I migliori genitori secondo Freud sono quelli consapevoli della loro
insufficienza. Perchè nel rapporto con i figli sbagliare è la norma.
Massimo Recalcati
L’importante è dare ai figli la loro libertà
Freud dava due notizie ai genitori. La prima, piuttosto disarmante, è
che si tratta di un mestiere impossibile. La seconda, che forse ci può
rincuorare, è che i migliori tra loro sono quelli consapevoli di questa
impossibilità.
Ma perché il mestiere del genitore sarebbe impossibile? Perché, come
mostra l’esperienza, non si può esercitare questa funzione se non in
modo sempre, più o meno, insufficiente, incerto. Nessuno può, infatti,
possedere la risposta infallibile su qual è il senso della vita, del
bene e del male, del giusto e dell’ingiusto.
Tutti noi ci barcameniamo alla meno peggio navigando a vista,
rinunciando alla favola della mano sicura che guida la vita dei figli.
Questo spiega anche perché i peggiori genitori sono invece quelli che
pensano di essere dei buoni genitori, o, peggio, di incarnarne il loro
modello ideale.
La psicoanalisi raccoglie sovente i cocci provocati da questo tipo di
genitori eccessivamente identificati alla loro funzione educativa.
Accadde, tra gli altri, al povero Schreber, presidente della Corte di
Appello di Lipsia, paranoico delirante, che dovette sopportare da
bambino il sadismo folle di un padre inventore di apparecchi educativi
finalizzati a correggere la scarsa forza di volontà dei suoi figli.
Affermare che il mestiere del genitore è impossibile significa che non
esistono manuali in grado di spiegare come si fa ad essere un genitore
sufficientemente buono. La credenza — al limite della superstizione —
del nostro tempo alimenta invece la fantasia che esistano ricette
predefinite e valide per tutti capaci di rendere le cure genitoriali
efficaci. Manuali che spiegano come regolare il sonno del proprio
bambino, il suo appetito, le sue facoltà cognitive, il suo temperamento,
il suo comportamento in generale. Manuali che spiegano come calibrare
nella giusta misura gratificazioni e frustrazioni, premi e punizioni,
affettività e normatività.
Non casualmente questo proliferare di un sapere educativo pret-à-porter
fiorisce proprio nel momento in cui si assiste al tramonto dell’autorità
simbolica in tutte le sue declinazioni, prima fra tutte quelle del
pater familias. Se il tempo del padre-padrone si è esaurito, bisogna
affidarsi a manuali dall’aspetto più democratico e ammantati da una
parvenza di scientificità per orientare con sicurezza la vita dei nostri
figli.
Ecco allora apparire un esercito di esperti specializzati sulla funzione
genitoriale che spiegano — di fronte al vuoto lasciato dal declino
(benedetto) dell’ideologia patriarcale — in che cosa consisterebbe la
“giusta” educazione. Una pletora di istruttori di genitori (solitamente,
a loro volta, genitori protagonisti di fallimenti) si prodiga
nell’elencare le regole che dovrebbero garantire un successo educativo.
Ma è questa la via per provare a reinventare un modello educativo
alternativo a quello che abbiamo ereditato dall’ideologia patriarcale e
ai fallimenti di quello libertario post ‘68? I migliori genitori, spiega
Freud, sono quelli consapevoli della loro insufficienza, ovvero quelli
che rifuggono da un sapere predefinito, standard. Quelli che sanno che
la sola cosa che conta nel rapporto coi figli è aver fatto loro segno
dell’amore, ovvero riconoscerli nella loro assoluta particolarità. Senza
questo riconoscimento la vita si ammala, si depotenzia, si disperde.
Quello che conta nel processo di umanizzazione della vita è avere fede
nel desiderio dei propri figli, donare loro la possibilità della
sconfitta e del fallimento, ma anche quella di rialzarsi, di ripartire
contando sul sostegno dei loro genitori.
Quello che conta è donare loro la libertà di essere diversi da come li
avremmo voluti; è lasciarli essere quello che sono. Sartre diceva che se
i genitori hanno delle attese sui figli i figli avranno dei destini e,
solitamente, assai infelici. Nessuna regola comportamentale può
compensare l’assenza del segno d’amore che sa riconoscere la
particolarità reale del figlio al di là di ogni sua rappresentazione
ideale.
La Repubblica – 29 gennaio 2016
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