Danilo Dolci ha lasciato questo mondo il 30 dicembre del 1997. Noi oggi lo vogliamo ricordare con le parole di Vincenzo Consolo. (fv)
Io
lo ricordo così
di Vincenzo Consolo
I libri di Danilo Dolci se li è
apparecchiati tutti sul tavolino del salotto, un ambiente luminosissimo.
Allineati in bell’ordine, con i post-it gialli infilati nelle pagine che a lui
parlano di più. Edizioni Einaudi, edizioni Sellerio, edizioni Mesogea, «una
delle poche belle realtà messinesi». Di fronte, sulla parete, un ritratto di
due ragazzi dall’autore impossibile, Pier Paolo Pasolini. Nella casa milanese
di Vincenzo Consolo c’è letteratura ovunque.
«Ho riletto Banditi a
Partinico e mi è venuta l’angoscia.
Angoscia a rileggere di quella
mortalità infantile. Bambini senza cure per le infezioni, bambini senza latte.
Ho riprovato la spinta a conoscere e a sapere che mi ha animato da ragazzo
nella mia Sicilia, quando a quelle letture mi si aprivano mondi che non
conoscevo. Io di Sant’Agata di Militello, zona non di feudi ma di piccola
proprietà contadina, provavo una grande curiosità di sapere tutto della Sicilia
occidentale. Andavo anche a Messina, certo, alla libreria D’Anna. Ma andavo con
uno spirito particolare alla libreria Flaccovio di Palermo, che aveva anche le
sue edizioni. Viaggiavo sempre in treno.
Un giorno andai a trovare
Danilo Dolci, un mito per molti di noi, era il ’55 o il 56. Mi accolse nel suo
studio e mi fece tantissime domande. Volle sapere dei miei studi, mi parlò di
Nomadelfia, la comunità fondata nel dopoguerra da don Zeno Saltini in Toscana,
vicino Grosseto, in cui lui aveva lavorato.
Io gli raccontai della mia vita
in università a Milano. Dei miei anni in piazza Sant’ Ambrogio, dove accanto
alla caserma della Celere c’era il Centro orientamento immigrati. Ci arrivavano
da ogni regione del sud per essere smistati verso il centro Europa: la
Svizzera, il Belgio, la Francia, mentre quelli che andavano in Germania
venivano smistati a Verona. Gliela descrissi, Sant’ Ambrogio, come allora
appariva a me. Una specie di piazza dei destini incrociati: meridionali i
poliziotti della Celere, meridionali le braccia in cerca di un lavoro in
fabbriche o miniere straniere. Gli parlai anche della signorina Colombo, la mia
padrona di casa, tutta vestita di nero e che si esprimeva sempre in dialetto.
Due sue nipoti erano scappate a Nomadelfia. E ovviamente questo lo incuriosì
molto. Dietro di sé, alle sue spalle, teneva un quadro particolare: una
lettera di minacce, l’immagine di una pistola da cui uscivano dei proiettili.
Gliel’aveva mandata la mafia e lui l’aveva incorniciata. Feci anche
amicizia con alcuni dei volontari che collaboravano con lui. Ricordo un
urbanista, in particolare. Si chiamava Carlo Doglio. Bolognese ma lavorava
all’Università di Palermo. Faceva l’assessore a Bagheria, era un militante del
Psiup. Dormii da lui una notte e al mattino, quando feci per uscire di casa, mi
tirò indietro per la camicia e mi ammoni a guardare bene a destra e a sinistra
prima di mettere fuori la faccia. Bagheria era così: il luogo delle ville
magnifiche dei nobili feudatari, villa Alliata e villa Palagonia, dove i
mafiosi cercavano di farsi strada a colpi di grandi speculazioni e di violenza.
Ci vedemmo ancora, anche perché
lui viaggiava molto per il mondo, faceva un’attività di conferenziere
intensissima.
Venne una volta a Milano. Si
era sposato con Vincenzina, che aveva già dei figli, lui ne ebbe altri ancora.
Ricordo che avevano dei nomi singolarissimi: Libera, Sole, Amico… Ci trovammo e
lui mi propose tutto un programma da realizzare per la Sicilia. Affascinante,
senz’altro. Ma io mi limitai ad andare a fare qualche conferenza, poi mi
arenai. In ogni caso Dolci riuscì a riunire intorno a sé bellissime persone.
Era il suo progetto che attirava, insieme al suo carisma. Già ho detto di
Doglio l’urbanista. Ma c’era anche Vincenzo Borruso, al quale rimasi molto
legato. Un medico d’avanguardia, palermitano, autore del primo libro-inchiesta
sull’aborto, L’aborto in Sicilia si chiamava. Storie di prezzemolo, storie di
morti assurde. Da lui andò a fare il volontario anche Goffredo Fofi, che
insegnava alle scuole elementari di Cortile Cascino a Palermo e poi lo
raggiunse a Partinico. Ricordo che aveva partecipato allo sciopero
all’incontrario, che era poi una delle invenzioni tipiche di Dolci: voleva dire
fare una strada o una trazzera non autorizzate. Fofi venne espulso dalla
Sicilia che aveva appena diciott’anni, con tanto di foglio di via obbliga
torio. Seminavano bene, i collaboratori di Dolci. Ricordo un incontro proprio
con Fofi a Palermo negli anni Ottanta. Credo che fossimo li per presentare
qualche libro. Fatto sta che ritrovammo al Papireto, al famoso mercatino delle
pulci C’era un negozietto di antiquariato, l’insegna portava un nome e Goffredo
esclamò: «Ma questo era mio alunno>> Girammo un po’ alla sua ricerca, e
alla fine arrivò un giovanotto che gli andò incontro abbracciandolo:
«Goffredo!». Era davvero lui, il suo alunno.
Dolci si distingueva per la sua
intelligenza. Acuta, lungimirante, nutrita della materialità delle cose che
faceva. Ricordo la sua distinzione tra potere e dominio, per esempio,
che era uno dei capisaldi della sua riflessione. Oppure quella, che sembra
fatta a pennello per i nostri tempi, tra comunicazione e trasmissione.
Temeva i meccanismi della trasmissione, di questo fiume di parole e concetti e
immagini che si muove in una direzione sola e che è in grado di istupidire un
popolo. Non è forse quello che sta succedendo oggi? Lui d’altronde segnalò i
problemi di Berlusconi appena il fondatore della Fininvest entrò in politica.
Credo che fosse un paio d’anni prima di morire. Scrisse che a carico di
Berlusconi c’erano fatti «molto gravi», «cose risapute anche dalla
magistratura». Lo si trova su Una rivoluzione non violenta, pubblicato
da Terre di mezzo.
Se dobbiamo considerarlo un
rivoluzionario? Be’, noi, e non solo noi, lo chiamavamo il Gandhi italiano.
Venivano persone da tutta Europa a conoscerlo, dormivano al centro studi, si
offrivano di lavorare con lui come volontari. Quando usci, Banditi a
Partinico suscitò un’ impressione enorme. Danilo conosceva la violenza del
potere, e di quello mafioso soprat-tutto. Restò sconvolto quando a Trappeto un
ragazzo di diciassette anni venne trovato morto in campagna “pezzi pezzi”, che
vuol dire fatto letteralmente a pezzetti. Gli avevano sparato e poi l’avevano
messo sui binari del treno, che lo aveva maciullato. Terribile, quest’uso
fraudolento e assassino dei binari mi ricorda la morte di Impastato. Fra
l’altro mi piace immaginare che qualcosa del lavoro di Dolci sia arrivato anche
a lui, al giovane Peppino, visto che da studente negli anni Sessanta
frequentava il liceo di Partinico e proprio li iniziò a partecipare alle
manifestazioni. si, diciamo che Danilo era un rivoluzionario costretto a
misurarsi non solo con la mafia ma anche con un altro potere repressivo, che
della mafia, soprattutto allora, non era certo nemico. Quello dello Stato.
La ricordo bene la famosa
triade della Sicilia repressiva di allora. Si componeva così: in testa c’era Mario
Scelba, il ministro degli Interni di Portella delle Ginestre; poi c’era il
prefetto di Palermo Angelo Vicari, che era del mio paese, Sant’Agata di
Militello; e poi c’era il cardinale Ruffini, uomo dell’Opus Dei e
ammiratore di Francisco Franco, il dittatore spagnolo. Anche lui aveva avuto a
che fare con Portella delle Ginestre, nel senso che era andato a trovare
Gaspare Pisciotta in carcere dopo l’omicidio a tradimento di Giuliano, e gli
aveva raccomandato di non parlare. Un “uomo del Signore” indimenticabile. Sosteneva
che le sciagure della Sicilia erano tre: il parlar di mafia, il Gattopardo,
tutte e due perché gettavano discredito sulla Sicilia. E infine, per la
medesima ragione, Danilo Dolci. Capito con chi aveva a che fare, Danilo?
Per questo subì ogni tipo di sanzione. Venne più volte condannato, e perse
anche qualche causa in tribunale per i suoi libri, lo ricordo perché pubblicava
con Einaudi, con cui collaboravo.
Una specie di persecuzione.
Che invece non avvenne con
Michele Pantaleone, un altro dei protagonisti dell’antimafia di quel periodo di
cui oggi non si parla più, e ingiustamente, visto che furono sue le prime
denunce circostanziate dei rapporti tra mafia e politica. Lui per i suoi libri
alla fine fu prosciolto dalle accuse; chissà, forse era meno inviso al potere
perché non faceva anche l’agitatore sociale. Scriveva ma non organizzava gli
scioperi all’incontrario o le lotte per la diga sul fiume Jato.
Quel che mi dispiace è che allora il Partito comunista abbia preso le
distanze da Dolci. Che, pacifista com’era, lo considerasse quasi un disturbo per il verbo e
la dottrina della rivoluzione. Assurdo, veramente assurdo. Perché Dolci era un segnale di luce,
in quel panorama, una grande speranza. Il mondo della sinistra intellettuale e
civile non di partito, naturalmente, ne aveva un’altra opinione. Ricordo un
bellissimo ritratto che ne fece Giuliana Saladino, grande giornalista dell’Ora,
in Terra di rapina. Ma anche Carlo Levi, che per la
Sicilia di quegli anni girò molto, gli dedicò grande attenzione. E ricordo che,
dopo il mio primo libro, mi capitò spesso di discutere con Sciascia
dell’importanza della presenza di Danilo in quel contesto faticosissimo. Come
dimenticare, d’altronde, quella straordinaria esperienza di Radio Sicilia
Libera di Partinico, con cui cercò di sfondare tra i primi il monopolio
dell’informazione radiotelevisiva, e per la quale pagò, di nuovo, prezzi
personali? In fondo Danilo era una specie di missionario laico, come forse lo
fu anche Pio La Torre. I suoi successori hanno nomi meno conosciuti, come
quel fratel Biagio di via Archirafi a Palermo, laico pure lui, che accoglie i
diseredati, o quel salesiano del Capo, don Baldassare. Oppure nomi assai più
conosciuti e non laici: quelli di padre Pino Puglisi o di don Luigi Ciotti, per
esempio.
Purtroppo il suo metodo di inchiesta sociale, il suo modo, diciamo così, di
essere sociologo, non ha fatto molta scuola. Ricordo un prete valdese, Tullio
Vinay si chiamava, che sull’esempio di Dolci era andato a Riesi, in
provincia di Caltanissetta, e aveva messo su una scuola tecnica per i ragazzi,
per poi mandare i migliori da Adriano Olivetti. E aveva pure fatto uscire le
donne dalle case in cui stavano rinchiuse dando vita a una cooperativa di
ricamatrici. Erano quegli stessi anni, i Cinquanta e i Sessanta. Vinay ne
scrisse anche un libro, Giorni a Riesi, mi sembra. Poi, dopo un
po’ di tempo, venne eletto in parlamento. Ma di altre esperienze analoghe non
mi viene in mente. Ed è un peccato.
Quanto c’era di siciliano in Danilo Dolci? Non mi sembra la domanda giusta,
o meglio, quella che ci aiuta a capirlo di più. Bisognerebbe chiedersi
piuttosto quanto c’era di intelligenza e di umanità. E poi, sul piano della
curiosità intellettuale, a me appassiona semmai un altro tema: quello dei figli
dei ferrovieri. Mi affascina questa categoria di intellettuali nati da
ferrovieri siciliani: Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, lo stesso Dolci. Ci
metto sopra d’istinto pure Pinelli, anche lui veniva dalla Sicilia.
Probabilmente lì, in quella storia sociale, i ferrovieri sono stati davvero
l’aristocrazia della classe operaia, la componente popolare e del mondo del
lavoro più consapevole.
Credo comunque che la storia di Danilo Dolci bisognerebbe metterla tutta in
fila per poterla capire veramente. Figlio di ferroviere, intanto, abbiamo
detto. Poi partecipa alla Resistenza, viene messo in carcere dai nazisti e
scappa, va a Nomadelfia da don Zeno Saltini, quindi va a Partinico. E li le
lotte sociali e quei bellissimi racconti di analfabeti e contadini scritti da
un intellettuale coltissimo, che conosceva la letteratura russa, ma anche
quella americana e quella tedesca, che scriveva poesie. E che aveva uno sguardo
profondo e capace di andare lontano. No, tipi così non ne nascono spesso».
a cura di Nando dalla Chiesa
Milano 2010
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