09 gennaio 2021

TELECRONACA DI UN TENTATO COLPO DI STATO

 




BARBARI IN CAMPIDOGLIO

di Andrea Inglese

Proprio un afroamericano ci aveva insegnato che non avremmo visto la rivoluzione in TV (Gil Scott Heron), ma un colpo di stato magari sì. Se poi il colpo di stato riguarda niente popò di meno che gli Stati Uniti d’America, che di colpi di stato se ne intendono parecchio, soprattutto nel caso in cui avvengano fuori dalle loro frontiere, allora vale proprio la pena di restare incollati davanti alla TV come sono rimasto io la sera del 6 gennaio. Non vorrei sembrare cinico, anche perché sono morte ben cinque persone durante l’assalto dei trumpisti al Campidoglio. (Dei quattro manifestanti deceduti, una donna è stata uccisa da un proiettile esploso da un poliziotto all’interno del palazzo, un’altra è morta schiacciata dalla folla o in seguito a uno svenimento, il terzo per un infarto e il quarto per un ictus. L’unica vittima tra le forze dell’ordine, è morta dopo essere stata colpita dal lancio di oggetti contundenti.) Bisogna, però, essere fedeli non solo al carattere politico e sociale degli avvenimenti, ma anche a quello estetico. E quando ci si trova seduti davanti a uno schermo, per guardare l’inatteso che accade, commentato e filmato in diretta, in tale frangente dell’informazione-spettacolo le considerazioni estetiche non possono essere del tutto azzerate.

Innanzitutto, ho rivissuto l’esperienza di quando guardavo più giovane i mondiali di calcio, senza sapermi decidere su quale canale sintonizzarmi per seguire la medesima diretta, resa eventualmente più gustosa dal talento di un particolare commentatore. La sera del 6 gennaio saltavo da un canale all’altro, passando in rassegna tutte le trasmissioni televisive d’informazione che il mio operatore mi rende disponibili. La scelta era sufficientemente varia, includendo quattro o cinque canali francesi, i principali canali Rai, Euronews e poi, ovviamente, BBC, CNN e persino Al Jazeera. Di questi tempi, come molti, rifuggo il responsabile aggiornamento sui fatti d’attualità, preferendo al tormentone pandemia-vaccini-maschere-confinamento l’evasione rincretinente offerta da un bel film di vampiri o supereroi Marvel. In ogni caso, la presa, in stile vagamente bolscevico, del Campidoglio statunitense, sede del Parlamento federale della più prepotente e ammirata democrazia capitalistica del mondo, centoquattro anni dopo quella del Palazzo d’Inverno, meritava uno strappo alla regola. Ad entrambi i palazzi, per altro, bisogna riconoscere il physique du rôle, quello d’Inverno è in stile neobarocco (barocco russo o elisabettiano), ma c’è il solito zampino di un architetto italiano, Bartolomeo Rastrelli. Quello di Washington, invece, è un bel mastodonte neoclassico, perfetto per albergare, dietro la sua marmorea e imponente bianchezza, i più tenebrosi intrallazzi del potere pluto-tecnocratico. E anche in questo caso non manca l’affresco di Costantino Brumidi, nato a Roma da padre greco e madre italiana, considerato il Michelangelo del Capitol grazie alla sua Apoteosi di George Washington, che dal soffitto del cupolone sovrasta la rotonda. (C’è da dire che, dopo secoli di Signorie e Papati, gli artisti italiani sapevano come si lusinga, a colpi di pennello o di scalinate, un Principe.)

Questi due templi del potere si prestano magnificamente a essere illordati da plebe sgangherata, da canagliume in armi, con forconi, banderuole, stivalacci, bragoni incrostati, panini alla provola e alle melanzane sott’olio. Non c’è vera insurrezione popolare senza l’effetto: barbone a cena dal Principe di Monaco, o elefante nella cristalleria. Inoltre, come già accadde centoquattro anni fa a Pietrogrado, anche stavolta si entra facile, nel Campidoglio intendo. Nel Palazzo d’Inverno, dopo qualche colpo di cannone sulla facciata, i bolscevichi ebbero soprattutto problemi a orientarsi in quel dedalo di stanze vuote. L’altra sera c’era soprattutto l’ostacolo dei vetri alle finestre: ma gli scudi delle timide forze dell’ordine sono stati prontamente utilizzati per risolvere il problema. Grazie al cielo non mancano mai gli estintori, e anche le impalcature di metallo, per inscenare arrampicamenti eroici e arringare le folle. Se poi nessuno viene ascoltato nel bailamme generale, c’è sempre un teleobiettivo della CNN che si occupa degli urlatori solitari.

Nonostante io mancassi di pop-corn e birre fresche, non ho certo osato alzarmi dal divano, anche perché le immagini erano non solo sorprendenti ed eccitanti, ma anche gravissime. Più galvanizzati di me erano comunque i giornalisti. Non stavano letteralmente nella pelle. Anche loro bisogna capirli. Hanno passato quasi un anno in una sorta di tunnel monotematico a carattere sanitario, che certamente riscuote tormentata e nauseata attenzione, però avere sottomano il colpo di stato non in Costa D’Avorio, non in Venezuela, non in Ucraina, ma proprio negli Stati Uniti d’America, non può che ridare speranza anche al conduttore di talk-show più cinico e disincantato. All’inizio, i loro inviati speciali se ne stavano bene a distanza dalle gradinate dove accadeva il finimondo, ma poi non hanno resistito. Con le loro diligenti mascherine, mentre gruppetti di poliziotti antisommossa cominciavano a fare qualche scorribanda, appoggiati dal lancio di lacrimogeni, i cronisti sono andati a piazzare il microfono sotto il naso degli energumeni trampisti, e questi con fare arrendevole si sono messi di buzzo buono a urlare i loro slogan di elettori defraudati, guardando dritto nell’obiettivo. Poi qualcosa dev’essere andato storto, perché si sono visti altri energumeni pigliare a calci costosissime apparecchiature televisive. Un vero peccato, perché la sintonia tra giornalisti e terroristi era stata per un bel pezzo perfetta, e ne godevano tutti i telespettatori mondiali, costretti a casa con moglie o con marito per via del coprifuoco. Bisogna infatti sottolineare anche questo fatto non secondario: si segue con più attenzione un colpo di stato a Washington, quando non si è al pub con gli amici a sbronzarsi o non ci si può fare una canna di gruppo sul lungotevere o sul lungosenna.

Anche se i conduttori televisivi gongolavano, si capiva bene che stava accadendo qualcosa di molto grave e drammatico. Anzi, erano gli stessi commentatori che, di tanto in tanto, smettevano i panni del radiocronista calcistico sudamericano, per assumere quello di un coro della tragedia attica, e qui l’eloquenza raggiungeva apici di rara intensità. Tutti si chiedevano naturalmente dove fosse finita la variopinta legione di poliziotti di quartiere, municipali, statali e federali, accompagnata dalle forze speciali e dalla guardia nazionale, oltreché da qualche mezzo blindato dell’esercito che si vede sia nella sequenza finale dei Blues Brothers sia nelle più sguarnite manifestazioni di cortile di Black Lives Matter. Ma in effetti di poliziotti, a parte quelli bonaccioni del Campidoglio, non ne circolavano un granché. Per buona parte della serata, ho pensato che ciò fosse la conseguenza di un piano mefistofelicamente architettato dal tremendo Trump, poi mia moglie mi ha instillato una versione complottistica più coerente. Quale modo migliore di sbarazzarsi di lui, bruciarlo politicamente anche presso il proprio partito, se non quello di aprire le porte del Congresso e le aule venerande degli eletti al circo barnum degli elettori trumpisti, fresatori in pensione della Virginia o agricoltori dell’Arkansas? Se fossi un complottista pro-Trump mi chiederei quanto i monumentali svarioni realizzati nell’organizzazione della sicurezza non siano stati anche frutto di qualche giudizioso calcolo. Molti opinionisti, inclusi quelli specializzati nelle questioni più arcane della sicurezza interna, hanno sollevato l’argomento del “fattore sorpresa”. In effetti, pare che nessuno abbia avvisato con almeno due settimane d’anticipo i vertici della polizia, dell’amministrazione municipale e dei servizi segreti, dell’intenzione di assaltare la sede nel Congresso. Un’ennesima dimostrazione, questa, del dilettantismo che spesso alligna tra le forze insurrezionali.

È stato, però, l’assenteismo totale di forze di polizia nella capitale, davanti al Campidoglio, il giorno in cui semplicemente si ratificava la contestata vittoria del nuovo presidente e si radunavano decine di migliaia di sostenitori del vecchio presidente, che ha cominciato a rendere la vicenda da melodrammatica ad assurda, da terrificante a surreale. Il senso estetico qui ha cominciato a divergere dalle reazioni politiche e morali, incentrate sul lamento e l’indignazione. A sabotare completamente l’effetto tragico, a rendere implausibile un finale dittatoriale a fosche tinte, nonostante i feriti e i cinque morti, sono state poi le sequenze video e le foto scattate all’interno del palazzo. Non è stata colpa solo di uno sconsiderato selfie che un poliziotto si è fatto con un insurrezionalista. È soprattutto il contrasto tra la visione carnevalesca e stralunata di quanto accadeva all’interno rispetto alla visione da film apocalittico degli eventi all’esterno che ha allentato inevitabilmente la tensione. Anche Biden ha dato ovviamente il suo contributo, con il suo intervento a caldo. Ogni volta che Biden prende la parola cala quella caratteristica atmosfera di sonnolenza da quattro e mezza di mattina, che in genere assopisce anche gli insonni più gravi.

Gli sceneggiatori di Hollywood ci avevano convinto che per conquistare il Campidoglio bisognava essere marziani, su immense piattaforme stellari, che sparano raggi fotonici sul cupolone. Oppure supercriminali volanti e giganteschi, che abbattono grattacieli con un pugno. O reduci dell’armata sovietica, con bombe nucleari a tracolla, se non eserciti islamisti guidati da mercenari armatissimi e spietati. Nessuno però aveva scommesso su una presa del palazzo in stile Marco Ferreri o Brancaleone alle crociate. Da assurdo, infatti, l’evento si è fatto vieppiù grottesco, quando si son viste le immagine delle masnade incolonnate nella rotonda, che s’incamminavano per le sfavillanti sale con il passo strascicato delle comitive tedesche o russe in visita a Firenze, e chi con la divisa da bucaniere, chi con la bandiera dei Confederati, chi con il cappellino alla David Crockett, chi con tutine sgargianti e lasche tipo il Gabibbo, chi infine con il volto colorato, indossando corna e pelliccia di bufalo. E tutti, ad un certo punto, estremamente combattuti tra farsi un selfie tra marmi e lampadari, sfuggire ai gas lacrimogeni o spaparanzarsi sugli scranni congressuali. Mai tenativo di putsch, insurrezione plebea, colpo di mano fascista, è stato più sbrindellato e variopinto. Questo di certo non lo rende più innocuo. (Il fascismo non lo è mai, nemmeno nelle sue forme più caricaturali.) Ci si aspettava qualcosa, però, di più hollywoodiano, di più virile e grandioso, di più sublime, rispetto al signore con un berrettino da baseball, jeans e scarpe da lavoro, seduto in un ufficio del Congresso, con i piedi sulla scrivania. Dobbiamo, insomma, riconoscere che l’azione politica estremamente minacciosa, di cui siamo stati testimoni e che si è svolta a Washington il 6 gennaio, si è presentata mescolando irrealtà ed efficacia, autolesionismo trasognato e rabbia idiota, bisogno di svago e delitto noncurante, martirio eroico e caduta dalle scale, selfie da pensionato in gita e celebrazione mediatica da nemico pubblico numero uno. Una lama d’irrealtà si è infilata nel cuore stesso delle più eclatanti realtà, con buona pace delle nostre discussioni letterarie sull’infinita rincorsa tra finzione e cronaca, tra immaginazione e dati di fatto.

Articolo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2021/01/08/barbari-in-campidoglio-cronaca-di-una-telecronaca/



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