riguarda la parola politica è inclusiva. Non separo le
diverse attività - politica, sociale, religiosa, economica - in
scompartimenti a tenuta stagna. Li considero tutti come un insieme
indivisibile, ognuno confluisce negli altri e li influenza».
In base allo stesso
approccio, Gandhi nega con risolutezza che il fine giustifichi i
mezzi: non vi può essere separazione fra l’uomo, la sua morale, la
sua condotta privata, le sue battaglie politiche. Il nostro traguardo
è in noi: «Se noi cerchiamo la giustizia, dovremo essere giusti con
gli altri» scrive ancora in Hind Swaraj.
Per una felice
combinazione, l’approccio gandhiano è confrontahile ora con quello
di un suo grande interlocutore, Tagore, di cui Bollati Boringhieri
ristampa una serie di saggi politici in un’antologia (da anni
introvabile) curata dall’Ismeo e intitolata La civiltà
occidentale e l’India. Si tratta di articoli e testi di
conferenze in cui il grande poeta bengalese (premio Nobel per la
letteratura nel 1913) esprime la propria visione universalistica
dell’uomo e si pronuncia a favore di una crescita prima morale e
poi politica dell’India, spesso scendendo in polemica con Gandhi
che com’è noto si rifiutava di separare le due cose. I due si
conoscevano personalmente e si stimavano assai (fu Tagore a chiamare
Gandhi Mahatma, cioè «grande anima»), ma molto li divideva sul
piano politico. Così, la lettura in parallelo dei libri dei due
maestri morali del risorgimento indiano può risultare utile anche
per fare reciproca luce.
Letture parallele
Entrambi pensano che
l’India sia caduta in mano agli occidentali perché ha abbandonato
la propria cultura e le proprie tradizioni, entrambi considerano
indispensabile il risveglio morale del proprio popolo, ma già qui i
due si dividono: Gandhi vede nell’azione politica lo strumento di
questo risveglio, Tagore no (il che non gli impedirà di compiere
talvolta gesti politici, ma di valore solo simbolico). Gandhi
considera la civiltà occidentale intrinsecamente basata sulla
violenza e la condanna senza appello, Tagore pensa invece che gli
indiani possano imparare molto dal liberalismo europeo (ma si
ricrederà, deluso, quando l’Europa cadrà in mano al
nazifascismo).
Gandhi lancia campagne di
boicottaggio delle stoffe occidentali, invita gli indiani a bruciare
nelle piazze gli abiti inglesi e a filare da sé le proprie stoffe
con l'arcolaio. Tagore considera foriera di violenza questo tipo di
politica, teme che Gandhi venga strumentalizzato da chi non capisce
la sua legge dell amore e della nonviolenza, e inoltre non comprende
la visione mistica di Gandhi secondo cui il lavoro di filatura
all’arcolaio è anche un esercizio di meditazione spirituale.
Leggendo gli articoli
contenuti nelle due antologie, il duello a distanza fra Gandhi e
Tagore appare affascinante: in esso si rispecchiano non solo un’epoca
e una civiltà ma due concezioni diverse del rapporto fra teoria e
prassi, fra pensiero e azione. Resta la straordinaria attualità
della pratica nonviolenta gandhiana, della sua lezione sul legame fra
fini e mezzi, e la necessità di una riflessione sul satyagraha, la
«forza della verità» che è alla base dei metodi di lotta
non-violenta.
Resta l’attualità di
un’utopia che Gandhi esprimeva così nel 1940: «La strada della
violenza è antica e stabilita. Non è così difficile operare delle
ricerche su di essa. La strada della nonviolenza è nuova. La scienza
della nonviolenza sta ancora prendendo forma. Non siamo ancora
consapevoli di tutti i suoi aspetti. C’è un vasto campo di ricerca
e di sperimentazione in questo settore. Voi potete applicare tutto il
vostro talento in ciò. Per me la nonviolenza è un qualcosa da
evitare se è una virtù privata. Il mio concetto di nonviolenza è
universale. Appartiene alle masse e io sono qui per servirle. Tutto
ciò che non può arrivare alle masse non fa per me [...] Noi siamo
nati per provare che la verità e la nonviolenza non sono solo regole
di condotta personale. Esse possono diventare la politica di un
gruppo, di una comunità, di una nazione. Non abbiamo ancora provato
questo, ma solo questo può essere lo scopo della nostra vita».
“La talpa libri – il
manifesto”, 29 novembre 1991
Nessun commento:
Posta un commento