30 gennaio 2021

QUANDO I COMUNISTI MANGIAVANO I BAMBINI

 


UNA STORIA REALMENTE ACCADUTA CHE NON TROVERETE IN ALCUN LIBRO


«Disgraziatamente per noi la storia si è sempre scritta dai dotti pei dotti, e si è sempre occupata di grandi imprese più o meno vere, senza dir mai nulla di quel che faceva, di quel che pensava, di quel che credeva la grande massa del popolo.» Queste parole non sono state scritte da un rivoluzionario, ma da un medico palermitano della seconda metà dell’800 piuttosto conservatore. Questo medico si chiamava  Giuseppe Pitrè . Il rapporto quotidiano che aveva con la povera gente della sua città lo spinse , fin da giovane, a raccogliere una mole enorme di documentazione sulla vita di quello che allora si chiamava “popolino”: canti, fiabe, proverbi, usi e costumi, ecc. ecc. – Diede vita così, oltre ai numerosi volumi che costituiscono quella che lui stesso denominò “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane”, al Museo che oggi a Palermo porta il suo nome.
          Le parole del Pitrè diventano ancora più vere se si affiancano a quelle scritte, decenni prima, da un autentico rivoluzionario:«Le idee dominanti, in ogni epoca , non sono altro che le idee delle classi dominanti.» (K.Marx)
        Le parole non è vero che non contano. Le parole, specialmente quando rivelano la verità dei fatti, sono importanti. Per questa ragione tanti anni fa, avevo cominciato a raccogliere le testimonianze  dei vecchi contadini marinesi, ultimi testimoni di un mondo che oggi non esiste più, e di cui trovavo poche tracce persino nei libri di storia studiati all’Università. Ma per la verità, ad aprirmi per primo gli occhi sulle menzogne che si trovano nei libri, non sono stati nè Marx né Pitrè, ma bensì il mio nonno materno, Francesco Arnone, con cui condividevo la casa del Corso dei Mille in cui sono nato e cresciuto. Ricordo ancora che un giorno, trovandomi a leggere nella sua stanza la storia della prima guerra mondiale, mi invitò a leggere ad alta voce quello che c'era scritto nel mio sussidiario di quinta elementare del 1960. Dopo qualche riga in cui, in modo retorico, si raccontava allora la cosiddetta "IV Guerra d'Indipendenza", mio nonno mi fermò dicendomi: nel tuo libro si trovano solo menzogne, in nessun fronte di guerra si è mai visto un Enrico Toti! Adesso te la racconto io la vera storia del macello che è stata la guerra del 15/18 perchè io l'ho fatta quella guerra e ho visto coi miei occhi quello che ti racconto..
      Da allora non mi sono più fidato ciecamente dei libri. Anche per questo ne ho letti ed accumulati tanti: di ogni fatto, di ogni autore, infatti, ho cercato sempre di sapere il più possibile , ascoltando tutte le voci e tutte le campane. Non fermandomi mai nella ricerca della verità.
       Oltre ai libri, poi, mi è sempre piaciuto ascoltare le testimonianze di vita delle persone anziane. Per tutte queste ragioni una decina di anni fa ho cominciato a raccogliere, insieme ad un amico, alcune di queste testimonianze.
       Oggi mi è tornata in mente una storia che di seguito riprendo, dopo aver verificato che si tratta di una storia realmente accaduta. Protagonisti l'Arciprete Raineri, il compagno Ciro Bivona e la madre di un bambino che si voleva battezzare
       Naturalmente è talmente complessa la vita e la storia di ogni uomo che sarebbe stupido pensare di inchiodarla ad un atto sia pur significativo o a un dato di fatto. Peraltro i giovani d'oggi per comprendere bene l'operato di un Parroco nell'ultimo dopoguerra devono tenere presente il contesto storico in cui la Chiesa del tempo si trovò ad operare. Ora, anche se sono trascorsi poco più di mezzo secolo da quanto accaduto, la realtà odierna non ha nulla a che vedere con quella di 50 anni fa. Anche per questo non è affatto semplice comprendere le trasformazioni profonde avvenute. Allora il mondo era diviso in due blocchi, dominati rispettivamente dagli USA e dall'URSS. L'Italia apparteneva al mondo dominato dagli USA ma in Italia operava anche il più grande e forte partito comunista dell'Occidente. La propaganda degli uni e degli altri rappresentava la realtà in modo deformato:  ciò che per gli uni era inferno, per gli altri era paradiso. Era il tempo delle scomuniche e delle invettive reciproche. La Chiesa siciliana era dominata dalla figura del Cardinale Ruffini, di cui ci ha lasciato un ritratto indimenticabile Leonardo Sciascia. Il Cardinale Ruffini, a cui l’arciprete marinese era molto legato, in Sicilia allora contava più del Presidente della Regione. E così come era il Cardinale a Palermo a fare la lista del partito democristiano, a Marineo era Mons. Raineri a fare la lista dello scudo crociato per il Consiglio Comunale. (fv) 

 QUANDO I COMUNISTI NON POTEVANO BATTEZZARE I BAMBINI

      La storia si svolge nel periodo in cui (1945-1955) i braccianti e i contadini poveri in Italia, e soprattutto in Sicilia e nel Meridione, occupano i feudi e le terre incolte, portando in corteo insieme la bandiera rossa e un immagine del Santo Patrono del paese. La Chiesa Cattolica di quegli anni considerava i “socialcomunisti” (uniti allora nel FRONTE POPOLARE  che verrà sconfitto nel 1948) molto più pericolosi dei mafiosi. Anche per questo vennero “scomunicati” dal Papa del tempo (PIO XII) e dal Cardinale Ruffini che regnava in Sicilia e che contava più del Presidente della Regione.
      Ho raccolto un giorno la testimonianza di uno di questi contadini, Ciro Bivona, che a Marineo tutti conoscevano e rispettavano, soprannominato, per il suo impegno politico, CIRU BATTAGGHIA . Ciro era stato invitato a fare da padrino ad un neonato da battezzare. I genitori del bambino vennero convocati nella sacrestia della Chiesa dall’Arciprete Raineri il giorno prima del battesimo con l’invito pressante a cercare un altro padrino perché, disse loro, non poteva permettere ad un comunista “scomunicato” come Ciro Bivona di battezzare il loro figliolo. A questo punto la madre del bambino  reagì con molta energia all'invito del Parroco e, con parole colorite, rispose così: “ Si Vossia dumani nun fa battiari me figghiu a Ciru Bivona, io stessa davanti la Chiesa ci scippu li cugghiuna!”
     Soltanto grazie a queste parole Ciru Battagghia, il comunista scomunicato, riuscì a battezzare quel bambino.
     A futura memoria, se la memora ha un futuro. (fv)
  

PSPubblico di seguito la testimonianza inviatami da un caro amico di Delia (CL), il paese del grande critico letterario Luigi Russo e del poeta Stefano Vilardo, che serve a mostrare come quanto accaduto a Marineo  non costituisca un fatto isolato:

Caro Francesco, ricordavo che nel libro di Stefano Vilardo,  Una sorte di violenza ci fosse un episodio che avesse a che fare con l'argomento, ma si parla di scontri senza andare nello specifico. Queste notizie riferite a episodi realmente accaduti nelle chiese e nelle processioni le ho apprese da fonti testimoniali da anziani e compagni in sezione la sera quando discutevamo degli anni passati. Era il 1967 e molti testimoni di allora erano in piena attività, all'incirca con età dai 50 anni ai 60 circa. In effetti i compagni comunisti e molti dirigenti e donne e minatori contadini e braccianti erano stufi di una chiesa asservita alla dc di allora che difendeva gli agrari e in combutta con elementi mafiosi ( ma non era tutta la dc, vi erano anche coltivatori onesti e lavoratori di orientamento cattolico etc). Si recarono in chiesa in massa per contestare le prediche propaganda a favore della dc. Quando il prete o arciprete che fosse si mise a inveire contro i comunisti lanciando scomuniche e minacciando di non battezzare i figli di coloro che si professavano e avevano la tessera del pci, molti dei presenti chiaramente organizzati, si misero a protestare che la chiesa non dovesse intervenire nella politica, ma dovesse badare alle anime e alle messe. Si scatenò una gazzarra grida urla e spintoni fino a che uscirono fuori e si interruppe la funzione religiosa. Un altro fatto accadde durante la processione del Corpus Domini. Anche qui erano presenti in prima fila dirigenti dc e tutto l'apparato dando alla processione un tono di propaganda con preghiere innalzate contro il comunismo etc. Allora molti compagni e donne e dirigenti de pci presenti alla processione si sono inseriti con le bandiere rosse, ma i carabinieri presenti li hanno fatti allontanare senza denunziare nessuno. Invece per i fatti accaduti in chiesa l'Arciprete denunziò ai carabinieri tutti i dirigenti comunisti presenti in chiesa con testimonianze, guarda caso, tutte di dirigenti dc. Ps- ho copia della denunzia dell'arciprete di allora con i nomi e cognomi delle persone accusate.
Ciao , Angelo Pitruzzella.

"AI" L' AMORE!

 


Chi prova amore porta con sé la pena di una mancanza permanente. L'amore ci ricorda qualcosa che fu perfetto e non è più.
Dico di una mancanza anche in presenza, di una perfezione sempre insufficiente. Si tratta forse della memoria (o della fantasia) di un amore primario. Memoria biologica di specie, perché la prova anche chi non ha mai avuto riposo nell'amore incondizionato (come pare sia quello di una madre), che tutto accoglie e da tutto protegge.
*
Ma anche: quando siamo innamorati, eccediamo la misura di noi stessi, superiamo la nostra dimensione e proviamo l'inquietudine degli esuli, non ci abitiamo più, siamo sovrasensibili, elettrici, sensitivi.
L'ideogramma giapponese di amore, che significa <<un cuore colmo di pena>>, riassume figurativamente tutto questo: vi compaiono un uomo piegato all'indietro per un ingombro allo stomaco, poi un piede che si trascina e il concetto di cuore, il rimandare al cuore questa fatica, il sovrabbondare di stomaco e piede. Il traboccare del cuore di un amante è rappresentato dall'aver troppo mangiato e dall'avere troppo camminato.
L'amore rappresenta dunque un'anomalia della psiche, che versa in uno stato più elevato e vasto, rispetto al proprio stato abituale. L'anima prova pena per il suo essere uscita fuori dall'ordinario. Il sentimento amoroso è, alla lettera, un portatore di disordine, è quanto scardina alle fondamenta l'ordine stesso della cultura e della società.
L'ideogramma giapponese di amore esprime il concetto dell'anima umana come contenitore insufficiente per il sentimento amoroso. L'ideogramma giapponese di amore, come quello cinese, si pronuncia <<ài>>.
[ Maria Grazia Calandrone ]

UNA FOGLIA DI FICO SULLA CRISI

 



Ottimo il titolo del "Giornale di Sicilia": UNA FOGLIA DI FICO SULLA CRISI. (fv)

29 gennaio 2021

LA MICROSTORIA DI CARLO GINZBURG

 

SCOPRIRE LE VOCI NEL SILENZIO: “I BENANDANTI” DI CARLO GINZBURG

C’è stato un momento, nel lungo percorso degli studi storici, in cui gli studiosi hanno cominciato a interessarsi non solo a grandi sovrani o complesse e lunghe storie dei popoli, ma anche a ciò che aveva un carattere più piccolo, le storie sommerse di piccole comunità, di ristrette aree geografiche o di personaggi certamente minori ma in grado di contribuire a una lettura più ampia e interessante dei grandi processi. Questo significava anche forzare i confini della disciplina, contaminando la ricerca storica con altri campi del sapere, come la sociologia, la geografia o lo statistica.

I primi storici a pensare a questo cambio di prospettiva sono stati Marc Bloch e Lucien Febvre, che nel 1929 fondarono una rivista, Annales, che è poi diventata il centro nevralgico di questo nuovo modo di fare storia. Ma anche in Italia nei decenni successivi si sentì l’esigenza di un cambio di passo e così negli anni Settanta questo nuovo indirizzo storiografico trovò una sua conformazione e un nome ben preciso, microstoria. Come suggerisce il prefisso gli storici di questo gruppo si sono impegnati nella ricostruzione di comunità minori o di personaggi eccezionali, ma hanno anche impostato una nuova misura allo sguardo dello storico, attento adesso a «spie, indizi» zone apparentemente accessorie ma in grado di dare una nuova forma al reale.

Tra i maggiori studiosi, e non solo nel campo della microstoria, si trova Carlo Ginzburg che con le sue opere ha dato splendida testimonianza di questo modo diverso di intendere la ricerca storica. Su questo punto in particolare, che permea comunque ogni opera di Ginzburg e di cui sono racconti luminosi le postfazioni ai volumi ripubblicati da Adelphi, si segnala la ristampa a opera di Quodlibet del prezioso libro scritto a quattro mani con lo storico Carlo Prosperi Giochi di pazienza: si tratta del resoconto di un seminario incentrato sul testo religioso cinquecentesco Beneficio di Cristo, ma l’attività seminariale è anche, come emerge da questo libro, un lento disvelamento della fatica della ricerca e il racconto dei suoi tortuosi percorsi. Per ciò che riguarda i soggetti nuovi della ricerca storica scelti da Ginzburg si può pensare per esempio alla storia del mugnaio Domenico Scandella, processato e condannato dall’Inquisizione alla fine del Cinquecento raccontata in Il formaggio e i vermi, o a Storia notturna. Una decifrazione del sabba dedicato invece all’incrocio tra l’ossessione di un complotto contro la società e le credenze popolari a sfondo sciamanico.

La casa editrice Adelphi, che sta ripubblicando parte della sua opera con nuove e illuminanti annotazioni dell’autore, ha appena ristampato uno dei testi più importanti di Ginzburg, I benandanti. Ricerche sulla stregoneria e sui culti agrari tra Cinquecento e Seicento. I benandanti che figurano nel titolo sono coloro che nascevano ancora avvolti nel sacco amniotico, i nati con la camicia, bambini baciati dalla fortuna sin dal momento in cui entravano nel mondo, ma sono anche persone afferenti a un culto pagano: i benandanti si caricavano del compito di difendere i raccolti e impedire che streghe e stregoni lo contaminassero o lo distruggessero, «sono prigionieri del mito che li costringe andare in sogno nei giorni delle quattro tempora a combattere con gli stregoni». Un culto che si rintraccia nel Friuli tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo e che Carlo Ginzburg ha conosciuto e studiato partendo dalle fonti dell’epoca e cioè dai documenti sepolti negli Archivi italiani, soprattutto nei registri giudiziari dell’Inquisizione, in quei secoli estremamente interessata a distruggere ogni deviazione dalla dottrina. Già la questione delle fonti apre però un’interrogazione complessa e ineludibile, perché responsabili di questi documenti sono i gruppi che stanno dalla parte del potere e quindi li si può pensare influenzati proprio da questo squilibrio: qual è il loro grado di veridicità? Quanto le conversazioni che vi sono riportate sono influenzate dal modo di pensare dei giudici e dal loro desiderio di zittire le voci discordi degli oppressi? Un modo per provare a rispondere a queste domande è proprio metodologico, e consiste cioè nel provare a conoscere la voce degli oppressi per secoli rimasta nel silenzio più assoluto. Ecco allora che questa ricerca documentaria accurata si rivela anche mezzo per dare voce, e giustizia, a chi non l’ha avuta quando era in vita.

In questo libro si trovano alcuni degli assi più importanti della ricerca di Ginzburg, come il rapporto tra il potere e la società o la necessità che ciclicamente è stata avvertita da chi esercitava il potere di crearsi dei nemici, dei capri espiatori su cui indirizzare la repressione. Protagonista del libro è lo scontro tra questi mondi, tra l’Inquisizione e i benandanti, tra uomini di chiesa come fra Felice da Montefalco o Vincenzino da Brescia e il bovaro di Latisana, Menichino della Nota o la «razza di stregone» Giovanni Sion. Nomi sconosciuti, sommersi dal corso della storia, voci di oppressi che per secoli sono rimaste affondate nel silenzio, ma che con il lavoro di Ginzburg hanno ritrovato lo spazio che la violenza nei loro confronti aveva provato a cancellare.

NON E' STATO HITLER A DEPORTARMI

 





"Spaventa il pensiero di cosa potrà accadere tra una ventina d'anni, quando tutti i testimoni saranno spariti. Allora i falsari avranno via libera: potranno affermare o negare qualsiasi cosa. Se gli verrà opportuno, dimostreranno che la seconda guerra mondiale non c'è mai stata: le linee Sigfrido e Maginot non sono mai esistite, i loro ruderi sono stati fabbricati qualche anno fa da imprese specializzate, su piani di scenografi compiacenti: lo stesso per i cimiteri di guerra. Tutte le fotografie d'epoca sono fotomontaggi. Tutte le statistiche sulle vittime sono contraffatte, opere di propaganda interessata: in guerra non è morto nessuno, perché la guerra non c'è mai stata. Tutti i diari e memorie sono bugiardi, o opera di squilibrati o frutto di corruzione e violenza. Le vedove e gli orfani sono comparse stipendiate."
Primo Levi, Il difficile cammino della verità
(giugno 1982)


Che ipocrita Europa, che atrocità i lager, che non accada mai più, ma le persone, i bambini, possono continuare a morire di freddo al confine o in mare. Io non ho bisogno di ricordare come l'indifferenza uccide l'umanità e la uccide adesso!

28 gennaio 2021

O. SANICOLA CRONISTA

 


Onofrio Sanicola, quando voleva, sapeva anche essere un grande cronista. Basti rileggere le bellissime interviste che ha fatto a due nostri amici: Amelia Crisantino e Santo Lombino. Queste interviste, pubblicate anni fa su due numeri del suo Guglielmo in edizione cartacea, meriterebbero di essere ristampate perchè rimangono un modello di grande giornalismo. D'altra parte non va dimenticato che Onofrio, negli anni sessanta del 900, aveva iniziato il suo apprendistato di giornalista su L'Ora di Palermo.  
Oggi, per mostrare a tutti i marinesi, come Sanicola, oltre ad essere un polemista nato, sapeva essere, se voleva, anche imparziale ed obiettivo, riprendiamo il suo resoconto dell'ottavo Simposio dei poeti marinesi  pubblicato nel suo blog nel dicembre del 2017. (fv)



UN SIMPOSIO ALL’INSEGNA DELL’INTEGRAZIONE

La poesia non ha colore a Marineo


Il simposio dei poeti marinesi ha compiuto 8 anni ed entra a vele spiegate nella fase della maturità. L’iniziativa del comune di Marineo ha costruito, edizione dopo edizione, un suo trend di crescita, radunando per l’edizione di quest’anno ben 36 poeti. Un caso più unico che raro nella nostra provincia. Anche il pubblico ha risposto con entusiasmo all’appuntamento annuale presso il Castello Beccadelli e la soddisfazione si leggeva bene negli occhi della conduttrice Chiara Lo Faso. Ma se dovessimo indicare quella che è stata la novità più rilevante del simposio, non esiteremmo a dire come la presenza dei giovani immigrati della Cooperativa Sociale “Nuovi Orizzonti” è stata il fiore all’occhiello della serata. Segno che manifesta come l’integrazione socio-culturale costituisce il terreno essenziale su cui confrontarsi nel futuro. Quando “Osman” originario del Gambia e rappresentante dei giovani ha recitato la poesia che parlava “del periglioso blu profondo del mare”, e poi finalmente il contatto con “l’approdo verde roccia che risuona di bisbigli gioiosi” veramente è stato un momento toccante per tutti. Anche “Aruna”, pure lui del Gambia ha evidenziato come la gente marinese sia molto accogliente e lo ha potuto notare di persona frequentando a Marineo l’Istituto Tecnico Industriale Don Colletto. 


Barbara Cannova ha puntualizzato come la cultura dell’accoglienza e della solidarietà diventa sempre più un momento essenziale della nostra cittadina. Veramente interessante si è rivelata la lirica “Il sorriso ed il bossolo” dedicata a Padre Pino Puglisi, che padre Giacomo Ribaudo ha letto con un pathos notevole proponendo non solo un messaggio di conversione e di speranza ma facendoci comprendere che la fede, ancora una volta , è martirio. E poi come non citare la lirica “D’ucchiuzzinichi e chini d’amuri” che Carmelo Rinaldi ha voluto dedicare alla madre.
Dagli Stati Uniti non sono mancate le liriche di Franca Peri sulla “vecchiaia” e quella di Antonina Li Castri “Chianceru pi li so libra”, che hanno il pregio, sul filo della memoria, di rinsaldare sempre più il ponte che ci lega a loro.
Ma anche da Milano non sono mancate le liriche del Preside Mario Lo Proto “Ecco qui” e “La sostanza di lu Picu” di Ezio Spataro sul valore della civiltà contadina.

           Quest’anno, nel simposio abbiamo avuto anche la rivelazione di un nuovo poeta marinese, il 75enne Giuseppe Viola, che ha pubblicato il volume “Dolce Marineo” per l’edizione La Zisa di Palermo, e che sarà presentato sabato prossimo alle 18,00 al Castello di Marineo.
Il simposio si è rivelato come la gioia di stare insieme di tanti poeti, accomunati dalla radice della marinesità, e con l’animazione speciale di Chiara Lo Faso, Max Potano, Francesca Di Marco, Fabrizio Lo Proto e Carmelo Morabello.
Abbastanza originale l’intervento della poetessa Rosalba Pantano che, avendo frequentato la prima e seconda elementare a Marineo negli anni 70, è venuta appositamente da Montalbano Elicona (ME), per dedicare una sua lirica a Marineo (coincidenza:una ventina di anni fa il Teatro dei Pupi di Marineo fu ospite nel castello di Federico II a Montalbano Elicona n.d.r.).
La serata si è conclusa con attimi di commozione quando è stata letta la lirica di Salvatore Bivona, “L’amicu di sempri” dedicata al pittore Mimmo Vitale, purtroppo scomparso da alcuni anni, e certamente le lacrime della moglie Anna e della figlia Sofia intervenute alla manifestazione, sono state abbastanza significative.
In questo momento non possiamo non esprimere il nostro sentimento di gratitudine a tutti i poeti che con la loro partecipazione hanno permesso, non solo la realizzazione dell’iniziativa, ma hanno posto in evidenza l’importanza della poesia nella vita di tutti i giorni.

L' ORTO MAGIA SENZA TEMPO

 


Il rapporto con i libri è molto simile a quello con gli uomini. Ci sono libri che attirano e poi, appena aperti e conosciuti un po' meglio, ti respingono. Ci sono libri che invece sono destinati a incontrarti. Ti aspettano, su uno scaffale di libreria o un banchetto di mercatino, sapendo che prima o poi passerai di lì e li incontrerai e sarà amore a prima vista. Sono occasioni fortunate per chi ama i libri perché si fanno scoperte che, come tutti gli amori, ti segnano nel profondo. A me è capitato ancora pochi giorni fa in edicola, dove, seminascosta fra libri illustrati per bambini e riviste dei più vari tipi, ho visto, mentre aspettavo di essere servito, la copertina di un libriccino che sembrava facesse di tutto per farsi notare. E così ho scoperto un libro affascinante, semplice e profondo, pieno di richiami al mondo della mia infanzia, alla scoperta della montagna, a quella Val Varaita, conosciuta per caso durante il servizio militare, che è con la Valle d'Aosta parte del mio cuore. Insomma quel piccolo libro conteneva un mondo. Ed è stato amore a prima vista. Di cosa tratta questo libro? Di una cosa semplice, ma fondamentale per la vita, antropologicamente e culturalmente molto più complessa di quanto si possa immaginare, una sorta di microcosmo e di storia condensata dell'umanità: l'orto di casa ed in particolare l'orto della gente della montagna. Come scrive l'autore: l'antico sogno alpino della famiglia contadina. Un libro da ricercare e da leggere per chi ama i libri, le piante, i fiori e la montagna. Di seguito la presentazione editoriale, l'indice e una scheda dell'autore.

G.A.

Fin da quando l’uomo è diventato agricoltore, la necessità di far crescere piante alimentari, ornamentali ed aromatiche, accanto all’abitazione, non si è ancora spenta. La limitata superficie agraria iniziale si è successivamente allargata e diversificata: le coltivazioni hanno occupato vasti appezzamenti, per poter produrre per il mercato, e la creazione del giardino gli ha consentito di soddisfare il proprio gusto estetico. Col tempo, quindi, l’agricoltura ha cambiato aspetto e dimensione, mentre gli ornamenti vegetali hanno sottolineato, con importanza certamente non minore, gli stili architettonici delle varie epoche. Ma l’elemento primitivo, originario di tutto questo, l’orto, l’antica dispensa famigliare, è rimasto immutato in ogni ambiente, cultura e tradizione. Molto probabilmente, è il più antico segno che l’uomo ha lasciato e che ancora oggi continua a “tracciare” ovunque esista un suo insediamento, rurale o urbano. Quasi un carattere del suo patrimonio genetico, che continua a tenerlo legato alla terra e che gli ricorda le sue primordiali origini.

Questo libro ne analizza gli aspetti riferiti al territorio alpino, dove l’orto ha mantenuto, pressoché inalterate, le sue caratteristiche, fin dalla notte dei tempi. Uno spazio che è anche l’unico tipo di giardino che, in questo ambiente morfologicamente e climaticamente difficile, è possibile realizzare, mescolando piante ornamentali ad ortaggi. La ricerca di testimonianze, sia storiche che attuali, è stata orientata, in particolare, alle valli Po e Varaita, in provincia di Cuneo, non solo in quanto sono le più conosciute dall’autore, attraverso esperienze di vita e di studi, ma anche perché hanno costituito la parte più estesa dell’antico Marchesato di Saluzzo. Un piccolo territorio che, nei suoi circa cinquecento anni di storia, tra il XII ed il XVI secolo, ha visto svolgersi le proprie vicende in un’area essenzialmente montana. In essa si sono amalgamati, anche con gli ambienti transalpini confinanti, diversi aspetti culturali, che sono leggibili soprattutto nelle tradizioni, rimaste vive fino ad alcuni decenni fa, e nei secolari elementi antropici del paesaggio.

INDICE

Introduzione
Il territorio alpino
Tipologia dell’orto
L’orto nella storia documentata
L’uomo e il tempo
La Luna e la vita
La donna
Posizionamento dell’orto
Il terreno e le pratiche colturali
Gli attrezzi
Recinzioni
I ripari
Malattie delle piante
Gli spaventapasseri
Toponomastica
Ortaggi
Nuove piante dalle Americhe
Piante aromatiche e officinali
Fiori
Frutta nell’orto
Alimentazione in montagna
Ricette
Orti in Valle Varaita
Dall’orto al giardino
Orti nel Novecento
Orto didattico

Bibliografia

Aldo Molinengo, agronomo paesaggista, è nato a Saluzzo (CN) nel 1953 e vive a Rifreddo, in Valle Po. Ha conseguito la specializzazione in Parchi e Giardini presso la Facoltà di Agraria dell'Università di Torino, e si occupa di tematiche del paesaggio.

Articolo ripreso dal blog Vento largo



DISEGUAGLIANZE SCANDALOSE

 

Foto tratta dal Fb di Oxfam Italia


Il lavoro di cura non pagato è il motore del capitalismo. Alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos, Oxfam pubblica il rapporto «Time to care». Le vite dei super-ricchi oggi dipendono dallo sfruttamento delle donne ridotte all’invisibilità. La ricchezza di 2.153 miliardari è oggi pari a quella del 60% di tutta la popolazione

La diseguaglianza più clamorosa

Roberto Ciccarelli

28 Gennaio 2021

Quando guarderemo indietro al 2020 ricorderemo il mondo organizzato come una piramide. Alla base c’erano 3,8 miliardi di persone poverissime, il cui reddito non superava l’1% della ricchezza planetaria.

Il vertice era stato occupato da un commando di 2.153 super-miliardari che detenevano la stessa ricchezza detenuta da 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione mondiale. Era il tempo in cui il 46% di persone viveva con meno di 5,50 dollari al giorno, mentre chi continuava a lavorare nei paesi del capitalismo occidentale diventava sempre più povero.

C’è un’immagine della miniera inferno scattata da Sebastião Salgado a Serra Pelada in Amazzonia che può dare un’idea più precisa.

Migliaia di minatori lottano contro il fango per risalire il cratere della miseria in cui sono sprofondati. Una moltitudine di miserabili che cercano di risalire dal fango arrampicando scale di fortuna, mentre la vetta si allontana sempre di più. Ricordiamo questa immagine: è il capitalismo del XXI secolo.

È questo il mondo rappresentato in «Time to care – Aver cura di noi», il nuovo rapporto sulle diseguaglianze sociali ed economiche pubblicato ieri da Oxfam alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos. È il mondo che sfrutta i molti e mette ricchezze eccessive nelle tasche di pochi ricchi.

È il mondo dove il potere economico è detenuto dagli uomini, la cui ricchezza cresce indipendentemente dal fatto che il valore che aggiungono alla società corrisponde alla ricchezza che accumulano.

Questo capitalismo è «sessista e sfruttatore» si legge nel rapporto. Il dominio di classe e quello patriarcale sono fondati sullo sfruttamento del lavoro di cura non retribuito delle donne alle quali il rapporto Oxfam dedica un significativo approfondimento.

Questo lavoro consiste nel prendersi cura dei bambini, dei malati e degli anziani, svolgere la maggior parte del lavoro domestico, lavorare precariamente ed essere tra l’altro soggette alla violenza sociale e a quella in famiglia. Le donne lavorano ogni giorno 12,5 miliardi e mezzo di ore senza retribuzione o riconoscimento, e dedicano innumerevoli ore in più a un lavoro di assistenza professionale sottopagato.

Oxfam ha provato anche a ipotizzare un valore possibile di queste ore: almeno 10,8 trilioni di dollari all’anno, tre volte le dimensioni dell’industria tecnologica mondiale. Sono approssimazioni, utili per dare l’idea dell’eccesso e della sproporzione del potere attuale.

La situazione può essere descritta in termini marxiani, oggi diffusi anche nelle analisi del lavoro di cura: il lavoro di cura è essenziale alla creazione del valore, ma la forza lavoro che lo produce è invisibile. Inoltre le vite e gli stili di vita dei super-ricchi dipendono dalla sua attività. «Questo lavoro non permette di liberare tempo, energie e risorse per poter accedere ad un lavoro retribuito, incide sul tasso di frequenza scolastica delle donne e delle giovani ragazze», sostiene Misha Maslennikov, policy advisor di Oxfam.

Foto tratta dal Fb di Oxfam Italia

Il rapporto si concentra sul continente africano, soprattutto l’Africa subsahariana, ma è chiaro che si sta parlando di un rapporto di potere costitutivo del capitalismo oggi.

Il rapporto formula una critica del «predominio dell’economia neoliberale» fondata sulla deregolamentazione e sulla riduzione della spesa pubblica, mentre assiste complice e impotente alla creazione di monopoli sempre più grandi nei settori del cibo, della farmaceutica, dei media, finanza e tecnologia. La scelta di campo è netta: «Questi monopoli, e i ricchi azionisti che li sostengono, sono responsabili dell’accelerazione della disuguaglianza economica – si legge – Permettono a queste società, e agli azionisti, di estrarre profitti dal mercato e di condividerli tra loro.

Questo alimenta direttamente l’accumulo di ricchezza per pochi, a spese dei cittadini comuni, rendendo ancora più difficile la riduzione della povertà». Circa un terzo della ricchezza miliardaria proviene dall’eredità. Alcuni individui come il presidente Usa Trump ereditano miliardi di dollari.

La ricchezza ereditaria ha creato una nuova aristocrazia che rafforza un potere tramandato da generazioni. I super-ricchi usano il patrimonio anche per pagare meno tasse, impiegando eserciti di consulenti specializzati nell’elusione e nell’evasione fiscale.

«Un miliardario è un fallimento politico». Costruire una società più giusta, libera dalla povertà estrema, richiede la fine della ricchezza estrema, precisa Oxfam. Dal punto di vista di una critica dell’economia politica, il fallimento per una società coincide con il successo del Capitale. Restiamo nell’esigente attesa del tempo in cui «la parte di redentrice delle generazioni future», di cui parlava Walter Benjamin nelle sue tesi sulla filosofia della storia, sarà di nuovo interpretata dagli sfruttati e dagli oppressi. E sarà più facile immaginare la fine del capitalismo, e non quella del pianeta.

Fonte: il manifesto




ADDIO ONOFRIO SANICOLA

 


Ho appena appreso che Onofrio Sanicola, l'ultimo puparo di Marineo, ci ha lasciato per sempre.

Chi ha seguito questo blog fin dalla sua nascita (agosto 2011) sa che ho litigato tante volte con lui e speravo tanto di continuare a farlo...Mi mancavano negli ultimi tempi le sue polemiche e le sue punzecchiature. Anche le più gratuite e infondate mi stimolavano sempre. 

Mi dispiace che te ne sei andato senza salutarmi. Mi dispiace davvero non averti potuto abbracciare per l'ultima volta. 

Che la terra ti sia lieve.

(fv)

25 gennaio 2021

DEVO TUTTO A MIA MADRE

 













      Quel che son diventato, nel bene e nel male, lo devo in gran parte a mia madre. Avendo perduto il padre quando avevo soltanto 16 anni, mia madre mi ha fatto anche da padre. Col suo lavoro mi ha permesso di studiare e crescere, insegnandomi a non chinare mai la testa di fronte ai potenti e ai prepotenti. E' stata anche mia madre a farmi capire il significato vero dell'amore. (fv)

24 gennaio 2021

EMANUELA MANNINO, Quando tutto avrà compimento

 



Quando tutto avrà trovato
il suo compimento
mi troverai
in un campo di fulgido grano
con i seni al vento
i capelli bruni sciolti in un canto
con occhi bruni di mare,
le mie mani
gigli di primavera.
Mi troverai
anima fresca
al tempio dell'amore.
Finalmente
vestiti di nudità
io e te
tra le ombre
planeremo
e semi di luce
spargeremo.
E sentirai
tutte le mie età
e sentirò tutte le tue età
e sentiremo
e troveremo
e non sapremo
e resteremo.
Emanuela Mannino

23 gennaio 2021

RIPENSANDO A MIO PADRE

 


Se mi tornassi questa sera accanto
lungo la via dove scende l’ombra
azzurra già che sembra primavera,
per dirti quanto è buio il mondo e come
ai nostri sogni in libertà s’accenda
di speranze di poveri di cielo
io troverei un pianto da bambino
e gli occhi aperti di sorriso, neri
neri come le rondini del mare.
Mi basterebbe che tu fossi vivo,
un uomo vivo col tuo cuore è un sogno.
Ora alla terra è un’ombra la memoria
della tua voce che diceva ai figli:
– Com’è bella la notte e com’è buona
ad amarci così con l’aria in piena
fin dentro al sonno – Tu vedevi il mondo
nel plenilunio sporgere a quel cielo,
gli uomini incamminati verso l’alba.
Alfonso Gatto

22 gennaio 2021

PIETRO CLEMENTE RICORDA GRAMSCI

 







Mi ha particolarmente colpito e commosso questo straordinario ritratto che il prof. Pietro Clemente ha fatto oggi di Antonio Gramsci. (fv)


BUON COMPLEANNO GRAMSCI
Buon compleanno Nino
Così penso gli abbiano detto i suoi compagni a Livorno, dove Nino era stato tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia. Aveva compiuto trent’anni il giorno dopo. Penso a lui in questi giorni perché lo leggo e rileggo, in occasione di due incontri che gli dedichiamo il 23 gennaio alle 14, e il 29 gennaio alle 17 sulla pagina face book “Distanti ma uniti. Casa Sardegna on line”. Tra circoli dei sardi e Istituto storico della resistenza senese ( ho allegato le locandine). Oggi Gramsci compie 130 anni. Ed è giusto ricordarli perché la sua memoria va ben oltre la vita che finì a 46 anni. Sono i suoi scritti e le sue vicende che rendono la sua vita più lunga dei due secoli che traversò. Viva come non mai nel nuovo millennio. Forse perché non si è lasciato mai imbalsamare.
Per chi come me è stato un giovane militante sardo, Gramsci è un pezzo di biografia. Nella età operaista amavamo il Gramsci dei Consigli di fabbrica, ma non quello dei Quaderni. Quando poi si fece in Sardegna una specie di compromesso storico che aveva al centro un ‘Gramsci sardo’ , io me ne scostai, quasi inorridito.
Ma da antropologo lo studiai nella lezione di Alberto Mario Cirese con al centro i Quaderni dal carcere. Anni a riflettere sul folklore, la cultura popolare, il senso comune e l’egemonia. Il libro più studiato in Italia per gli esami di antropologia e tradizioni popolari era ‘Cultura egemone e culture subalterne’: un omaggio a Gramsci. Con Cirese in Messico nei primi anni ’80 si parlò di Gramsci a giovani colleghi e studenti che lo trovavano adatto alla loro lotta contro il dominio culturale dei ‘gringos’. Poi Gramsci decadde dal nostro mondo di studi. Forse per eccesso d’uso, per essere stato usato come un collante per ogni frattura o un solvente per ogni nodo. Ce lo riportò a casa il mondo. Tornò, riletto e rilanciato dalla cultura filosofica francese, da quella sociologica inglese, da dove era poi schizzato ad influenzare gli studi indiani e quelli degli USA (Edward Said, un palestinese americano e gramsciano a modo suo) mentre in America latina era già presente da tempo anche in chiave politica. Nel 1997 e nel 2007, due decennali della morte, Nino fu accolto nella sua terra come un trionfatore dimenticato che torna. Nel 2007 a Nuoro lo ricordammo con Cirese e Baratta, all’insegna di ‘Gramsci ritrovato’. La sua opera di scrittura, felicemente salvata dalla cognata Tatiana, ma fatta conoscere pezzo a pezzo, con una certa dose di occhiuto governo del dicibile , sembra ormai in continua ebollizione. Ed è in questo tempo ultimo che, dopo avere vissuto Gramsci come una mente, un pensiero, una scrittura, ho scoperto Gramsci come un corpo, una storia di sofferenza e di amore. Grazie anche al lavoro “Gramsciart” di Francesco Del Casino scultore e muralista, ai libri di Noemi Ghetti, ricchi di inedite tracce biografiche, e tornando alla “Vita di Gramsci” di Fiori, che tanti anni fa avevo un po’ snobbato.
Così leggo e rileggo le sue lettere ora quasi tutte disponibili per iniziativa della Fondazione Gramsci. Mi colpisce la forza di quest’uomo che racconta le catene con le quali lo trascinavano negli spostamenti carcerari, che si trova a vivere il ‘mondo grande terribile’- che aveva affrontato da politico a viso aperto- ormai chiuso in un carcere, dove la malattia, i conflitti politici nel PCd’I clandestino, le difficoltà a comunicare con la fragile moglie, la distanza dei figli (uno dei quali non vide mai), il timore che qualcuno a fin di bene chiedesse per lui la grazia a Mussolini, lo isolano e minacciano. Oppresso da tutto questo e sempre più gracile fisicamente Antonio rivendica la forza che ha sempre avuto, in compagnia di una solitudine cui si è lungamente addestrato da ragazzo, e costruisce trame di un significato complesso che rilegge la storia d’Italia tra esperienza politica e conoscenza storica. Un Gramsci solo e malato che scrive alla sorella, ai fratelli, alla moglie, alla cognata - che sarà per lui sorella, amica, ‘segretaria di produzione’ di ogni necessità e conforto affettivo - e che ha la forza di ricostruire la storia della modernità e al tempo stesso tessere le trame di una paternità negata, che per lui è solo di desiderio. Nella tempesta del mondo e della sua condizione umana sembra quasi che la sua penna governi i flutti, e che il dramma dell'Europa oppressa taccia quando Antonio scrive a suo figlio, ai suoi figli, creando con la scrittura un’isola che non c’è. L’isola sognata in cui Nino è padre, ed insegna ai suoi bimbi ad affrontare il mondo e la vita. Un’isola che Francesco Del Casino ha fatto esistere in alcune sculture di ceramica ricomponendo la triade spezzata di una famiglia che non ebbe modo di esistere ma la cui forza di relazione è viva nelle lettere di Gramsci.
Così conoscendo e riconoscendo questo Gramsci ‘persona’, essere umano, scrittore nella tempesta, me la sono sentita di chiamarlo Nino, come fossi un suo familiare. Come di fatto sono stato perché la sua alata e amichevole compagnia ha contrassegnato praticamente la mia vita adulta dai 20 ai quasi 80 anni. Buon compleanno Nino. E grazie

Pietro Clemente, 22 gennaio 2021