«Se questa è vita»: scuola e università
1. La scuola raccontata
«Ora io mi chiedo se questa è vita. È
tutto distorto… Ah, buon Dio, se l’istituto volesse liberarci dal suo
amoroso abbraccio!»: nei Buddenbrook l’adolescente Kai si
lascia andare a questo sfogo mentre passeggia con l’amico Hanno durante
l’intervallo tra una lezione e l’altra: i due sono gli eccentrici, gli
artisti in erba della classe, peraltro diversissimi, il primo scrittore
volitivo, smanioso di affrontare la realtà, il secondo musicista
fragile, tendente invece a rifuggirla; ma per entrambi, come per i rudi
borghesi loro compagni, la scuola è una prigionia soffocante, gli
insegnanti zimbelli ridicoli, i programmi di studio un’inutile zavorra,
non stimolo ma intralcio alle aspirazioni che li animano.
Se si allarga lo sguardo, le cose non cambiano molto. Dai foschi collegi dickensiani, a quello militare dei Turbamenti del giovane Törless, dall’istituto Benjamenta dell’Jakob von Gunten di Walser che inibisce anziché guidare la formazione, agli istituti religiosi del Dedalus
joyciano (teatro di punizioni corporali e sermoni morali ancor più
traumatizzanti), fino ai licei descritti da Sartre, Beauvoir, Vittorini,
Bassani, malgrado le tante variazioni dei contesti, malgrado le tinte
più forti o più sfumate, il Leit-Motiv non cambia: la visione della scuola resta sempre negativa.
Beninteso, a livelli diversi di
complessità. Ad esempio, la critica si fa lancinante nei cosiddetti
“romanzi dell’adolescente”, in cui il racconto delle transizioni all’età
adulta filtra quello di altrettanto delicate transizioni storiche:
davanti all’inquieta precocità e alle divaricazioni sociali o razziali
dei ragazzi di Un anno di scuola di Stuparich minacciati dalla grande guerra, di quelli del Garofano rosso di Vittorini affascinati dal fascismo agli albori, di quelli della Trilogia del ritorno
di Uhlman stretti nella morsa del nazismo, l’istituzione scolastica
risulta vistosamente scricchiolante, drammaticamente inefficace. Ma
anche in opere di tutt’altro, ben più accomodante tenore, il quadro non è
tanto più armonico: persino gli amenissimi o edificanti classici per
l’infanzia riservano parecchie sorprese.
La tetralogia iniziata con Piccole donne
di Louisa Alcott prende le distanze dal sapere istituzionale, non solo
con il terzo e il quarto volume, che mettono in scena un collegio dai
metodi innovativi, ma ancor più con i primi due, in cui le quattro
sorelle coltivano un rapporto tutto autonomo e gioioso con la lettura e
con le arti. Nel Gianburrasca di Bertelli/Vamba né la famiglia,
né il collegio riescono a domare il ragazzino che smaschera
sistematicamente le ipocrisie della neonata società unitaria, e la loro
unica risorsa è chiuderlo in una casa di correzione. E la connivenza con
l’ingiustizia sociale della scuola di Cuore – in cui gli
alunni poveri siedono accanto ai ricchi ma senza godere dello stesso
trattamento, e il terribile Franti proviene da una realtà di terribile
miseria –, prima di essere derisa da Umberto Eco, è forse già avvertita
dallo scafato e poliedrico De Amicis, che se qui la ammanta di retorica
melensa, la raffigura più direttamente in altre opere: ad esempio La maestrina degli operai,
che ha come protagonista maschile una specie di Franti cresciuto, un
giovane fuorilegge per cui la scuola serale sarà inutile quanto quella
elementare per il suo omologo bambino.
Si dirà che d’altronde la finzione
artistica esalta spesso il valore della didattica, e non solo con omaggi
celeberrimi come quello di Dante a Brunetto Latini, ma con le stesse
opere moderne di ambientazione scolastica, in cui non mancano figure di
buoni maestri; maestri che però non attenuano la durezza del quadro
d’insieme (trasversale a culture e a concezioni dell’istruzione
disparatissime), e semmai contribuiscono a complicarlo. Intanto –
dall’illuminata Miss Temple di Jane Eyre fino agli affascinanti docenti di film di successo (da Goodbye Mr. Chips a Good morning Miss Dove, a quello che più si è impresso nel nostro immaginario, L’attimo fuggente)
– sono personaggi carismatici ma isolati, che non bastano a modificare
le istituzioni in cui agiscono; inoltre, come gli esempi citati già
evidenziano, sono appannaggio di una produzione ancora fondata su valori
morali netti, incarnano una visione più o meno consolatoria della
realtà.
continua su Between
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