Pietro Citati
Copernico , visione e fallimento
Di John Banville,
nato in Irlanda nel 1945, il pubblico italiano conosce soprattutto
L’intoccabile , pubblicato nel 1997 (Guanda): un romanzo
straordinario, forse il più bel romanzo europeo degli ultimi
cinquant’anni; ricco, vasto, terribilmente comico, dominato da una
fantasia fiammeggiante e grottesca. All’inizio della propria
carriera Banville aveva scritto La notte di Keplero , La lettera di
Newton e La musica segreta , un bellissimo libro uscito in questi
giorni dall’editore Guanda (traduzione di Irene Abigail Piccinini).
Tutti e tre questi libri
sono dedicati ai protagonisti della rivoluzione cosmologica moderna:
quando l’Europa fu presa da una ispirata malattia, che aveva come
sintomi la cupidigia, una curiosità colossale, e una specie di
irresistibile allegria. L’eroe della Musica segreta è Nicolaus
Koppernigk.
Come è sua abitudine,
John Banville ricostruisce l’ambiente nel quale egli crebbe: il
porto di Torún, sulla Vistola, uno splendido caos assordante, con lo
stridore degli argani, le cantilene e le imprecazioni degli
scaricatori; la Polonia e la Germania del sedicesimo secolo, sovrani,
vescovi e studiosi di astronomia. Nel 1496 Copernico lasciò la
Polonia: raggiunse Bologna, con quella piatta aria immobile che gli
gravava pesantemente sui polmoni. Infine Roma, madida di paura: dove
si parlava di portenti e di prodigi; sangue pioveva dal cielo a
mezzogiorno, fragori di zoccoli soprannaturali scuotevano la notte,
misteriosi gridi riempivano l’aria.
Molti dicevano che era il regno dell’Anticristo, e che la fine era vicina. Il figlio del papa, Cesare Borgia, tornò vittorioso dalla Romagna, cavalcando in trionfo con il suo esercito per le strade di Roma in festa. Sembrava che il Signore delle Tenebre fosse venuto a farsi acclamare dalle folle in delirio. Dio era stato deposto: Rodolfo Borgia governava in sua vece. Copernico detestava Roma: gli ricordava un vecchio leone morente al sole, con la pelliccia fulva graffiata e puzzolente, sulla quale si moltiplicavano i pidocchi, in un ultimo carnevale convulso. Egli non si chiedeva se quella fosse la fine, o se un’ultima, terribile benedizione sarebbe stata impartita alla città e al mondo.
A Roma Copernico incontrò la filosofia ermetica, derivata dai misteriosi testi di Ermete Trismegisto, secondo i quali l’universo è un’ampia rete di azioni interdipendenti e simpatetiche. Apprese che, dopo la morte, gli uomini si sarebbero riuniti al Tutto: l’uomo spirituale, l’anima libera e splendente sarebbe ascesa attraverso le sette sfere di cristallo del firmamento, liberandosi a ogni sfera di una parte della sua natura mortale, fino a trovare piena redenzione nell’Empireo. Quando Copernico immaginava quell’anima fiammeggiante levitare verso l’alto, un’esultanza indicibile si impadroniva di lui.
Copernico ritornò in Polonia. Sulla torre di Heilsberg aveva un osservatorio. La sua stanza assomigliava più al covo di un alchimista che allo studio di uno scienziato moderno: come la trovò al suo ritorno, la scienza era ancora l’antica confusione di incantesimi e talismani e segni segreti. Lo studio era provvisto di ogni apparecchio che fosse di ausilio all’arte dell’astronomia: globi di rame e di bronzo, astrolabi, quadranti, il triquetrum più intricato, una rappresentazione dell’universo di squisita fattura, con sfere e bacchette d’oro.
In passato Copernico si era spesso rifugiato nella scienza per difendersi dall’orrore della vita, facendo di lei una specie di trastullo. Ora comprese che doveva essere una disciplina fredda e straziante da accettare consapevolmente, obbedendo alle sue regole. Inseguiva la cosa più profonda: il nocciolo, l’essenza, la verità. Obbediva alla faticosissima necessità di trovarsi a distanza ravvicinata dal mondo, di cui aveva bisogno: ma questo mondo non doveva contaminare le sue visioni, inquinando con la propria volgarità la purezza trascendente delle teorie celesti. Una volta si chiese se al fondo di tutto non ci fosse una forza selvaggia ribollente, la quale, torcendosi in oscure passioni, tutto produce, sia ciò che è grande sia ciò che è insignificante. Forse sotto ogni cosa si nascondeva un vuoto senza fondo, mai colmo. Allora, la vita non sarebbe stata altro che disperazione.
Copernico sapeva che Tolomeo, nell’ Almagesto , si era sbagliato, e che da allora la scienza dei pianeti era stata una vasta cospirazione per salvare i fenomeni. Pensava che il Sole, non la Terra, stesse al centro del mondo, e che il mondo fosse molto più vasto di quanto Tolomeo immaginasse. Il Sole era il centro di un universo immensamente espanso: la nota fondamentale della musica segreta. Dicendo, e scrivendo così, egli temeva di essere confutato, insultato, messo in ridicolo. Infatti i dotti del tempo lo insultarono: le persone comuni provavano dispiacere al fatto che la vecchia Terra fosse deposta e relegata nel buio del firmamento, saltellando e piroettando agli ordini di un muto e tirannico dio del fuoco.
Copernico venne invitato
a partecipare al Concilio Lateranense sulla riforma del calendario:
ma rifiutò, adducendo come scusa la convinzione che questa riforma
non andasse portata avanti senza aver prima determinato con maggior
precisione il moto del Sole e quello della Luna. Pensava che
l’astronomo è un cieco che, con la matematica come unico sostegno,
debba compiere un viaggio pericoloso e interminabile attraverso
innumerevoli luoghi desolati.
Per tutta la vita Copernico cercò di diventare se stesso, scoprendo il proprio io. Non sapeva per quale ragione, questo misterioso io gli era sempre sfuggito. La vita scorreva al di sopra di lui, in una corrente e, sotto la corrente, lui aspettava, senza sapere che cosa. Cominciò a soffrire di insonnia: spesso di notte si avventurava per la città, immergendo il cervello febbrile nella fredda aria notturna. Sentiva che l’intelletto lo dominava, rinchiudendolo in una sublimità asfissiante; e liberò in sé stesso l’uomo fisico, che per tutta la vita aveva atteso di essere liberato. I sensi avrebbero avuto il loro momento di gloria. Eppure, stranamente, il corpo liberato sembrò ignorare cosa fosse la libertà appena ritrovata .
Alla fine, Copernico ebbe la sensazione di svanire a poco a poco: il suo io fisico stava evaporando: diventava trasparente; era soltanto mente; una specie di grigia ameba fantasma, che vorticava silenziosamente nell’aria. C’era in lui una mancanza, che andava al di là del naturale distacco dello scienziato. Dietro le sue azioni e i suoi gesti, si estendeva una sottile corda tesa di inesprimibile angoscia, che si allungava nel nulla. A tratti, sentiva in sé una muta intensità e ferocia, che spaventava chi gli si avvicinava. Sembrava gravato da una conoscenza segreta e intollerabile, o da una sterminata innocenza, che si difendeva dal mondo degli uomini con un piccolo sogghigno grigio.
Con ferocia, violenza, istinto tragico, John Banville racconta in bellissime pagine la vita di Copernico negli ultimi anni: la sua paura di parlare, di scrivere, di pubblicare. Aveva cercato di intravedere «quella cosa, appassionata eppure calma, intensa e remota, favolosa eppure ordinaria, quella cosa che è tutto ciò che importa e il grande miracolo»: la musica segreta dell’universo. Ma non ci riuscì: tutto si perse in un grande fallimento. «Ho mancato in tutto quello che mi ero ripromesso di fare: discernere la verità, il significato delle cose», disse. Non gli restava che morire. Si ritrasse dal regno della vita: giaceva, ammasso informe di carne e sudore e muco, nel più primitivo e rudimentale stato dell’essere, come un oggetto quasi morto dal respiro impercettibile.
Il Corriere della sera –
26 febbraio 2016
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