22 agosto 2018

W. BENJAMIN E ASJA LACIS






    Il filosofo Walter Benjamin e la regista d’avanguardia Asja Lacis si incontrarono nel 1924 sull'isola: la seduzione cominciò con una manciata di mandorle.

Claudio Vercelli

La trama e l’ordito, un’estate a Capri

Era un tempo inedito, quello che il filosofo Walter Benjamin e la regista Asja Lacis condivisero. Il tempo dell’avvento rivoluzionario e della sperimentazione, che rompe i registri del passato e porta verso un qualche orizzonte a venire, ancora indefinito. Ma all’estroflessione dell’impegno intellettuale, inteso come una dimensione che coincide integralmente con la propria esistenza, corrisponde, molto spesso, la difficoltà di fare i conti con lo stato delle proprie emozioni.

C’è come una dissonanza creativa, una cesura tra esterno e interno, come tale destinata a rimanere per sempre non colmata. L’intimismo, infatti, è tanto silenziosamente coltivato nel proprio ego quanto censurato sul piano delle relazioni interpersonali. Generando una sorta di bipolarità tra il ricercare come potere essere e il dovere essere a tutti i costi. L’impegno militante non avrebbe sciolto questa contraddizione dell’animo, semmai amplificandola in nuove morali.

Asja Lacis era nata in Lettonia nel 1891. Aveva vissuto nella sua prima maturità il lungo processo rivoluzionario che aveva investo la Russia, aderendovi ed impegnandosi soprattutto attraverso il teatro d’avanguardia, di cui è stata un’esponente durante tutta la sua esistenza, fino alla morte avvenuta nel 1979. Walter Benjamin è invece così universalmente noto, come pensatore e studioso, da non potere essere racchiuso nella descrizione offerta da poche parole.
L’incontro e il sodalizio tra i due si avvia nell’estate del 1924, a Capri. Sembra la scenografia di un film vacanziero. Anche di un soggiorno di riposo in qualche modo si tratta, in accordo con le abitudini che si erano andate consolidando tra una parte dell’intellettualità impegnata. Il trittico Russia, Germania e Italia era, d’altro canto, qualcosa di più di una dimensione geografica, indicando uno spazio dello spirito, quello del mutamento perenne.

Lacis era giunta sull’isola con il compagno, il drammaturgo Bernhard Reich e la figlia Daga, per curare di quest’ultima i postumi di una brutta polmonite. Benjamin aveva invece lasciato la Germania alla ricerca di un po’ di serenità e, come da sua abitudine, d’ispirazioni. Il matrimonio traballante con Dora Keller e le difficoltà economiche famigliari lo opprimevano. Inoltre, stava lavorando a quella complessa architettura del sapere che sarà la tesi dottorale su il «dramma barocco tedesco», con la quale confidava di ottenere la libera docenza universitaria. Gli varrà, a conti fatti, la fama di autore criptico, enciclopedico e abrasivo. Ma questo è già parte di un altro discorso.

Il filosofo a Capri cerca occasioni di «lavoro notturno». La regista, collaboratrice di Brecht e fondatrice del teatro per ragazzi emarginati, spasima giornate di sole. Lui è impacciato, lei è determinata. Walter l’ha notata da un po’ di tempo. Dirà poi che scatena in lui un impulso di «emancipazione vitale». Deve trovare l’occasione per avvicinarla.

L’incontro avviene al mercato, quando l’aiuta ad acquistare delle mandorle. Con un contegno vittoriano si presenta ad Asja, chiedendole di poterle fare compagnia. Lei a distanza di anni avrebbe ricordato che i suoi occhiali «mandavano bagliori come due piccoli proiettori, folti capelli scuri, naso sottile, mani maldestre – il pacchetto gli cadde di mano. Mi accompagnò a casa, si congedò e chiese di venirmi a trovare». Ne segue da subito una frequentazione dove lo scambio seduttivo è tutto giocato sul registro della reciproca fascinazione intellettuale. Ai due estremi ci sono i poli della ricerca continua e del senso dell’inadeguatezza.

Glo spazi in cui si consuma questa passione, tanto condivisa quanto trattenuta, sono strategici. Benjamin, all’epoca trentenne, aveva già del tutto consolidato la sua indole di flâneur che, attraversando le strade e i luoghi della sua epoca, cerca negli acciottolati e nei muri la trama e l’ordito del tempo perduto e di quello a venire. A Capri era arrivato già a maggio, per poi condurre un’esistenza in sintonia con la sua indole, piena di suggestioni non meno che disordinata: «spesso a mezzogiorno non mangiava nulla o al massimo una tavoletta di cioccolata. Un giorno arrivò tutto allegro dicendo: ’Finalmente ho trovato un alloggio stupendo, venga a vederlo’. Con mia meraviglia l’alloggio somigliava a una caverna in una giungla di grappoli d’uva e di rose selvatiche».

Lacis è avvinta ma non del tutto posseduta dal filosofo. Al pari di altre donne che lo conobbero, è mite attratta dalla sua veracità intellettuale ma gli contesta le passioni che giudica anacronistiche e l’apparente assenza di pragmatismo. Nell’uno e nell’altro caso cerca di portarlo sul piano dell’estetica materialista, pensando che un «bagno di realtà» possa essergli più che utile. Anche per mettere un po’ di ordine nella sua vita ondivaga.
Benjamin ne è attratto, ma mai le cederà completamente. Non almeno su questo piano inclinato. E lei, che a distanza di tempo riconobbe come il suo interlocutore «avesse sagacemente intuito i problemi formali moderni», sarà però anche giudice impietosa quando, sempre sul dramma barocco, affermerà che «a Capri mi raccontava che il suo studio aveva grande importanza per la sua carriera. Oggi, rileggendo il libro, mi accorgo di quanto Walter fosse ingenuo. Benché lo scritto appaia assai accademico, infiorato di citazioni erudite anche in francese e latino, e prenda in esame un materiale enorme, è tuttavia del tutto evidente che è stato scritto non da un erudito, bensì da un poeta innamorato della lingua che si serve di iperboli per comporre uno splendido aforisma».

Mai definizione di un’opera meglio si è attagliata al carattere del suo autore. La lenta e solare frequentazione caprese si nutre di gite fuoriporta. Il filosofo dà fondo al suo talento idealistico, costruendo per una donna che sente tanto vicina in quanto a modo suo irraggiungibile, un altare lirico. Allo scettico amico Gershom Sholem, che lo vorrebbe a Gerusalemme, confida quindi il trasporto che sta vivendo come una «metamorfosi nel simile» poiché «un amore realmente vissuto mi rende simile alla donna amata».

La regista, invece, gli rimprovera che «la strada di un individuo progressista che ragioni normalmente conduce a Mosca, non alla Palestina». In queste baruffe chiozzotte, che dietro le cortesie raccontano placidamente delle asperità del tempo, Asja e Walter trovano un terreno d’elezione nello sguardo. In quelle circostanze, passando per Napoli, condividono la metafora della città porosa, scrivendone insieme per la Frankfurter Zeitung: «struttura e azione trapassano l’una nell’altra in cortili, arcate, scale», dilatando gli spazi, le funzioni e le identità, quindi sovrapponendole, divaricandole e riannodandole. «Gli edifici sono utilizzati come palcoscenici popolari».
L’esperienza dell’urbanità meridionale sembra un calco delle delusioni rivoluzionarie che stanno incubando: «in simili siti si distingue a stento dove si continua ancora a costruire e dove è già sopravvenuta la rovina, perché nulla viene completato e portato a termine». Quasi un involontario epitaffio per i tempi a venire. Alla breve estate caprese seguirono altri momenti, con nuovi incontri. Benjamin nel 1928 le renderà un pieno tributo con il suo Programma per un teatro proletario dei bambini, una riflessione che si confronta con il teatro pedagogico, di cui Brecht è stato per molti aspetti il sommo pontefice, ma anche con la teoria dell’arte di impianto marxista. Nel mentre, tuttavia, a Berlino prima e a Riga poi continuava la riflessione comune sulle forme della modernità traslate nella dimensione metropolitana.

«Amavamo appassionatamente la città», ricorda Lacis, poiché la topografia, i colori, gli odori, gli umori urbani diventano esperienza vissuta, Lebenswerk, allegoria del trasporto per la vita. Lo sguardo dei due è infatti per nulla oleografico, soffermandosi semmai sull’antropologia dei luoghi come risonanza fantasmagorica della propria identità interiore. La rivoluzione è dentro di essi e rischia di essere sconfitta. Lo sanno in cuore e in mente loro, registrando il declino della democrazia liberale. E lui che dice: «Lei poteva uscire dal portone, girare l’angolo e stare sul tram: ma dei due dovevo essere io, a ogni costo, il primo a vedere l’altro. Perché se lei m’avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni».

Asja avrebbe saputo del suicidio di Walter solo diversi anni dopo. Poiché, come ebbe a scriverne Brecht: «era la tattica dell’esaurimento quella che ti piaceva, quando sedevi davanti alla scacchiera, all’ombra del pero. Il nemico che ti cacciò dai tuoi libri, non si lascia sfiancare da gente come noi».

il manifesto – 12 agosto 2018

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