03 febbraio 2016

SCUOLA E VITA



«Se questa è vita»: scuola e università

di Clotilde Bertoni

1. La scuola raccontata 

«Ora io mi chiedo se questa è vita. È tutto distorto… Ah, buon Dio, se l’istituto volesse liberarci dal suo amoroso abbraccio!»: nei Buddenbrook l’adolescente Kai si lascia andare a questo sfogo mentre passeggia con l’amico Hanno durante l’intervallo tra una lezione e l’altra: i due sono gli eccentrici, gli artisti in erba della classe, peraltro diversissimi, il primo scrittore volitivo, smanioso di affrontare la realtà, il secondo musicista fragile, tendente invece a rifuggirla; ma per entrambi, come per i rudi borghesi loro compagni, la scuola è una prigionia soffocante, gli insegnanti zimbelli ridicoli, i programmi di studio un’inutile zavorra, non stimolo ma intralcio alle aspirazioni che li animano.
Se si allarga lo sguardo, le cose non cambiano molto. Dai foschi collegi dickensiani, a quello militare dei Turbamenti del giovane Törless, dall’istituto Benjamenta dell’Jakob von Gunten di Walser che inibisce anziché guidare la formazione, agli istituti religiosi del Dedalus joyciano (teatro di punizioni corporali e sermoni morali ancor più traumatizzanti), fino ai licei descritti da Sartre, Beauvoir, Vittorini, Bassani, malgrado le tante variazioni dei contesti, malgrado le tinte più forti o più sfumate, il Leit-Motiv non cambia: la visione della scuola resta sempre negativa.
Beninteso, a livelli diversi di complessità. Ad esempio, la critica si fa lancinante nei cosiddetti “romanzi dell’adolescente”, in cui il racconto delle transizioni all’età adulta filtra quello di altrettanto delicate transizioni storiche: davanti all’inquieta precocità e alle divaricazioni sociali o razziali dei ragazzi di Un anno di scuola di Stuparich minacciati dalla grande guerra, di quelli del Garofano rosso di Vittorini affascinati dal fascismo agli albori, di quelli della Trilogia del ritorno di Uhlman stretti nella morsa del nazismo, l’istituzione scolastica risulta vistosamente scricchiolante, drammaticamente inefficace. Ma anche in opere di tutt’altro, ben più accomodante tenore, il quadro non è tanto più armonico: persino gli amenissimi o edificanti classici per l’infanzia riservano parecchie sorprese.
La tetralogia iniziata con Piccole donne di Louisa Alcott prende le distanze dal sapere istituzionale, non solo con il terzo e il quarto volume, che mettono in scena un collegio dai metodi innovativi, ma ancor più con i primi due, in cui le quattro sorelle coltivano un rapporto tutto autonomo e gioioso con la lettura e con le arti. Nel Gianburrasca di Bertelli/Vamba né la famiglia, né il collegio riescono a domare il ragazzino che smaschera sistematicamente le ipocrisie della neonata società unitaria, e la loro unica risorsa è chiuderlo in una casa di correzione. E la connivenza con l’ingiustizia sociale della scuola di Cuore – in cui gli alunni poveri siedono accanto ai ricchi ma senza godere dello stesso trattamento, e il terribile Franti proviene da una realtà di terribile miseria –, prima di essere derisa da Umberto Eco, è forse già avvertita dallo scafato e poliedrico De Amicis, che se qui la ammanta di retorica melensa, la raffigura più direttamente in altre opere: ad esempio La maestrina degli operai, che ha come protagonista maschile una specie di Franti cresciuto, un giovane fuorilegge per cui la scuola serale sarà inutile quanto quella elementare per il suo omologo bambino.
Si dirà che d’altronde la finzione artistica esalta spesso il valore della didattica, e non solo con omaggi celeberrimi come quello di Dante a Brunetto Latini, ma con le stesse opere moderne di ambientazione scolastica, in cui non mancano figure di buoni maestri; maestri che però non attenuano la durezza del quadro d’insieme (trasversale a culture e a concezioni dell’istruzione disparatissime), e semmai contribuiscono a complicarlo. Intanto – dall’illuminata Miss Temple di Jane Eyre fino agli affascinanti docenti di film di successo (da Goodbye Mr. Chips a Good morning Miss Dove, a quello che più si è impresso nel nostro immaginario, L’attimo fuggente) – sono personaggi carismatici ma isolati, che non bastano a modificare le istituzioni in cui agiscono; inoltre, come gli esempi citati già evidenziano, sono appannaggio di una produzione ancora fondata su valori morali netti, incarnano una visione più o meno consolatoria della realtà.
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