10 dicembre 2023

LA SPERANZA TRA FILOSOFIA E POESIA

 


“Autorizzare la speranza”: una lettura a più voci #1

[Per Interlinea è uscito un libro importante: Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale di Italo Testa. In questo saggio, a cavallo tra teoria della poesia e esemplificazione di poetica, l’autore mette a frutto la propria duplice esperienza di poeta e filosofo. Ne risulta un libro denso di riferimenti e riflessioni, che approfondisce in modo particolare il nesso tra genere poetico e utopia. Abbiamo invitato alcuni autori a realizzare una lettura di questo saggio. I primi due interventi sono di Vincenzo Bagnoli e Francesco Deotto. a. i.]

 

Dal’io al qui. Per Autorizzare la speranza

di Vincenzo Bagnoli

 

Autorizzare la speranza per me offre un robustissimo contributo a una possibile poetica contemporanea, per una serie di consonanze profonde e stratificate con le mie idee fondamentali; allievo di Guido Guglielmi e Niva Lorenzini, ho sempre sentito il bisogno di  motivare la mia scrittura con una «teoria del fare» che ne determinasse non tanto le modalità, quanto gli obiettivi possibili e i percorsi praticabili, le basi estetiche da cui muovere e una dinamica del dialogo con e attorno ai discorsi (e da questo punto di vista per me Roberto Roversi ha contato in particolar modo). Fin dal 1994, sul primo numero di «Versodove», avevo tentato quindi, con mezzi teoretici ancora acerbi e nettamente inferiori a quelli di Italo Testa, di elaborare una mia idea, che si richiamava al concetto di sguardo sul paesaggio (inteso come l’esperienza umana dell’ambiente), per suggerire la necessità di una radicale obliquità dello sguardo stesso (con allusione al «contropelo» di Benjamin): quella stessa obliquità che Italo, ponendosi propria volta il problema del «come guardare», chiama un «approccio obliquo al vero», richiamando la «suprema finzione» di Stevens, tale per cui «l’idea della poesia è una critica dell’idea di verità piuttosto che un’altra formula positiva per essa». Io collegavo questa obliquità alla figura retorica dell’eironeia; Italo in conclusione del suo volume ci ricorda poi che la poesia, per darsi, deve al tempo stesso essere una critica dell’idea di poesia.

Al centro del mio interesse c’era il concetto di parergon (la parte né dentro né fuori) come ciò che «dà luogo» all’opera, secondo Derrida: nella mia ottica un framing che non è solo cornice ma inquadratura, allargando però il concetto dalla questione meramente testuale a quella esistenziale e riferendomi a qualcosa che poi avrei definito,  con von Uexküll, la bolla cognitiva dell’animale uomo. Quello che cercavo confusamente di dire lo trovo spiegato molto bene in «Verso la X. Poesia e terzo paesaggio», paragrafo conclusivo del capitolo Futuro radicale. Dove ci viene ricordato che il significato è un evento e in quanto tale può essere solo, come diceva Stanley Fish «qualcosa che accade non sulla pagina, dove siamo soliti ricercarlo, ma nell’interazione tra il flusso dei caratteri della stampa (o dei suoni) e l’attiva coscienza mediatrice del lettore-ascoltatore». E prima ancora, questo Italo lo chiarisce perfettamente, nell’interazione tra il corpo e il mondo.

Questo intendevo a mia volta quanto sostenevo e ribadivo la necessità di passare dall’IO al QUI. E dove io mi rifacevo alle «mappe cognitive» di Fredric Jameson, Italo richiama l’«istanza di conoscenza»: «uno sforzo di mappatura del nostro luogo terreno, di misurazione del qui nella luce dell’altrove» (in «Metriche della felicità» ci ricorda che la poesia è inevitabilmente metrica, laddove il metro è proprio – etimologicamente – null’altro che misura).

In questa idea dell’altrove, ma in tutta la discussione anche sulla «giustizia poetica», ho ritrovato poi la mia convinzione che la poesia non dovesse essere intesa come utopia, ma come eterotopia: da qui ero partito, con scandagli teorici sull’Ariosto di Calvino, su Leopardi, su Porta e altri contemporanei per il mio saggio del 2003 su Lo spazio del testo.

Migliorati così i miei strumenti teorici, quindi, per «Materiali di Estetica» nel 2020 potevo dare una definizione più precisata, dove entra in gioco la questione del montaggio o, piuttosto e meglio, dell’assemblaggio come procedere ideale del fare poetico davanti alla riduzione in frantumi dell’esperienza: ciò che ritrovo, ancor meglio precisato sotto il profilo teoretico, in Individuazione senza riserve, laddove si affronta il tema del «ricostruire un senso dello stare al mondo» in un «mondo in frammenti»; e di nuovo nei «Futuri a rovescio», dove si parla del paesaggio come di uno «spazio ibrido» o «spazio di transizione», fra «interno ed esterno, concreto e astratto, natura e artificio» che «s’impone come il soggetto stesso dell’esperienza». Ed è questa idea dell’attraversamento che si rilancia nell’ultimo capitolo, Paesaggio in movimento, e che rilancia la «tessitura poetica» come ciò che, andando oltre l’opposizione figura/sfondo delle architetture verbali e affidandosi alla «concezione topografica figura/figura», rende l’individuazione non più il riconoscimento in un sistema di valori, ma un processo «fuso nel terreno dell’esperienza». Di nuovo un QUI che permette alla pratica, dell’agire, del fare (poièin) di darsi anche in assenza di legittimazioni esterne, quando «le strutture consolidate, le tradizioni si sfaldano».

Su «L’Ulisse» n. 18, in Landscape e soundscape: il ritmo del paesaggio io parlavo anche di una metrica nata dall’ascolto come «logica metonimica di contiguità-continuità sulla base della quale cerco di costruire un’immagine dell’esperienza come attraversamento/percorrimento (il fahren di Erfahrung)». E qui ritrovo l’Italo di «Camminare tra i fenomeni», dove è il ritmo dei passi a collegare la mente al mondo, citando di nuovo Wallace Stevens sull’uscire come modo per «realizzare un’apprensione del mondo con il corpo e del corpo con il mondo»: molto, molto vicino a quanto intendevo io citando invece un verso di Ian Curtis: «Let’s take a ride out, see what we can find».

Allo stesso modo nella sua attenzione per il «terzo paesaggio» come paesaggio ibrido, dove s’incontrano antropizzazione, periferizzazione e rinaturalizzazione, in ragione del rilievo antropologico che l’ambiente dell’esperienza ha, ritrovo la mia attenzione per quello che lui chiama «l’espansione e la contrazione siderale della cintura suburbana» della «città diffusa» nei poemetti di Soundcapes e (accompagnati dalle foto di Valeria Reggi) di Offscapes, dove davvero credo questi fenomeni si rivelino , come dice Italo, «frammenti di qualcosa di più vasto, altrettanti fenomeni in cui si manifesta un’approssimazione erosiva tra caso e progetto, natura e artificio», dove può darsi il processo di individuazione solo come un «riconoscere […] la nostra non differenza rispetto a essa [natura]». All’epoca dei miei primi passi poetici poco certo di un aspetto veritativo della poesia (al di là della dimostrazione della fallibilità delle immagini), oggi trovo nelle indicazioni di Italo una certezza.

 

Dalla parte del futuro radicale e dell’ibridità.

Note su Autorizzare la speranza

 

di Francesco Deotto

 

1.

Ancora poco studiato in quanto tale, il rapporto tra poesia e utopia può rivelarsi determinante per riflettere sulla poesia contemporanea, o quantomeno su diverse tra le sue espressioni più innovative. Basti pensare a un autore molto lontano dalle utopie classiche come Paul Celan, che nel Meridiano – in un passaggio che viene citato ben tre volte in Autorizzare la speranza – afferma che è «alla luce dell’U-topia»[1] (im Lichte der U-topie) che è possibile sviluppare una ricerca topologica che permetta di misurare (e quindi pensare e scrivere) l’umano e il mondo. Si osservi come non sia un caso che Celan utilizzi qui una grafia apparentemente eccentrica nello scrivere il termine utopia, con un trattino che al tempo stesso separa e unisce la iniziale dal resto della parola. Oltre a essere una scelta strettamente legata alla sua poetica (Donatella Di Cesare l’ha ad esempio associata all’idea di un «margine escatologico», con il trattino che corrisponderebbe a un «punto di inversione del respiro»[2]) questa scelta è anche indicativa di una particolare dialettica che caratterizza in generale l’utopia nell’ultimo secolo. Da un lato, dopo le catastrofi e i crimini del Novecento, è ormai improponibile riproporre forme tradizionali di utopia. O, meglio, succede ancora che ci sia chi si arrischia a proporre una descrizione minuziosa di un mondo ideale, ma è molto difficile che riesca a farlo senza produrre un risultato ingenuo e ridicolo. Al tempo stesso, l’esigenza di immaginare un mondo diverso, meno ingiusto e meno alienato, non è però meno impellente che nel passato, con diversi scrittori e poeti impegnati nella ricerca di nuove forme e nuovi concetti per farlo. In questo contesto, quanto mai frammentario, confuso e in via d’evoluzione, Autorizzare la speranza è un’opera che offre preziosi strumenti critici e di riflessione. Tra di essi vorrei soffermarmi soprattutto su due aspetti che mi sembrano particolarmente fecondi (quindi da discutere e da approfondire) per chiunque cerchi di orientarsi nel mondo della scrittura poetica (sia come attore/scrittore, che come lettore/spettatore, o da entrambe le posizioni): un certo carattere plurale e ibrido della poesia e dell’utopia contemporanee e l’idea di futuro radicale.

 

2.

Quest’ultima espressione, che costituisce sia la seconda parte del sottotitolo (“Giustizia poetica e futuro radicale”) di Autorizzare la speranza che il titolo della seconda sezione del volume, si situa in stretta continuità con la nozione di speranza radicale coniata da Jonathan Lear in un libro del 2006 che è ancora poco conosciuto in Italia: Radical Hope. Lear vi descrive la storia di Plenty Coups (1848-1932), l’ultimo capo indiano della tribù dei Crow, che pur trovandosi costretto a vivere l’esperienza della fine del proprio mondo non rinunciò a una forma di speranza («We shall get the good back, though at the moment we can have no more than a glimmer of what that might mean»[3]). Tanto Lear che Testa riconoscono una forte analogia tra la posizione di Plenty Coups e la nostra, trovandoci noi stessi in un momento storico di forte indeterminatezza, in cui tendono a venir meno i riferimenti tradizionali che rendevano intellegibile il modo di vivere delle precedenti generazioni. Se Lear si interessa soprattutto alle implicazioni etiche dell’esperienza di Plenty Coups, senza approfondire il ruolo della scrittura e della poesia, quest’ultima è invece precisamente al centro di Autorizzare la speranza, dove viene anche difesa l’ipotesi che la poesia abbia una specifica «capacità di futurazione», legata alla sua capacità «di stare dentro e fuori il mondo conosciuto, di sporgere per così dire dall’interno verso il mondo a venire, di intercettare la corrente sotterranea del mutamento che attraversa il presente»[4], secondo una prospettiva che viene ritrovata anche in Hölderlin e in Audre Lorde. Già queste indicazioni e questi riferimenti possono essere emblematici del carattere al tempo stesso complesso e cruciale delle questioni trattate in Autorizzare la speranza, ma per mettere ciò ancora più in evidenza vorrei suggerire la possibilità di riconoscere una continuità anche tra il volume di Testa e un saggio del 1913 di Mandel’štam intitolato Dell’interlocutore. Quest’ultimo è un poeta molto caro a Testa, che in Autorizzare la speranza in diverse occasioni ne cita un altro saggio, La parola e la cultura, del 1921, sottolineando l’attualità del poeta russo per pensare il nostro rapporto con la natura e la città. In un contesto storico in cui molti altri scrittori e filosofi erano legati a un’idea di città che ora ci sembra ingenua e superata, Mandel’štam, interessandosi alla presenza delle piante infestanti nelle citta («gli steli d’erba sulle strade di Pietroburgo») sarebbe invece riuscito a immaginare la possibilità di un nuovo rapporto con la natura, sorprendentemente vicino a quello che oggi è associato al cosiddetto terzo paesaggio. Per riflettere sull’idea di futuro radicale, Dell’interlocutore non è però meno significativo, poiché, proprio come in Autorizzare la speranza, anche in questo saggio di Mandel’štam la poesia è caratterizzata da un rapporto aperto e indeterminato col futuro. Per Mandel’štam in effetti ciò che distingue i poeti dagli scrittori è un diverso rapporto con i loro interlocutori, e se per uno scrittore l’essenziale è rivolgersi ai propri contemporanei, il poeta viene paragonato a un navigatore in difficoltà che getta nelle onde dell’oceano una bottiglia con un messaggio. Questa può trovare il proprio destinatario, ovvero qualcuno che la troverà e potrà leggerla, anche dopo secoli. Nelle parole di Mandel’štam, inoltre è proprio nella misura in cui la poesia ha un rapporto costitutivo con ciò che non conosce, e nel suo rivolgersi a ciò che non conosce, che essa ha una particolare forza conoscitiva: «aria della poesia è l’inatteso», «rivolgendoci al conosciuto, possiamo solo dire ciò che si conosce»[5]. Sempre leggendo insieme Testa e Mandel’štam, si può infine anche osservare come per entrambi il rapporto radicale col futuro non porti a dimenticare o a disprezzare il passato. In entrambi vi è anzi un continuo dialogo e confronto con esso, all’interno di una prospettiva secondo la quale non è strano che un testo proveniente da un passato remoto possa esserci più vicino di un testo recente.

 

3.

Passando al carattere plurale e ibrido dell’utopia e della poesia, per introdurlo vorrei invece richiamare un autore che non viene citato da Testa, ma che ha scritto diversi libri che sarebbe interessante rileggere alla luce di Autorizzare la speranza: Furio Jesi.  A proposito dell’utopia, ricordo in particolare un saggio del 1972 intitolato Eros e utopia e raccolto in Mitologie attorno all’Illuminismo, nel quale viene esposta un’idea che è al tempo stesso semplice e di grande efficacia. Jesi, commentando l’Aline e Valcour di Sade, descrive l’utopista come qualcuno che appartiene a due mondi. L’utopista, più precisamente, sarebbe una «creatura dalla doppia etnia, l’uomo dell’altro e di questo mondo»[6]. Alla luce di quanto abbiamo osservato a proposito della nozione di futuro radicale, si può allora avanzare l’ipotesi che ancora oggi l’utopista appartenga a due mondi, ma con delle modalità differenti rispetto al passato. Se ai tempi delle utopie classiche, l’appartenenza a entrambi i mondi implicava una conoscenza precisa del loro funzionamento, e la possibilità di descriverli minuziosamente, ora, nel contesto contemporaneo, il legame tra appartenenza e conoscenza è del tutto saltato, almeno nel caso di uno dei mondi a cui l’utopista appartiene, ma non per questo egli rinuncia a cercare di conoscerlo, attivandosi anzi nella ricerca di nuove forme di scrittura. Quest’ultimo aspetto mi permette allora di evidenziare anche il carattere ibrido di Autorizzare la speranza, ovvero il suo non essere un semplice testo teorico, ma un volume costituito anche da poemi (alcuni scritti dallo stesso Testa, altri da alcuni dei poeti da lui commentati) e da immagini fotografiche (alcune da lui stesso scattate, altre raffiguranti delle opere da lui commentate). Ebbene, nella misura in cui si tende spesso a considerare testi teorici, testi poetici e immagini come mondi separati (o quantomeno come modalità diverse di fare esperienza del nostro essere al mondo), anche il fatto di farli coabitare e dialogare è parte integrante della natura utopica di Autorizzare la speranza. In rapporto a quest’ultimo punto vorrei allora concludere osservando la stretta coerenza tra una simile forma ibrida di scrittura e l’attenzione che Testa rivolge al terzo paesaggio e al carattere ibrido del pianeta in cui viviamo, pieno di «spazi indecisi, privi di funzione […], e che, per la loro contingenza, la loro apertura e imprevedibilità, sono la matrice di uno spazio globale in divenire»[7]. Tanto nel caso di simili spazi che in quello di forme di scrittura che, come quella di Autorizzare la speranza, uniscono saggistica, poesia e immagini, il loro carattere ibrido contribuisce a rendere difficile la possibilità di prevedere con precisione ciò a cui porteranno. Ciò però è anche una delle ragioni che permettono di poterli associare all’idea di futuro radicale e che li rendono particolarmente interessanti, se non inaggirabili.

 

 

(settembre-ottobre 2023)

[1] P. Celan, Il meridiano, in La verità della poesia, a cura di G. Bevilacqua, Einaudi, Torino, 1993, p. 17.

[2] D. Di Cesare, Utopia del comprendere, Il melangolo, Genova, 2003, p. 319. In passo successivo del Meridiano Celan utilizza poi la stessa espressione scrivendo in modo tradizionale il termine utopia («alla luce dell’Utopia»). Ciò evidentemente rende ancora più significativa la scelta di averlo scritto con un trattino nel passo citato in Autorizzare la speranza.

[3] J. Lear, Radical Hope, Harvard University Press, Cambridge, 2006, p. 94.

[4] I. Testa, Autorizzare la speranza meridiano, Interlinea, Novara, 2023, p. 11-12.

[5] O. Mandel’štam, Dell’interlocutore, in Sulla poesia, traduzione di M. Olsoufieva, Bompiani, Milano, 2003, p. 59.

[6] F. Jesi, Mitologie attorno all’Illuminismo, Ed. di Comunità, Milano, 1972, p. 123.

[7] I. Testa, Autorizzare la speranza meridiano, Interlinea, Novara, 2023, p. 69.

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