Ecco perché siamo tutti Don
Chisciotte
Juan Goytisolo
IN TERMINI generali,
gli scrittori si dividono in due gruppi: quelli che concepiscono il loro compito
come una carriera e quelli che lo vivono come una dipendenza. Chi rientra nella
prima categoria cura la propria promozione e visibilità mediatica, aspira al
successo. Chi rientra nella seconda, no. Fare il proprio dovere rispetto a se
stesso gli basta e se, come capita a volte, la dipendenza gli procura dei
benefici materiali, passa dalla condizione di dipendente a quella di
spacciatore o di rivenditore.
Chiamerò
quelli della prima classe letterati e quelli della seconda semplicemente
scrittori o più modestamente incurabili apprendisti scribacchini. Agli inizi
del mio lungo percorso, prima di letterato, poi di apprendista scribacchino,
incorsi nella vanagloria della ricerca del successo – attirare la luce dei
riflettori, "essere notizia", come dicono oscenamente i parassiti
della letteratura – senza riflettere sul fatto che una cosa è l'attualità
effimera e un'altra molto diversa la modernità senza tempo delle opere
destinate a durare nonostante l'ostracismo che spesso dovettero patire quando
furono scritte. La vecchiezza del nuovo si ripete nel corso del tempo con la
sua illusione di freschezza avvizzita. La dolce lusinga della fama sarebbe
patetica se non fosse semplicemente assurda. Estranea a qualsiasi manipolazione
o teatro di marionette, la vera opera d'arte non ha fretta: può dormire per
decenni o per secoli. Coloro che fecero calare il silenzio intorno al nostro
primo scrittore e lo condannarono all'anonimato in cui viveva fino alla
pubblicazione del Don Chisciotte non potevano nemmeno immaginare che la forza
del suo romanzo sarebbe loro sopravvissuta e avrebbe raggiunto una dimensione
senza frontiere né epoche.
«Porto in me
la coscienza della sconfitta come un vessillo di vittoria», scrive Fernando
Pessoa, e sono pienamente d'accordo con lui. Essere oggetto di lodi da parte
dell'istituzione letteraria mi porta a dubitare di me stesso, essere persona
non grata ai suoi occhi mi riconforta nella mia condotta e nel mio lavoro.
Dall'alto degli anni, sento l'accettazione del riconoscimento come un colpo di
spada nell'acqua, come un'inutile celebrazione. La mia condizione di uomo
libero conquistata a fatica invita alla modestia. Lo sguardo dalla periferia al
centro è più lucido di quello contrario e nell'evocare la lista dei miei
maestri condannati all'esilio e al silenzio dalle sentinelle del canone
nazionalcattolico devo almeno ricordare con malinconia la verità delle loro
critiche e la loro esemplare rettitudine. La luce scaturisce dal sottosuolo
quando meno la si aspetta.
La mia
istintiva riserva rispetto ai nazionalismi di ogni genere mi ha portato ad
abbracciare come un salvagente la nazionalità "cervantina"
rivendicata da Carlos Fuentes. Mi ci riconosco pienamente.
"Cervanteggiare" è avventurarsi nel territorio incerto dell'ignoto
con la testa coperta da un fragile elmo bacile. Dubitare dei dogmi e delle
presunte verità come pugni ci aiuta a eludere il dilemma in agguato tra
l'uniformità imposta dal fondamentalismo della tecnoscienza nel mondo
globalizzato di oggi e la prevedibile reazione violenta delle identità
religiose o ideologiche che sentono minacciati il loro credo e la propria
essenza. Invece di ostinarsi a disseppellire le povere ossa di Cervantes e di
commercializzarle forse di fronte al turismo come sante reliquie fabbricate
probabilmente in Cina, non sarebbe meglio riportare alla luce gli episodi
oscuri della sua vita dopo il suo laborioso riscatto da Algeri? Quanti lettori
del Don Chisciotte conoscono le ristrettezze e la miseria che patì, la sua
richiesta respinta di emigrare in America, i suoi affari falliti, la permanenza
nella prigione di Siviglia per debiti, la difficile sistemazione nel malfamato
quartiere del Rastro di Valladolid con moglie, figlia, sorella e nipote nel
1605, anno della Prima Parte del suo romanzo, ai margini più promiscui e bassi
della società?
Raggiungere
la vecchiaia è avere la conferma di quanto le nostre vite siano vacue ed
illusorie, quella "squisita merda della gloria" di cui parla Gabriel
García Márquez riferendosi alle inutili imprese del colonnello Aureliano
Buendía e dei rassegnati lottatori di Macondo. Il lieto giardino in cui si
svolge l'esistenza di una minoranza non deve distrarci dal destino della
maggioranza in un mondo in cui il portentoso progresso delle nuove tecnologie
corre accanto alla proliferazione delle guerre e delle lotte mortifere, nel
raggio infinito dell'ingiustizia, della povertà e della fame.
È impresa
dei cavalieri erranti, diceva Don Chisciotte , «raddrizzare i torti e andare in
soccorso dei miseri» e immagino l' hidalgo della Mancia in sella a Ronzinante
che si getta lancia in resta contro gli sbirri della Santa Confraternita che
procedono allo sgombero degli sfrattati, contro i corrotti dell'ingegneria
finanziaria o, traversando lo Stretto, ai piedi delle sbarre di Ceuta e Melilla
da lui visti come castelli incantati con ponti levatoi e torri merlate che
soccorre degli immigranti il cui unico delitto è il proprio istinto di vivere e
l'ansia di libertà.
Sì, per
l'eroe di Cervantes e per noi lettori toccati dalla grazia del suo romanzo è
difficile rassegnarsi all'esistenza di un mondo afflitto da disoccupazione,
corruzione, precarietà, crescenti disuguaglianze sociali ed esilio
professionale dei giovani come quello in cui attualmente viviamo. Se questa è
pazzia, accettiamola.
Il panorama
intorno a noi è oscuro: crisi economica, politica, sociale. Le ragioni per
indignarsi sono molteplici e lo scrittore non può ignorarle senza tradire se
stesso. Non si tratta di mettere la penna al servizio di una causa, per giusta
che sia, ma di introdurre il fermento contestatore nell'ambito della scrittura.
Inserire la trama romanzesca nello stampo di forme ripetute fino alla sazietà
condanna l'opera all'irrilevanza e ancora una volta, al crocevia, Cervantes ci
mostra la strada. La sua coscienza del tempo "divoratore e consumatore
delle cose", di cui parla nel magistrale capitolo IX della Prima Parte del
libro lo indusse ad anticiparlo e a servirsi dei generi letterari in voga come
materiale di demolizione per costruire un portentoso racconto di racconti che
si spiega all'infinito. Come dissi ormai parecchi anni fa, la pazzia di Alonso
Quijano sconvolto dalle sue letture contagia il suo creatore impazzito per i
poteri della letteratura. Tornare a Cervantes e assumere la pazzia del suo
personaggio come una forma superiore di lucidità, questa è la lezione del Don
Chisciotte.
Nel farlo
non evadiamo dalla realtà iniqua che ci circonda. Al contrario, vi mettiamo
saldamente i piedi. Diciamo ad alta voce che possiamo. Noi, contaminati dal
nostro primo scrittore, non ci rassegniamo all'ingiustizia.
In questi
tempi di disuguaglianza siamo cavalieri erranti che raddrizzano i torti
Traduzione
di Luis E. Moriones
©
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