SUSAN SONTAG. Una vita
Alberto Scuderi
Che le convinzioni siano tanto nemiche della verità quanto più pericolose della menzogna è una sentenza fin troppo esatta, anche se a pronunciarla fu un individuo da cui guardarsi come Friedrich Nietzsche. A ricordarlo giunge ora la monumentale biografia dedicata a Susan Sontag (1933-2004) dello scrittore Benjamin Moser (Rizzoli, 2023), cui va il merito di aver restituito il ritratto di una personalità tutt’altro che monolitica, come, invece, l’immagine dell’intellettuale americana suggerirebbe. Piuttosto, qui affiorano le ombre di una donna abilissima a costruire una narrazione di sé senza lacerazioni, dubbi, insicurezze, che pure non smetteranno mai di tormentarla. Del resto, uno dei suoi saggi più importanti è Sulla fotografia (1973): dedicato all’utilizzo distorto dell’immagine quale strumento di falsificazione della realtà.
Il confine, dapprima sottile e poi sempre più invalicabile, nella giovane Sontag, tra vita pubblica e privata sfocerà, ben presto, in una forma di sdoppiamento dove ad avere la meglio sull’autentico sarà il percepito. Tant’è vero che, fin dagli anni delle superiori a Los Angeles, allora patria della diaspora tedesca dopo l’avvento di Hitler, a farla sentire maggiormente a disagio, senza tuttavia essere in grado di farne a meno, era quel mettersi continuamente in posa, come se l’unico modo per salvarsi fosse diventare qualcun altro; da cui il continuo rifugiarsi nelle piccole bugie, certo senza ferocia, più probabilmente per proteggere sé stessa e le ferite di un’infanzia non spensierata. Secondo Moser:
“C’è un divario non solo tra la persona che è e quella che gli altri percepiscono, ma anche, più acuto, tra sé stessa e una forza superiore che veglia su di lei. Mettersi in posa: non è un caso che Susan Sontag fosse uno dei personaggi pubblici più fotogenici della sua generazione, né che nel suo romanzo migliore, L’amante del vulcano, la protagonista sia un’esperta di “atteggiamenti”. Rinomata per il magistrale talento per l’imitazione Lady Hamilton è in grado di rievocare, con in gesto o un tono, un’intera schiera di figure della mitologia o della storia”.
Questo mascheramento della realtà, a dire il vero, Susan lo aveva preso da mamma Mildred. Donna bellissima e fragile, alle prese con problemi di alcolismo, vedova non proprio inconsolabile (di quel padre che Susan conoscerà appena, essendo morto quando lei aveva cinque anni), e risposatasi, infine, con un uomo che probabilmente non amerà mai fino in fondo, Nat Sontag, il cui contributo familiare più duraturo sarà, a conti fatti, solo il cognome (rispetto al precedente Rosenblatt).
Soprannominata “la Regina della negazione”, per via della sua abitudine a omettere, zittire, sviare, Mildred era completamente incapace di affrontare la vita se non piegandola al proprio castello di menzogne. Celebre l’equazione che utilizzava per giustificarsi agli occhi degli altri: “sincerità uguale crudeltà”.
Con Susan, il rapporto fu drammaticamente disfunzionale. Tanto all’inizio così simbiotico, quanto via via sempre più ingabbiante e anaffettivo. Consumatosi, giocoforza, in un allontanamento pieno di rancore. Anche per alcune scelte di Susan, più che mai osteggiate da una madre incapace di bastare a sé stessa. Come quella di sposare a 17 anni Philip Rieff, un professore dell’Università di Chicago (dove frattanto era andata a studiare contro il volere di Mildred), conosciuto appena una settimana prima e da cui, dopo aver avuto un figlio di nome David, sarà costretta a divorziare (1958). Negli anni in cui, ancorché giovanissima, si affermerà quale voce più rappresentativa della sua generazione. Tra le pubblicazioni che, immediatamente, la imporranno all’attenzione del grande pubblico ricordiamo l’opera d’esordio Contro l’interpretazione (1967), raccolta di scritti dedicata ai temi più disparati: dalle teorie sul “Camp”, in ambito artistico, alla vita e l’opera di autori come Albert Camus, Jean Genet e Cesare Pavese, tra gli altri.
Con lo scoppio della guerra in Vietnam Sontag diventa una scrittrice impegnata e celebre, si avvicina alle posizioni della sinistra radicale e realizza dei reportage dal fronte (Viaggio ad Hanoi, 1969) che ne fanno un riferimento per tutta la controcultura del periodo.
Più avanti, grazie alla relazione sentimentale con il poeta russo Josif Brodkij, prenderà le distanze da certi suoi convincimenti politici, come anche dall’esperimento socialista, fino al denunciarne tutte le storture in un evento alla Town Hall di New York il 2 febbraio 1982. Quella sarà ricordata come la “svolta liberale”. L’ennesimo tornante di una vita che, è il caso di dirlo, assomiglia ad un romanzo d’azione, tanto è ricca di colpi di scena e imprevisti. Ecco perché si vorrebbe centellinare il più possibile il contenuto di questo libro straordinario, con cui l’autore ha vinto il premio Pulitzer nel 2020. Per non guastare al lettore le tante scoperte che vi farà leggendolo.
Il merito della ricerca di Moser, la ragione ultima della sua eccezionalità, è di aver utilizzato gli archivi riservati della scrittrice (fino ad oggi mai presi in esame), intervistato familiari, amici, conoscenti e, soprattutto, chi ha trascorso con Sontag una parte importante della propria vita come la grande fotografa Annie Leibovitz, sua compagna per quasi vent’anni. Seppure insofferente all’utilizzo di etichette di comodo, vissute più come delle camicie di forza, il rapporto dell’autrice americana con la propria omosessualità è un’altra delle chiavi per comprenderne le contraddizioni. Dopo aver lungamente mentito a sé stessa (anche qui, sincerità uguale crudeltà), in un’epoca in cui gli omosessuali erano visti come dei pervertiti, venire a patti con il proprio rimosso è stato motivo sia di orgoglio che di conflitto interiore. Non a caso, ne farà menzione solo pochi anni prima di morire.
“il mio desiderio di scrivere è collegato alla mia omosessualità. Ho bisogno di questa identità come di un’arma, da contrapporre all’arma che la società usa contro di me. Ciò non giustifica la mia omosessualità. Ma mi accorderebbe una certa licenza. Essere omosessuale mi fa sentire più vulnerabile. Accresce il mio desiderio di nascondermi, di essere invisibile, che comunque ho sempre provato”.
Una situazione analoga a quella che proverà quando si ammalerà di cancro, verso la fine degli anni ’70. In questo caso il corpo, nella sua valenza più politica, si fa strumento di lotta attraverso cui, ancora una volta, opporsi. Sempre da una prospettiva impersonale, distaccata. Tuttavia, riuscendo ad essere ugualmente autentica. In Malattia come metafora (1978), senza dire una sola volta la parola ‘io’, Sontag si scaglia contro la vergogna e il senso di colpa imposti al malato dalla cultura occidentale che, anche grazie a questo lavoro, cambierà il modo in cui la realtà viene percepita. Cioè, quanto di più importante può fare uno scrittore, che non ha altri mezzi se non la forza della parola. Elias Canetti diceva che l’autore moderno, per essere tale, deve scontrarsi con l’epoca in cui vive. Susan Sontag non ha fatto altro (fino a quando non morirà di leucemia il 28 dicembre 2004). Senza l’ingombro di un protagonismo narcisistico e compiaciuto, si potrebbe aggiungere. E nel momento in cui lo diciamo, ovvero al tempo dei social media, l’ombra di una figura come la sua oscura ancora di più il deserto del nostro presente, ricordandoci, se mai ce n’era bisogno, di quanto manchi.
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