Professava una fede
incrinata dai dubbi. Adorava la birra e le donne. Fu padre di
ventitré figli. Il grande compositore secondo John Eliot Gardiner
che lo ha diretto tutta la vita
Leonetta Bentivoglio
Bach, il genio che suonava il suo amore perduto
Suonare Bach è come tuffarsi in un paesaggio sottomarino di spettacolare bellezza, secondo John Eliot Gardiner. Offre questa metafora durante il nostro incontro a Udine, unica tappa italiana del suo tour europeo col Monteverdi Choir e l’English Baroque Soloists, magistrali ensemble da lui fondati. Famoso per le sue esecuzioni filologiche della musica barocca e celebrato interprete di tutto il repertorio classico, il direttore d’orchestra inglese invita a immaginare il contrasto fra «la percezione di chi galleggia sulla superficie dell’oceano, dove l’orizzonte è limitato a poche cose, terra, orizzonte, superficie del mare, e il modo in cui ci si sente quando ci s’inabissa, scoprendo una realtà ricca di tinte vivaci, banchi di pesci che passano, coralli e onde di anemoni».
Dirigere Bach equivale a
questo viaggio in una dimensione altra: «Mentre sull’acqua
sentiamo il sordo rumore della quotidianità, sotto ci si svela
l’inimitabile magia sonora bachiana, con la sua varietà di colori,
la nitidezza dei contorni, la profondità armonica e la fluidità dei
movimenti e i ritmi sottostanti».
Possiamo almeno in parte condividere quest’immersione grazie al monumentale volume che Gardiner ha dedicato a Bach, La musica nel castello del cielo (Einaudi). Nutrito da un’intensa prassi esecutiva e fondato su un solido progetto di correlazione fra la personalità di Bach e il suo pensiero musicale, il libro intreccia minuziosi quadri d’ambiente, lucide analisi di partiture e affondi psicologici nell’indole accesa e problematica del musicista tedesco, vissuto tra il 1685 e il 1750.
Radicandolo nel suo
contesto con una cura che testimonia il background di Gardiner,
laureato in Storia a Cambridge: «Bach è una creatura molto
specifica del proprio tempo e luogo», spiega. «La Germania dove
nacque, frammentata in piccoli stati, subiva l’onda lunga del
declino seguito alla guerra dei Trent’anni. Era riemerso l’influsso
di Lutero, e alla paura della morte s’univa quella della vita, con
l’angoscia causata da malattie e malnutrizione.
Plasmato da una scuola
dove s’insegnava ancora il sistema tolemaico, pre-copernicano e
pre-Galileo, il fenomeno Bach sboccia nel pieno del conflitto fra il
revival del luteranesimo e l’alba dell’Illuminismo. Fiorendo
all’interno di una famiglia di musicisti attivissima e ben inserita
socialmente, al punto che ad Eisenach, la città della Turingia dove
nacque Johann Sebastian, il nome Bach era sinonimo di musicista».
Bach in famiglia
Colpisce l’aspetto secolare e profano che lei sottolinea in Bach, noto soprattutto come autore di musica sacra.
«Non penso che in Bach
ci sia differenza tra sacro e profano. Che scrivesse i Concerti
Brandeburghesi o le Cantate del Caffè o quelle per la chiesa,
lavorava nell’ottica materica del più genuino mestiere
artigianale. Per lui la musica era un atto di culto, ma al tempo
stesso sono evidenti il suo humour e la sua passione per la vita.
Padre di 23 bambini, di cui 10 morirono prima dei tre anni, era un
uomo fisicissimo, che amava il cibo, la birra e le donne. Ed è
magnetico l’impulso alla danza nelle sue composizioni, nei Concerti
Brandeburghesi così come nelle Variazioni Goldberg, nelle Suite per
violoncello, nelle Sonate e Partite per violino e in alcune Cantate».
È come se lei volesse restituire all’uomo Bach una struggente imperfezione.
«Non posso dimostrarlo,
ma sono convinto che Bach avesse una fede incrinata dai dubbi, e se
così non fosse la sua musica non ci toccherebbe tanto. Come se ci
dicesse: so cosa provi quando perdi qualcuno che ami. Certe Cantate
sulla mortalità infantile usano campane acute simili a quelle
adottate nei funerali luterani, producendo un tintinnio sulla
superficie della musica intensamente evocativo che turba e commuove
anche gli atei».
Lei esprime l’idea di un Bach tormentato, ribelle e difficile da irreggimentare e contenere.
«Rimase orfano a nove
anni, destino che lo rese prematuramente responsabile di sé e solo
dal punto di vista affettivo. Ebbe tanti volti: fu devoto e
rivoluzionario, riflessivo e generoso di simpatia, sensibile alla
cruda fisicità della vita e proiettato in sfere ultraterrene.
Dovette confrontarsi spesso con committenti imprecisi o idioti.
Burocrati, preti e aristocratici pazzi come i Duchi di Weimar. A
Lipsia si sentì imbrogliato. Aveva esitato prima di lasciare Cöthen,
dov’era stato felice grazie a un principe che lo ammirava e
rispettava. Poi giunse l’occasione di andare come Cantor a Lipsia,
il miglior posto di lavoro a cui si potesse aspirare in Germania, e
lo accettò per far studiare bene i figli. Ma le condizioni non
furono quelle che gli erano state promesse e si trovò a lottare
contro norme che limitavano la sua creazione».
Reagiva facendo esplodere zone d’ira nei suoi brani.
«Non sopportava gli
ipocriti e i finti cristiani, i baciapile. La sua musica è pervasa
dalla collera. Si sente soprattutto nelle innumerevoli Cantate, che
doveva comporre velocemente, senza il tempo di soffermarsi e
correggere. Spontanee e impulsive, specchiano moti di rabbia o
delusione. Scrivendo le due Passioni o la Messa in Si minore invece,
poté revisionare, tornare indietro e cambiare. Non c’è il
medesimo, imperfetto bollore».
Lei, maestro, è cresciuto all’ombra dell’autentico ritratto del Cantor, dipinto da Haussmann nel 1748. E questa biografia di Bach diventa in parte anche la sua autobiografia.
«La mia intera vita è
impregnata da Bach, fin dagli ascolti e studi dell’infanzia. Quel
quadro entrò a casa nostra perché un insegnante di musica ebreo,
Waler Jenke, riparò in Inghilterra dalla Germania nel ‘36. Portò
con sé solo una chitarra e il ritratto che il nonno aveva comprato
per pochi spiccioli in un negozio di cianfrusaglie alcuni decenni
prima, ignorando quanto fosse prezioso. Jenke lo affidò ai miei
durante la guerra, e fu collocato su una parete del vecchio mulino
del Dorset dove sono nato nel ’43. Da bambino provavo a evitarne lo
sguardo severo. Ora il quadro è al Museo Bach di Lipsia, di cui sono
presidente. Ho potuto scrivere La musica nel castello del cielo anche
grazie a questo ruolo, che mi ha fatto accedere liberamente a tutta
la documentazione esistente su Bach».
Quali sono gli equivoci più diffusi nella visione di Bach?
«Lo si considera troppo
remoto. Un imparruccato, paffuto, noioso Kapellmeister. Un
inavvicinabile matematico della musica. Non è vero. Contano il suo
essere di carne e sangue, il suo vigore nel farci intendere la voce
divina in forma umana, il suo deliziarsi con la natura e il ritmo
delle stagioni, la sua travolgente sensualità, la sua fiducia nella
vita che accoglie ed esorcizza la morte».
La Repubblica – 9
febbraio 2016
John Eliot Gardiner
La musica nel castello
del cielo
Einaudi, 2016
euro 38
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