19 gennaio 2021

SULLA STORIA DEL PCI


 Giorgio Amico

A proposito della storia del PCI a cento anni dalla sua fondazione

È appena uscito il libro di Piero Bernocchi e Roberto Massari “C'era una volta il PCI” che sarà presto nelle librerie e che comunque può già essere richesto direttamente all'editore.

Il libro rappresenta un bilancio, sintetico ma molto approfondito, della storia del Partito comunista al di là del mito, ricostruendone via via le origini, la deformazione staliniana a partire dalla “svolta” del 1928, l'asservimento agli interessi di potenza dell'URSS in tutte le sue giravolte, compreso l'alleanza di fatto con il nazismo che nel 1939 con l'aggressione congiunta alla Polonia diede origine alla guerra. Il libro denuncia con coraggio la complicità diretta di Togliatti e del gruppo dirigente del partito nei crimini di Stalin a partire dalla liquidazione fisica di anarchici e trotskisti nella Spagna del 1937. Compicità continuata nel dopoguerra con l'appoggio esplicito all'intervento sovietico in Ungheria e poi all'impiccagione di Nagy e degli altri esponenti comunisti che avevano osato rivoltarsi contro l'imperialismo russo e chiedere più libertà e autonomia per il loro popolo. Infine nell'ultima parte il volume tratta della crisi e poi della disgregazione finale di un partito e di un gruppo dirigente, Berlinguer in primis, incapace di comprendere davvero l'evoluzione della situazione italiana e internazionale degli anni '70-80.

Ed in effetti fu proprio così. Nonostante il mito ancora perdurante della lungimiranza del Partito e dei suoi dirigenti, Togliatti e Berlinguer fra tutti. Quest'ultimo oggetto di un vero e proprio culto che lo vede il punto più alto nella storia del partito, fu invece con la sua politica ondeggiante fra compromesso al ribasso con la DC e massimalismo verbale, uno degli artefici della crisi e del declino che in pochi anni, complici anche gli avvenimenti internazionali e il crollo dell'URSS, condusse alla tragicomica gestione Occhetto e alla fine ingloriosa del partito.

Un partito colto di sorpresa dal biennio rosso 68-69, incapace di comprenderne la profonda carica innovativa tanto da usarne l'enorme forza propulsiva per tentare di ricucire, con la politica del compromesso storico, lo strappo del 1947 con la DC e la strategia rivelatasi già fallimentare allora, di un governo di unità nazionale DC-PCI.

Dunque negli anni '70 mancarono risposte adeguate alla crisi del centrosinistra e all'ondata di lotte che aveva rimesso in discussione gli assetti tradizionali del potere, ma non fu l'unica occasione. Tutta la storia del PCI del dopoguerra è fatta di occasioni mancate da un partito che mai capì davvero come il Paese stesse cambiando. Nel 47 si escludeva assolutamente la possibile cacciata dal governo, nel 48 si era totalmente convinti della vittoria elettorale, nello stesso periodo si rifiutò il Piano Marshall sostenendo che avrebbe definitivamente affondato l'economia italiana. Analogamente pochi anni dopo si rifiutò più o meno con le stesse argomentazioni il MEC e, prigionieri di una schema che vedeva il capitalismo irreversibilmente in crisi, non si vide arrivare il boom economico. Così si teorizzò fino agli anni '60 il carattere stagnante e arretrato dell'economia italiana. E non fu solo questione di errori nell'analisi economica. Nonostante il suo esteso radicamento sociale non si capì cosa stesse davvero succedendo nelle fabbriche, vedi la sconfitta FIAT a metà degli anni '50, il luglio 60 fu una sorpresa e così le lotte del '62 con la lotta dura degli elettromeccanici e la rivolta di Piazza Statuto denunciate come opera di provocatori. Non si colse il fermentare della rivolta studentesca del 68 e neppure di quella operaia del 69, tanto che la FIOM difese a lungo le commissioni interne contro i consigli di fabbrica e inizialmente considerò primitiva la richiesta operaia degli aumenti uguali per tutti.

Certo il PCI fu uno dei grandi partiti della Repubblica, ma se si guarda ai dati elettorali si vede come dal 1948 alla spallata del 1968 non ci fu una significativa crescita elettorale. E comunque il partito sostanzialmente tenne, ma, come il partito francese, grazie all'enorme capitale accumulato con la Resistenza e soprattutto grazie alla totale subalternità del PSI negli anni '50 e poi al fallimento del centrosinistra negli anni 60. Tenne, è fu un grosso risultato, e si rilanciò grazie alle lotte, che pure aveva non solo non capito ma anche osteggiato del 68/69. Un rilancio non dovuto ad un ritorno a posizioni più classiste, che anzi il PCI usò questa nuova forza per trattare con la DC una ripresa della politica di unità nazionale già fallita nel 47, ma perché essendo il principale partito di opposizione questi raccolse naturalmente la grande richiesta di cambiamento espressa dalla contestazione studentesca e operaia. Un fenomeno comune a tutto l'Occidente. Per cui il maggio francese portò al governo i socialisti di Mitterand, la rivolta studentesca tedesca la SPD di Brandt e in Italia, dove il PSI era quello che era, si riversò sul PCI. Quindi nella crescita elettorale degli anni '70 non c'entra ne l'abilità di Longo ne quella di Berlinguer che al contrario, come Togliatti nel 46/47, non seppero usare questa spinta di massa per ottenere equilibri più avanzati e furono poi travolti dal suo rifluire. Riflusso a cui la politica del compromesso storico e dei sacrifici non fu certo estranea. Insomma se la spinta della lotta partigiana aveva sorretto il PCI per vent'anni, quella del '68, molto meno forte, già nel 1980 era totalmente esaurita determinando la crisi irreversibile di un partito e di una politica, quella di Berlinguer, del tutto incapace, una volta crollato il falso socialismo sovietico, di fare davvero i conti con la propria storia e trovare una propria identità. In pochi anni si passò dal togliattismo semistalinista del dopo '56, al compromesso storico, poi all'eurocomunismo per approdare infine alla piena accettazione del neoliberismo incipiente. In questo contesto la Bolognina e quello che ne seguì non poteva essere una sorpresa.

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