Riflessioni intorno al libro “QUANDO DIVENTAMMO COMUNISTI” Conversazione con Umberto Terracini ed. Rizzoli
Questo libro-intervista a Umberto Terracini scritto a Cartosio, paesino del basso Piemonte, verso la fine della sua lunga vita e pubblicato nel 1981 (1), è significativo del distacco profondo che esiste tra i costituenti del dopoguerra e i politici di oggi.
I primi (Democrazia Cristiana, Partito Comunista, Partito Socialista, partiti laici) hanno scritto una Costituzione con l’intento di costruire istituzioni democratiche solide e di unire il paese, i “nuovi” politici sono divisivi e sulla divisione del paese hanno costruito le proprie fortune.
La vita di Terracini è stata straordinaria, un romanzo avvincente e drammatico che ha attraversato l’intero ‘900. Giovane avvocato di famiglia borghese ha preferito alla carriera l’impegno politico; con Gramsci e Bordiga è stato tra i fondatori del Partito Comunista a Livorno nel 1921 (aveva 26 anni), e nel luglio di quell’anno, al congresso dell’internazionale comunista, si scontrò con Lenin che in francese “plus de souplesse camarade Terracini” propose il fronte unico tra comunisti e socialisti e in quell’occasione coniò la famosa formula “estremismo malattia infantile del comunismo” (2) .
E’ stato l’antifascista che ha scontato più anni nelle galere di Mussolini, ben 17 anni, senza cedimenti o compiacimenti. Ha pagato di persona il rigore morale e la fedeltà agli ideali di libertà e giustizia (la stessa sorte di Gramsci) non solo con il carcere ma con l’isolamento da parte dei suoi compagni di partito, fino all’espulsione dal PCI. Nell’immediato dopoguerra rientra nel Partito Comunista (di cui si è sempre sentito parte, seppur escluso) e ne resterà dirigente senza mai lasciarsi condizionare dalle opportunità contingenti (non è mai stato stalinista) e per questo relegato spesso al margine delle decisioni, senza mai nutrire rancori e cercare rivincite. Terracini, deputato alla Costituente, fu eletto presidente del primo parlamento repubblicano, diresse i lavori per la stesura della costituzione e ne firmò il testo assieme a Enrico De Nicola e al presidente del consiglio Alcide De Gasperi.
Terracini ribadisce l’importanza dell’approdo democratico raggiunto con l’approvazione della Costituzione nel ricordo dell’attentato a Togliatti.
C’è sempre una corrispondenza tra la costituzione e lo spirito del Paese. E’ ridicola l’affermazione di Renzi che con la riforma cambierà la politica e si ridurranno le spese: le Costituzioni “non precedono la società, ma ne sono l’espressione proiettata in avanti. La Costituzione del ’48 infatti fu la conseguenza della grande rigenerazione spirituale, sociale e culturale prodotta dall’immenso dolore della guerra, e da sentimenti di eguaglianza, libertà, dignità, solidarietà che erano radicati nelle masse” (Carnitti). La classe politica uscita dalla guerra, nella sua maggioranza conduceva vita austera, era mal pagata e non era sospettabile di intenzioni di carrierismo e di conseguenza credevano in un parlamento rappresentativo della società e eletto dai cittadini. La classe politica di oggi si è dimostrata incapace di affrontare i temi cruciali del Paese, il denaro imperversa come la disuguaglianza: povertà, disoccupazione, lavoro precario, sottoproletarizzazione del ceto medio, mancanza di competitività, di tecnologia con il resto del mondo, burocratizzazione. La frattura tra i politici e la società è diventata una voragine e la nuova classe politica ‘egoista e ambiziosa’ ha pensato bene con artifici costituzionali di conservare il potere con un parlamento di nominati, compresi i 100 senatori.
Questo non vuole dire che la nostra Costituzione non sia migliorabile, l’attuale sistema delle regioni a statuto speciale – che la riforma mantiene sostanzialmente inalterato – poggia su ragioni storiche in gran parte superate, così come ci sono intere parti del Paese che hanno problemi incancreniti nel tempo. Sarebbe opportuno rivedere le competenze dello Stato e quello delle autonomie locali a partire dalle Regioni (molte di queste sono una vera e propria palla al piede del Paese con costi enormi e burocrazia asfissiante) al fine di giungere a una diversificazione delle competenze dei territori e alla ripartizione razionale e trasparente delle risorse tra Stato centrale e Enti locali. Da oltre 20 anni i cittadini si sono visti duplicare le tasse da parte dello Stato e delle autonomie locali.
Ma è intuitivo che la politica in questi 25 anni ha solo lo scopo di consentire ai protagonisti, di impadronirsi del potere per soddisfare interessi personali o di lobby, più o meno lecite. Al contrario, i padri costituenti avevano lo sguardo rivolto all’interesse generale del Paese ad interpretare con la costituzione i bisogni ed i diritti di tutti. Purtroppo molti dei dettati ‘sociali’ della Costituzione giacciono dimenticati nella carta da parte di tutte le forze politiche.
Mentre leggevo il libro intervista di Terracini ho respirato aria fresca, ho ritrovato, pur in anni drammatici, la politica fatta di valori e di ideali. Ci sono anche capitoli curiosi come quando Terracini dopo l’espulsione dal Pci rivede Togliatti dopo 20 anni (pag. 140).
Terracini racconta con serenità anche le sofferenze patite e la delusione di essere emarginato dagli stessi compagni con cui ha vissuto carcere e confino…
«Mi pare Li Causi. Un compagno pacioso e socievole, forse proprio per questo quello più portato a sdrammatizzare simili eventi. Ma non le giuro sia stato Li Causi. Il primo che me lo disse fu probabilmente Antonio Cicalini. Cicalini è una figura curiosa e interessante di comunista. Era stato mandato al confino fra i primi. Poi era ritornato a casa. Poi era stato di nuovo arrestato e confinato. Aveva costituito lui la prima organizzazione di partito al confino di Ponza; quindi era stato trasferito a Ventotene, ed era divenuto il severo custode della disciplina di tutti, intransigente e rigido, per adoperare una terminologia che risale agli ultimi anni della nostra milizia nel partito socialista, prima della scissione. Allora si era formato nel PSI un gruppo di giovani intransigenti vicini a Bordiga, poi all’interno della frazione intransigente si era formata una frazione ancora più intransigente che si era definita intransigente rigida. Cicalini, di Imola, lo definirei così: intransigente rigido. Ed era quello che al confino amministrava la giustizia, per così dire, naturalmente sempre in accordo con gli altri compagni del direttivo, nel quale c’erano elementi come Scoccimarro, Secchia, Li Causi, che certamente non avrebbero accettato di essere usurpati nelle loro funzioni. Comunque mi venne detto un giorno che non facevo più parte del PCd’I. E assieme a quella comunicazione mi venne rivolto l’invito a non cercare di avvicinare più i compagni del collettivo, a ciascuno dei quali venne poi comunicato che ero stato espulso e che quindi non dovevano più avere rapporti con me. E così incominciarono e poi scorsero quegli ultimi due anni di confino che furono per me particolarmente melanconici: mi ritrovai completamente isolato, i compagni mi sfuggivano. Solo Camilla Ravera osò contravvenire a quella disposizione. Un gesto che pagò caro: fu espulsa anche lei dal partito. »
La stessa sorte toccò a Gramsci, l’amico fraterno di Terracini fin dal 1914 a Torino, è struggente il ricordo di Gramsci nell’isolamento in carcere sino alla morte nel 1937
Antonio reagì isolandosi, rinunciando alle lezioni. Si capiscono, comunque, le ragioni che indussero Togliatti, Longo e gli altri dirigenti a prendere per buona la versione fornita da Gennaro. Nonostante l’enorme suggestione che l’Internazionale e il nome di Stalin esercitavano sulle coscienze di tutti i militanti, qualche momento di dubbio, di incertezza sarebbe forse penetrato in molti compagni se avessero saputo della posizione di Gramsci. Non è ancora chiaro, del resto, perché non andarono in porto nel 1932 le trattative tra il Vaticano, l’Unione Sovietica e il governo fascista, che avrebbero dovuto condurre alla liberazione di Gramsci. Il Vaticano e l’URSS avevano intrapreso contatti per uno scambio di prigionieri. Era avanzata l’ipotesi che Gramsci potesse riottenere la libertà in seguito alla liberazione di qualche prelato detenuto in Unione Sovietica. La cosa sembrava possibile, anche perché era in atto una campagna internazionale in favore di Gramsci, animata soprattutto da Piero Sraffa, un amico di Antonio degli anni torinesi, che era divenuto professore di economia a Cambridge. Le trattative, alle quali partecipò con certezza monsignor Pizzardo, il futuro cardinale, furono però sospese. Per l’intervento di Stalin? Il dubbio è rimasto e credo che tormenti ancora molti il pensiero che se Gramsci fosse stato liberato, avrebbe potuto curarsi, e sfuggire alla tragica morte che poi lo colse.»
Il racconto di Terracini è scorrevole, in modo chiaro e senza enfasi ripercorre la storia del ‘900 dalla prima guerra mondiale alla crisi dell’italia liberale, dalla scissione del partito socialista di Livorno (3) al fascismo, i rapporti con l’internazionale comunista, la polemica con Lenin del 1921, l’ascesa di Stalin e la stalinizzazione del PCI. Il libro-intervista descrive pure la vita quotidiana dei confinati a Ventotene e i rapporti con Altiero Spinelli e gli esponenti di Giustizia e Libertà, le peripezie con cui raggiunse la Svizzera e poi si unì alle formazioni partigiane in Val d’Ossola, ebreo e comunista/isolato dal partito.
Mi decisi: andai alla stazione e presi un treno per Novara. Ritrovai mio fratello, la sua famiglia. Era un brutto momento: si era diffusa la notizia che nazisti e fascisti avevano iniziato la caccia agli ebrei. Io oltre ad essere ebreo ero pure comunista. Bisognava trovare un rifugio. Novara non era sicura. Mia nipote aveva una villetta sul lago d’Orta. Ci andammo. Ci svegliò in piena notte un fascista del luogo, era anzi proprio il segretario del Fascio di Orta. Un letterato, un buon uomo. Ci avvertì che un plotone di tedeschi aveva iniziato a rastrellare il paese. Cercavano antifascisti ed ebrei. Presto sarebbero arrivati anche lì. Restammo incerti, non sapevamo come comportarci. Il segretario del Fascio ruppe ogni indugio: era venuto in barca, un mezzo di comunicazione normale in quei luoghi. “Va bene” ci disse “scendete, montate sulla mia barca, venite per il momento a casa mia”. Così ci offrì un primo rifugio sicuro. Fece di più: organizzò dopo due giorni il nostro passaggio clandestino in Svizzera. Quando varcammo la frontiera cominciava ad albeggiare. I gendarmi svizzeri ci condussero in un borgo poco lontano dal confine, dove sorgevano molti alberghi, che erano stati adattati dal governo a campi di raccolta per i profughi che fuggivano dall’Italia. (…) Quando i compagni del Partito svizzero del lavoro, il partito comunista svizzero, seppero del mio arrivo, vennero a cercarmi e ad offrirmi il loro aiuto. Non sapevano che il collettivo di Ventotene mi aveva espulso. L’idea fissa che non mi abbandonava mai era quella di ritornare in Italia, e di riallacciare i legami con il partito, per spiegare le mie ragioni e che cosa era successo davvero. Ma soprattutto per contribuire alla lotta in Italia. Le prime notizie sul movimento partigiano, sull’inizio della guerriglia contro i tedeschi, acuivano il mio senso di impotenza. Mandai in Italia un messaggio, al Comitato di liberazione nazionale, mettendomi a disposizione. Riuscii pure a far pervenire una lettera al centro del partito, a Milano. Le risposte che ricevetti furono profondamente deludenti. Il partito da Milano mi fece sapere semplicemente, in due secche parole, che non avevo nulla a che fare con il PCI e che il partito non aveva nulla da dirmi. Il Comitato di liberazione per l’Alta Italia mi rispose che non poteva adoperarmi o affidarmi qualche incarico, perché facendo questo indipendentemente dal Partito comunista, che era un suo costituente, avrebbe certamente rotto un accordo e un’armonia. Seppi in seguito, e del resto lo ha raccontato Giorgio Amendola, nel suo libro Lettere a Milano, che la decisione di confermare la mia espulsione era stata adottata a Roma dopo la caduta di Mussolini, nella prima riunione in Italia del centro dirigente del partito. Vi avevano partecipato, oltre allo stesso Amendola e a Massola, alcuni dei dirigenti del collettivo di Ventotene che mi avevano espulso. Era più che naturale che in un momento oltretutto concitato, e in assenza di Togliatti, il mio caso fosse stato liquidato senza troppi approfondimenti. Passarono alcuni mesi prima che riuscissi a rientrare in Italia, con le mie sole forze. Lo decisi appena seppi, nel settembre del 1944, che in Val d’Ossola le formazioni partigiane avevano sferrato una offensiva contro i tedeschi ed erano riuscite ad occupare Domodossola. Si profilava la costituzione di una repubblica autonoma. Pensai che avrei potuto essere utile. Partii da Locarno con un trenino elettrico che giungeva fino alla frontiera. Poi a piedi, scesi giù nel versante italiano di quelle montagne. Giunsi nei sobborghi di Domodossola a sera fatta, era ormai buio. Quasi all’improvviso mi trovai di fronte un signore anziano, con una pellegrina, quel tipo di soprabito che si usava una volta, con la mantellina nera. Era il professor Ettore Tibaldi, un vecchio compagno socialista, medico di buona fama, il quale durante la guerra si era ritirato nella sua cittadina, a Domodossola, dove dirigeva l’ospedale civico. Fu lui a riconoscermi per primo: evidentemente gli anni non mi avevano molto cambiato. Lui invece si era fatto crescere la barba. Eravamo stati assieme nella Federazione giovanile socialista. “Cosa fai qui?” mi chiese stupito. “Sono venuto per fare qualche cosa” risposi. Lui, non al corrente delle mie traversie col partito, credette che mi trovassi lì per incarico del PCI. Gli spiegai brevemente come stavano le cose. Tibaldi dirigeva l’amministrazione di governo della piccola repubblica. Mi disse che la mia opera sarebbe stata preziosa. Mi trovò ospitalità per la notte e il giorno dopo, in municipio, mi affidò le funzioni di segretario generale del governo dell’Ossola. I problemi erano tantissimi, bisognava riorganizzare le attività civili, far girare la macchina amministrativa, provvedere alle necessità delle brigate combattenti. Qualche giorno dopo giunse da Novara un emissario della federazione comunista. La sua prima preoccupazione, in quel momento difficile, tumultuoso, fu quella di avvisare dappertutto che Terracini era stato escluso dal partito, che non bisognava dargli spazio, che i militanti dovevano ignorarlo. Perciò io non ebbi alcun rapporto con l’organizzazione del PCI che anche in Val d’Ossola si era subito ricostituita. D’altra parte ero ampiamente assorbito dal compito che mi era stato affidato. Mi tuffai nel lavoro quotidiano. Credo che riuscii a conquistarmi la stima della gente.»
Merita apprezzamento anche il giornalista Mario Pendinelli che ha raccolto le memorie di Terracini e ha curato il libro-intervista; ha saputo mantenere la vivezza dell’esposizione di Terracini nel contesto degli anni tumultuosi che hanno segnato il nostro paese.
Particolarmente felici sono poi i ritratti dei protagonisti dell’epoca. Terracini rammenta: “E poi, anche i rapporti personali e fraterni che esistevano tra Bordiga e noi (lui e Gramsci) ebbero un peso nello stemperare i contrasti”. Ricorda così Amedeo Bordiga: “era una personalità in un certo senso straordinaria. Aveva una fortissima capacità di lavoro e un carattere ostinato e freddo. Ma era essenzialmente un dogmatico. Credo che avesse letto tutto quanto era stato pubblicato intorno a Marx da autori di ogni lingua… era tuttavia incapace di coglierne il momento vivente, cioè di trasferire la formula nella realtà che lo circondava. Ricordo che pochi giorni, o poche settimane prima della sua morte, nel 1970, io mi ero recato a Napoli per rivederlo, dopo venticinque anni di separazione e di silenzio completo fra di noi.
Fu un incontro strano: mi ripetè le cose che avevo già sentito dire da lui nel 1922, nel 1923, nel 1924. Mi accorsi che non aveva spostato di una virgola le sue convinzioni, la sua mentalità, la sua impostazione di pensiero. Guardava le cose del 1970 come quelle del 1924. Sembrava non accorgersi di quanto il mondo fosse cambiato.”
L’incontro con Antonio Gramsci che ha segnato le loro vite:
Il ritratto di Togliatti:
«Togliatti non ha mai firmato una condanna a morte, ma non ha neppure contestato le accuse che si muovevano a Zinov’ev, a Bucharin, a Kamenev, agli innumerevoli dirigenti russi che sono stati deportati o giustiziati. Penso che dentro di sé ne inorridisse, ma c’è una frase accreditata a qualche
grande uomo della storia: il coraggio non ce lo si può comandare quando non lo si ha. Togliatti era un uomo saggio, prudente, ma non aveva un carattere particolarmente coraggioso, specialmente quando si trattava di affrontare una lotta diretta contro forze che giudicava preponderanti. Preferiva raccogliersi nel suo mondo di pensiero, probabilmente convinto che la realtà avrebbe finito col ricollegarsi alle sue idee facendole prima o poi prevale re. Lui ebbe posizioni di estrema importanza nella gerarchia dell’Internazionale, e quindi nei confronti dei partiti comunisti di tutto il mondo. Non per nulla fu mandato dall’Internazionale in Spagna come proprio console, durante il tempo della guerra civile. Il suo pensiero politico, la sua lucidità, la sua cultura, erano largamente apprezzate. Forse avrebbe potuto dire o fare qualcosa. Io ho già detto in passato, e lo ripeto, che secondo me Togliatti era stato durante quegli anni quasi plagiato da Stalin e dallo stalinismo, da quel sistema formidabile di potere che era riuscito a subordinare a sé un intero mondo, dall’Europa all’Asia. Centinaia di milioni di esseri umani sottoposti ad una organizzazione dittatoriale nella quale era insito il dispregio massimo per i diritti individuali, l’odio e l’avversione per tutto ciò che suonasse libertà non solo di azione ma di pensiero. In ogni modo, tutti coloro che vivevano e operavano a Mosca, nel luogo naturale di rifugio di tutti i rivoluzionari del mondo perseguitati da governi fascisti o reazionari, erano presi da quel sistema, soffocati da quell’atmosfera, obbligati ad accettare e inchinarsi. Se non lo facevano sparivano. Come sono spariti quei circa duecento comunisti italiani rifugiati nell’Unione Sovietica, deportati nei campi di annientamento dell’Asia Orientale. E per salvarli niente fu tentato, diciamolo pure, neanche da Togliatti. Certo, se avesse tentato si sarebbe esposto lui stesso a chissà quali terribili sanzioni.»Ho conosciuto di persona Umberto Terracini nel 1982; era venuto a vivere a Cartosio, il paese di origine della moglie. Un incontro indimenticabile: era molto vecchio, serio, gentile, parlava con semplicità, chiarezza e trattava ogni persona con cui conversava nello stesso modo rispettoso. Gli chiesi dello scontro con Lenin nel 1921 e mi rispose che Lenin aveva grande autorevolezza e nei mesi successivi riflettè a lungo sull’episodio e rivedette in parte il suo pensiero politico. Ricordò anche che nonostante lo scontro politico tra la delegazione italiana e il gruppo dirigente dell’Internazionale fosse stato aspro, i rapporti personali erano rimasti fraterni. “Purtroppo quel costume fatto di tolleranza, di reciproco rispetto, di fraternità rivoluzionaria, non durò molto. Le cose cambiarono.” Le cose precipitarono con l’avvento di Stalin. Disse anche che senza la malattia di Lenin difficilmente Stalin sarebbe emerso, perchè Lenin era consapevole del pericolo di una “svolta autoritaria”. Di fatto con Stalin prese piede una delle più terribili e spietate patologie della sinistra: il settarismo. Come abbiamo letto più volte ha subìto ingrate emarginazioni dai compagni settari del suo partito. La stessa sorte è toccata a Gramsci, drammatico il ricordo della sua morte “… Antonio era stato contrario alla ‘svolta’, quindi alla linea del partito comunista… Per i compagni detenuti o confinati, Antonio ormai era estraneo al partito. Perciò la notizia della sua morte passò come tante altre, fu accolta senza dolore, non suscitò emozioni. E questo atteggiamento rese ancora più acuto il dramma nostro, di quei pochi che sapevano e che erano stati d’accordo con Gramsci.”
Lo stalinismo sopravvisse a lungo nel Partito Comunista, Terracini nell’intervista vuole ricordare un episodio non del tutto chiaro:
— Le opinioni cambiarono solo nel 1956, dopo che Chruscèv denunciò al XX congresso del partito sovietico i crimini di Stalin?
« I crimini di Stalin erano noti. Non tutti i componenti del gruppo dirigente del partito avevano vissuto essi stessi a Mosca quei fatti, quegli eventi terribili. Ma tutti ne avevano avuto notizia. Ogni cosa era compresa e definita in una sorta di giustificazione storica. Si pensava che tutto ciò che era accaduto fosse plausibile ed approvabile, data la realtà storica di quei tempi, ma che niente del passato dovesse o potesse ripetersi.»
Terracini ha sempre combattuto il settarismo:
Più volte nel libro/conversazione ribadisce di essere contrario al formarsi nel Partito Comunista correnti o gruppi di potere in lotta tra di loro,” ma il centralismo democratico è stato spesso inteso in modo distorto, è stato usato per soffocare il dissenso, o per governare dall’alto il partito.”
E’ curioso che nel PD di Renzi sia sopravvissuto proprio un modo distorto di governare il partito dall’alto. Da anni sono stati gettati dalla stiva della nave della sinistra valori ed ideali e scambiati con vera zavorra ma è tornato il richiamo di conformarsi pedissequiamente alle opinioni del leader. Non si potrebbe spiegare diversamente il comportamento della maggior parte degli iscritti al PD, prima delle elezioni politiche il programma del Pd era totalmente diverso da quello concretizzato dal governo Renzi. Nessuno degli iscritti avrebbe ritenuto solo accettabili leggi come ‘la buona scuola’, il jobs act, lo ‘sblocca Italia’, la legge elettorale peggiore della legge Acerbo o del porcellum e quel pasticcio della riforma costituzionale seppellita dal voto nel dicembre 2016, avrebbero deriso chi avesse osato fare una simile profezia mentre ora sono ‘tutti’ (ovviamente i rimasti nel PD) convinti della bontà assoluta di queste nefandezze. Come si può altrimenti spiegare l’isolamento di Massimo D’Alema che anche nella battaglia referendaria sostenne tesi che appartengono alla sinistra dalle origini ai nostri giorni e per di più è stato dileggiato ogni giorno con accuse di ogni sorta. Ebbene, nel leggere l’intervista di Terracini, ho provato quasi tenerezza per Massimo D’Alema, che peraltro negli anni del ‘comando’ è stato sostenuto e lusingato da questi stalinisti di quarta generazione.
(1) Quando Diventammo Comunisti. Conversazione con Umberto Terracini, tra cronaca e storia. A cura di Mario Pendinelli (autore) – Rizzoli editore, Milano 1981
(2) “Quando Lenin finì di parlare mi sentii addirittura svilito. Eppure ero convinto di aver fatto bene ad esprimere con chiarezza e risolutezza il nostro dissenso…. Naturalmente il nostro dissenso non bastò. Le tesi di Lenin sul fronte unico furono approvate dall’Internazionale; e divennero perciò la politica ufficiale di tutti i partiti comunisti. Però noi avevamo potuto esprimere liberamente le nostre opinioni, polemizzare con i capi della Rivoluzione d’Ottobre, discutere da posizioni di pari dignità con gli uomini che avevano sconfitto lo zar e stavano tentando di costruire il socialismo in un immenso paese.” (pag. 57)
(3) A Livorno la componente comunista chiedeva l’espulsione dal partito socialista della corrente ‘riformista’ , Turati peraltro nel suo intervento fu profetico”la violenza si ritorce sempre verso noi stessi: minacciando oltre misura, vuotando del suo contenuto l’azione parlamentare, noi creiamo il fascismo, creiamo la contro-rivoluzione… La forza del bolscevismo russo è nel nazionalismo russo, che avrà grande influenza nella storia del mondo, come opposizione all’imperialismo occidentale, ma è pur sempre una forma di imperialismo orientale”. (pag. 17)
Pezzo ripreso da
https://www.nuovatlantide.org/umberto-terracini-un-uomo-dimenticato-in-unitalia-senza-memoria/
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