IL NEGRO E L'ALTRO SECONDO F. FANON
La sfortuna
dell’uomo di colore è d’essere stato reso schiavo. La sfortuna e l’inumanità
del bianco sono d’aver ucciso l’uomo. Ancora oggi la sfortuna d’entrambi
consiste nell’organizzare razionalmente questa disumanizzazione. Ma io, uomo di
colore, nella misura in cui mi diventa possibile esistere in assoluto, non ho
il diritto di confinarmi in un mondo di riparazioni retroattive.
Io, uomo di
colore, non voglio che una cosa: che mai lo strumento domini l’uomo. Che cessi
per sempre l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Vale a dire di me da
parte di un altro. Che mi sia permesso di scoprire e di volere l’uomo dovunque
si trovi.
Il negro non
esiste. Non più del bianco.
Tutti e due
debbono allontanarsi dalle strade inumane che furono quelle dei loro rispettivi
antenati, finchè nasca una autentica comunicazione. Prima di impegnarsi nel
senso positivo, la libertà deve fare uno sforzo di disalienazione. Un uomo, al
principio della vita, è sempre congestionato, affoga nel contingente. La
disgrazia dell’uomo è d’essere stato bambino.
E’
attraverso uno sforzo di ripresa su se stessi e di spogliamento, attraverso una
tensione permanente della loro libertà che gli uomini possono creare le
condizioni d’esistenza ideali d’un mondo umano.
Superiorità?
Inferiorità?
Perché non
cercare semplicemente di toccare l’Altro, di sentire l’Altro, di rivelare
l’Altro?
La mia
libertà non mi è dunque data per edificare il mondo del Tu?
Alla fine
dell’opera ci piacerebbe che si sentisse come noi l’aperta dimensione di ogni
coscienza.
Mia ultima
preghiera: “O mio corpo, fai sempre di me un uomo che si interroga”.
Da F. Fanon, Il negro e l’Altro, Il Saggiatore,
Milano, 1965
***
Il volto dell'altro. Lévinas
Intervista di Renato Parascandolo e
Sergio Benvenuto a Emmanuel Lévinas
Uno dei concetti più suggestivi del suo pensiero è
quello del "volto" come espressione di un'alterità assoluta e
inviolabile...
Su questo tema è avvenuta la mia rottura con
Heidegger. Era hitleriano e non ha colto il valore della dignità dell'uomo e
dell' altro. Ma io sono ebreo ed essere ebrei non significa soltanto
conoscere il Talmud, significa aver sofferto come un ebreo. È a questo che
bisogna arrivare. Aver sofferto come un ebreo. E di questa sofferenza una piccola
responsabilità è da attribuire a un certo Hitler...
Lei parla di bontà, di amore per
l'altro, ma si sa che in nome della bontà sono stati commessi atroci delitti,
che i buoni sentimenti hanno provocato spesso dei disastri.
Bisogna vedere come la si intende...Io faccio una differenza tra bene e bontà, tra un ideale di bene che può essere prescritto, che diventa ideologia, che diventa movimento politico e poi istituzione e questa bontà iniziale, debole, senza difesa, senza pensiero, in cui non c'è ancora una ideologia della bontà L'altro uomo non mi è indifferente, l'altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola "riguardare". In francese si dice che "mi riguarda" qualcosa di cui mi occupo, ma "regarder" significa anche "guardare in faccia" qualcosa, per prenderla in considerazione. Io chiamo appunto questa "apparizione" dell'altro, il volto umano. Il volto umano è la testimonianza non del trionfo istituzionale del bene, ma della possibilità del bene, della possibilità per l'uomo di essere buono verso l'altro uomo o piuttosto della possibilità di leggere sul volto dell'altro uomo la vocazione, il richiamo alla bontà. Per me questa è la parola di Dio. Io trovo Dio nell'etica, non ho alcuna altra idea di Dio valida. È qui che trovo il senso di qualcosa che interrompe bruscamente il corso delle cose: il fatto che l'uno si occupa dell'altro è il solo momento in cui c'è un'alterità totale, un'alterità che non rientra nell'ordine che io controllo, che non diventa mia. Anche il mio schiavo, in quanto uomo, mi sfugge e perciò è assolutamente altro. Trovo che nel momento in cui sento questa alterità come ordine muto, come comandamento, non dico che sia di Dio, ma certo non c'è parola più forte.
Da http://www.donatoromano.it/interviste/43.htm
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