Il senso politico dell’amore
Lo slogan femminista ,“Il personale è politico”, ripreso giorni fa dal Manifesto a proposito delle parole pronunciate da Gino Cecchettin al funerale della figlia Giulia difronte alla grande quantità di persone che hanno affollato la basilica di Santa Giustina a Padova, non poteva tornare al centro dell’attenzione in un modo più adeguato e insieme più sorprendente.
La vicenda dolorosa, inquietante di un ennesimo femminicidio, anziché chiudersi nel riserbo “privato” di una famiglia ferita, per la prima volta ha visto aprirsi le porte di casa e uscire da quegli interni domestici parole che finora si erano sentite solo nelle manifestazioni del femminismo in particolari ricorrenze, come la Giornata del 25 novembre. Benché la violenza sulle donne sia ormai riconosciuta da tempo anche dalle istituzioni come “fenomeno strutturale”, i media hanno continuato a relegarla fuori dal discorso politico, come “caso di cronaca” e i provvedimenti governativi che dovrebbero contrastarla limitarsi a norme più severe di controllo e di carcerazione.
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L’aggettivo “imprevisto”, usato agli inizi anni Settanta da Carla Lonzi per descrivere la comparsa delle donne come “soggetti politici” sulla scena pubblica, con l’idea che la storia andasse riscritta a partire da un evento che sconvolgeva la millenaria separazione tra il corpo e la polis, tra i destini di un sesso e dell’altro, ritorna oggi di attualità a proposito del dominio millenario di una comunità storica di soli uomini. Solo un “padre” che ha saputo guardare al di là del suo ruolo genitoriale e pensarsi “uomo” tra altri uomini, accomunati da una cultura virile che oggi li costringe ad interrogarsi di fronte alle sue manifestazioni più violente, poteva eclissare la figura del “Patriarca”, a cui ancora molti guardano con malcelato rimpianto. La guerra tra i generi ha avuto nella famiglia il suo radicamento più forte e insieme la sua più forte copertura per la perversa confusione tra amore e violenza. Non poteva essere perciò che una famiglia di straordinaria sensibilità e consapevolezza del rapporto tra gli affetti primari, più intimi e un sessismo che dura da millenni, a dare finalmente voce ed incisività politica alle parole che generazioni di femministe hanno gridato da tanto tempo sulle piazze, inascoltate.
Se la critica più radicale alla violenza maschile sulle donne ha potuto rimanere così a lungo ignorata, osteggiata o tenuta sotto silenzio, è perché il cambiamento delle coscienze avvenuto con la rivoluzione del movimento delle donne degli anni Settanta attendeva ancora quella dichiarazione pubblica – “ci riguarda” – che avrebbe finalmente portato al centro non la vittima ma l’aggressore, non la patologia del singolo ma la cultura che aliena le vite di uomini e donne a partire dalle esperienze più intime, come la sessualità e la maternità. È questo il discorso lucido e commosso con cui Gino Cecchettin ha dato l’ultimo saluto alla figlia, dopo l’effetto dirompente che aveva già avuto la lettera di Elena, sorella di Giulia, al Corriere della sera. È toccato alle figure di un padre e di una figlia aprire una breccia in quella corazza che sono stati finora i ruoli familiari, mettere in discussione la ‘normalità’ fatta di pregiudizi atavici che ha “privatizzato” e “naturalizzato” rapporti storici di potere. La più toccante lezione di un amore possibile è venuta oggi sorprendentemente a seguito di quella affermazione selvaggia di potere di vita e di morte che è il femminicidio.
“Trasformare la tragedia in una spinta al cambiamento” appartiene non alla fede, ha detto Gino Cecchettin, ma alla “speranza”. In realtà, un cambiamento la morte di Giulia lo ha già portato nel momento in cui sono state le persone a lei intimamente più legate che, invece di chiedere pene all’altezza del loro dolore per il giovane ex fidanzato che l’ha uccisa, hanno spostato lo sguardo su una società che soffre degli stessi mali, che si pone nella solitudine del “privato” gli stessi interrogativi in attesa di soluzioni fuori dell’ambito familiare, sempre rimandate. Il richiamo alla scuola, ai mezzi di informazione, alle istituzioni, non è nuovo quando si parla di prevenzione della violenza sulle donne, ma in questo caso ci sono fatti, verrebbe da dire “rivoluzionari”, che possono rendere quanto meno difficile fermarsi alle parole, alle buone intenzioni. A parlare di “guerra tra i generi”, di “pace”, “perdono”, di educazione alla non violenza, sono state in questi giorni le massime autorità religiose, dal vescovo di Padova, in occasione durante la cerimonia funebre, al papa, e in un Paese dove ancora serpeggia un aggressivo fondamentalismo cattolico, sarà sicuramente più problematico d’ora innanzi agitare lo spauracchio della Gender Theory contro ogni tentativo di affrontare nella scuola le problematiche del corpo, delle identità e dei ruoli di genere.
Pubblicato su il manifesto e qui con il consenso dell’autrice
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