Ideologie del corpo. Sesso, Genere e Potere (1)
di Raùl Zecca Castel
1 – Mito
È
parte costitutiva di un thesaurus mitografico pressoché universale
l’idea che alle origini del creato, in un tempo coevo o immediatamente
successivo all’atto cosmogonico, la natura umana fosse sessualmente
indifferenziata, o, almeno, che oltre al maschile e al femminile,
esistesse un essere qualitativamente androgino, che partecipasse dunque
sia del carattere maschile che di quello femminile. A titolo
esemplificativo, nel quadro di uno tra i vari miti d’origine fondativi
dell’immaginario occidentale, si pensi al racconto che Platone affida ad
Aristofane nel Simposio, dove il celebre commediografo greco
narra di primordiali tipi umani dotati di quattro braccia, quattro
gambe, due volti, due organi sessuali, e così via lungo la descrizione
di un essere morfologicamente bisessuale, successivamente diviso in due
metà complementari a colpi di saetta da Zeus, preoccupato da quella che
considerava una potenziale minaccia alla superiorità sua e degli dèi
tutti.
Altrettanto diffusa nel mito,
inoltre, sembra essere quella che Gabriella D’Agostino ha definito “una
situazione di diseguaglianza a favore del femminile ribaltatasi
successivamente a causa di un comportamento scorretto o incapace da
parte delle donne”[1]. Si ha qui l’irrompere sulla scena mitografica del tema della colpa [2]
– e del conseguente castigo – quale espediente ideologico per
legittimare la Storia: allo stesso tempo giustificazione ancestrale di
una gerarchia sociale fondata sulla subordinazione del femminile al
maschile e sorta di esorcismo nei confronti della paura che accompagna
il pensiero di un originario assetto ginecocratico della società.
Relativamente
a quest’ultimo aspetto, un altro mito classico, poi declinato in
diversi ambiti geografici e storici, accorre in nostro aiuto. Si tratta
del mito delle Amazzoni, donne guerriere che sia Omero che
Erodoto collocano ai margini delle terre civilizzate, oltre i confini
del mondo greco, “figure – afferma D. Bigalli – che abitano le zone
liminari, si insediano nei confini, denunciano la ambiguità della
frontiera, insieme baluardo, gesto di esclusione, e il luogo
dell’attraversamento, del passaggio”[3];
attraversamento e passaggio che non si realizzano esclusivamente lungo i
confini di mondi territoriali diversi e contrapposti, ma che
interessano soprattutto i confini rassicuranti delle identità di genere.
Ecco che l’amazzone esita su questa soglia pericolosa a metà strada tra
il maschile ed il femminile: priva di un seno (a-mazós), ella
si dedica al virile mestiere bellico, stretta in un’armatura da guerra
che ne cela, annullandola, l’identificazione sessuale. L’amazzone
rappresenta il simbolo di una sfida che costantemente rievoca e rinnova
“la consapevolezza della presenza di un arcaico femminile, terribile
soprattutto perché si esprime nell’assunzione, da parte delle donne, di
una funzione squisitamente maschile, quella guerriera; questa presenza,
che muove dagli abissi del tempo, è venuta delineando il quadro
dell’Ecumene classica, nella quale l’espansione ellenica assume insieme i
contorni di un processo di civilizzazione e di un processo di
sostituzione del regime maschile, patriarcale, a quello matriarcale,
dove l’amazzonismo, giusta la interpretazione bachofeniana, si vuole la
forma estrema della ginecocrazia”[4].
Allo
stesso modo, la trasposizione del mito amazzonico in terra d’America
associa la figura autorevole e minacciosa della donna combattente ad un
luogo ostile e in-definito come quello della foresta pluviale – foresta amazzonica,
per l’appunto -, densa di pericoli e misteri insondabili che assumono
da un lato le sembianze orrorifiche di una fauna mostruosa dedita a
pratiche antropofaghe, ma che dall’altro alimentano la leggenda di El Dorado, l’ambita città d’oro e diamanti. Ancora una volta, dunque, la figura sfuggente e ambigua della donna-uomo
che sovverte le presunte identità di ruolo stimola l’immaginario umano –
maschile – evocando allo stesso tempo le paure e i desideri più
reconditi. Per quanto la maggior parte delle volte il femminile venga
associato esclusivamente al polo negativo di ogni formulazione
dicotomica, tale ambivalenza trova ad ogni modo una sua spiegazione nel
fatto significativo per cui “nell’immaginario classico la figura del
popolo amazzonico si venisse a inserire in una costellazione di coppie
oppositive, a partire da quella fondamentale maschile/femminile, per
coniugarsi ad altre, quali giorno/notte, barbarie/civiltà, stabilità
dell’insediamento umano/nomadismo”[5]. A tal proposito risulterà proficuo il riferimento al saggio del 1974 di Sharry Ortner dall’eloquente titolo Is Female to Male as Nature is to Culture?[6].
In questo scritto, difatti, l’autrice osserva come sia comune a tutte
le culture l’idea per cui la donna è ritenuta più vicina alla natura di
quanto lo sia l’uomo. Ciò a causa delle funzioni riproduttive proprie
della fisiologia femminile che avrebbero imposto alla donna ruoli
sociali di ambito esclusivamente domestico, lasciando agli uomini la
possibilità di occuparsi della politica, qui intesa nella sua accezione più ampia di res publica.
Ecco allora che la varietà delle coppie oppositive più sopra menzionate
può ricondursi alla dicotomia fondamentale tra natura e cultura. Sempre
lungo tale prospettiva si colloca dunque anche il discorso di M.
Rosaldo[7]
che si esprime nella divisione tra privato e pubblico, dove il primo
definirebbe evidentemente il raggio d’azione delle donne ed il secondo
quello degli uomini. È a partire dalla constatazione di tale universale
associazione della donna alla natura e dell’uomo alla cultura, infine,
che secondo entrambe le autrici avrebbe origine la gerarchizzazione dei
sessi.
Un altro aspetto significativo
per il discorso che si viene qui delineando rispetto all’amazzone, ma
più in generale rispetto all’immagine simbolica di un corpo
monosessuato, androgino o sessualmente ambiguo, riguarda il tema del
travestimento. Per un verso, la pratica di abbigliarsi secondo i canoni
di riferimento del sesso opposto, in particolar modo per le donne, ha
storicamente assunto un valore che si potrebbe definire di tipo politico
in quanto costituiva ed organizzava un’occasione eversiva nei confronti
del nomos. Le donne andavano così ad occupare “uno spazio
altro, quello della liberazione e della fuga. La foresta, il mare, il
deserto, il monastero, la città, la corte, i luoghi della separazione
conclamata o del contratto, della solitudine o del consorzio civile,
assecondano questo processo di metamorfosi mutando anch’essi insieme
all’identità in movimento delle foemine masculiate”[8]. Si
rende di nuovo evidente, così, il forte nesso che unisce l’ambiguità
sessuale, ora espressa attraverso il sovvertimento delle regole
d’abbigliamento relative all’identità di genere, all’immagine del
transito, del passaggio, anche geografico. Introducendo una distinzione
tra il fenomeno del travestitismo temporaneo e quello permanente, G.
D’Agostino ha rilevato come nel primo, caratteristico di particolari
situazioni rituali, si attui una “sospensione circoscritta al tempo del
rito, dell’ordine biologico, sociale e culturale su cui una comunità
fonda il proprio equilibrio, che finisce con il ribadire l’identità tra
fatto biologico e fatto sociale”[9].
Così, l’assumere provvisoriamente le sembianze del sesso opposto
indossandone gli abiti ed accettandone il significato, costituirebbe in
questo caso un espediente sociale teso a confermare e rafforzare la
propria vera identità sessuale, oltre che a ribadire l’ordine
complessivo dell’esistente. Di contro, nel travestitismo permanente,
tale dimensione sospensoria dell’ordine biologico e cosmico si traduce
in una condizione definitiva che trova il suo scopo nell’affermazione di
una nuova identità personale e che, parallelamente, attua una
sovversione dell’ordine politico prestabilito.
Per
altro verso, il travestitismo rimanda a quella concezione
mitico-religiosa del corpo ermafrodito tipica delle speculazioni
cosmogoniche cui si faceva più sopra riferimento e che evoca la
dimensione del divino quale perfezione assoluta, intesa etimologicamente nei termini di ciò-che-è-compiuto,
completato, o meglio, che ha raggiunto il suo scopo: in questo caso la
presunta unione primordiale del maschile e del femminile, quell’unione
così idealmente pericolosa agli occhi di Zeus. Rispetto alle diverse
forme di travestimento rituale, dunque temporaneo, lo storico delle
religioni Mircea Eliade ha scritto che la loro funzione consiste infatti
nel “ripristinare una situazione originaria, trans-umana e
trans-storica perché anteriore alla costituzione della società umana […]
onde restaurare, anche per un solo istante, la totalità iniziale, la
sorgente intatta della sacralità e della potenza”[10].
Non a caso, simbolo per eccellenza del travestimento, è la maschera.
Questa, lungi dal ridursi semplicemente all’accezione negativa del
termine quale sinonimo di nascondere ed occultare, esprime invece, come
ha avuto modo di osservare Károly Kerényi, il segno arcaico della soglia
tra natura e cultura: evocando il pre-umano evoca il divino[11].
All’interno
del quadro concettuale del travestitismo e più in generale
dell’ambiguità androgina quale indizio della perduta unità divina può
essere significativo anticipare ora come nella tradizione indigena
nordamericana la figura del travestito omosessuale (berdache)
goda di uno status sociale particolarmente beneficiato in quanto la sua
condizione ambivalente – maschile e femminile – è ritenuta espressione
di un’umanità superiore, più vicina all’essenza degli dèi[12].
Ciò
che preme qui mostrare, infine, è che l’idea di una sessualità umana
ambigua, difficilmente riconducibile al paradigma binario del maschile e
del femminile, ha attraversato i tempi e le culture, incarnandosi non
solo nei più diversi miti d’origine e nelle varie leggende
storiografiche, ma anche nel pensiero scientifico, specialmente in campo
medico, e, ben più concretamente, in alcuni resoconti etnografici
divenuti ormai celebri per aver dato luogo ad accesi dibattiti tra e
biologi ed antropologi.
1.1 – Scienza
In un noto saggio di Thomas Laqueur dato alle stampe nel 1990 e intitolato Making Sex: Body and Gender from Greeks to Freud[13],
il sessuologo americano ha inteso ripercorre la storia relativa al
mutamento della rappresentazione del corpo e della sessualità in
Occidente a partire dalla Grecia antica sino al diciottesimo secolo,
quando, a tal proposito, si sarebbe verificato un radicale cambiamento
di paradigma: se fino a questo momento vigeva difatti una concezione del
corpo che Laqueur ha definito come one-sex model, vale a dire
come di un corpo anatomicamente monosessuato, che trovava le sue radici
teoriche da un lato nella filosofia aristotelica e dall’altro nella
medicina galenica, ora si imponeva invece la nuova visione di un corpo
bisessuale – two-sex model -, che si appropriava della teoria dimorfistica come di un’arma ideologico-clinica contro le deviazioni
della presunta natura umana. Si veda qui l’indagine circa la figura
dell’ermafrodita condotta da Foucault rispetto proprio all’avvento di
una scienza del corpo quale dispositivo politico-giuridico: “gli
ermafroditi furono dei criminali, o dei figli del crimine, poiché la
loro disposizione anatomica, il loro stesso essere confondeva la legge
che distingueva i sessi e prescriveva la loro unione”[14]. Come dimostrano le strane confessioni
di Herculine Barbin, le conseguenze di tale prospettiva sono
inevitabilmente traumatiche e talvolta anche drammatiche, tanto da
trovare, in questo caso, i loro ultimi effetti in un tragico suicidio.
Sempre Foucault ha notato come solo una lettura mitica del
proprio destino abbia in qualche modo consolato la tormentata
adolescenza di Herculine per oscillare continuamente “tra uno stato di
immedicabile scoramento e l’orgogliosa affermazione della preminenza
connessa a una duplice e perciò più ricca e privilegiata natura. […]
diversità che è al tempo stesso destino e elezione […], oscura
reminiscenza della sferica perfezione dell’essere primordiale che,
riunendo in sé i caratteri e le facoltà dell’uomo e della donna, aveva
nel cosmo una posizione di semindivina autorità e potenza”[15].
Nel merito del discorso circa il valore ideologico che sottende qualsivoglia espressione concettuale (sapere-potere),
è significativo notare come già con Galeno (129 – 216), nonostante
l’idea di un corpo sostanzialmente monosessuato, fosse comunque in atto
una forte discriminazione gerarchica tra il maschile ed il femminile. Si
fa riferimento qui alla tesi per cui la donna fosse un uomo mancato, vale a dire un corpo imperfetto. Sulla scorta della teoria tetraumorale formulata da Ippocrate, Galeno postulò che fosse una minore presenza di calore vitale
la causa della non fuoriuscita del pene nelle donne. Questo perché
l’anatomia umana era intesa in termini di unicità sessuale, dunque la
differenza tra il corpo femminile e quello maschile consisteva
unicamente nel fatto che il primo era il rovescio, l’inversione, del
secondo. Di qui la logica possibilità per le donne che per via di
qualche movimento eccessivamente energico o calorico si
verificasse l’insorgenza dei genitali maschili. Possibilità avvalorata
peraltro da due testimoni d’eccellenza come il chirurgo Ambroise Paré e
il filosofo Michel de Montaigne, i quali riportano – quest’ultimo nel
suo Journal de voyage – il caso di tale Marie improvvisamente
divenuta Manuel. Ancora in epoca tardo-rinascimentale, dunque, vigeva
una rappresentazione sessuale del corpo di tipo unitaria, ma
soprattutto, come dimostra l’esempio appena accennato, si riteneva che
il genere potesse agire un forte influsso sul sesso, tanto che agli
uomini e alle donne era richiesto di prestare molta attenzione alle
proprie attitudini e al proprio stile di vita, al fine che si
conformassero il più possibile con quelli che erano ritenuti i
rispettivi codici di comportamento ideale previsti dalla società del
tempo. A ragione Massimo Rizzardini scrive che “di fronte al rischio di
un’identità in perenne movimento, almeno fino al 1600 era fondamentale
esercitare un controllo sul genere a garanzia del mantenimento di un
ordine sociale prestabilito. La politica dei ruoli investiva di
conseguenza la sfera della sessualità”[16].
È
perciò ancora una volta evidente come non solo il mito, ma anche il
pensiero filosofico-scientifico, facciano parte di un più vasto sistema
ideologico funzionale alla Storia, teso a legittimarne, più o meno
implicitamente, l’ordine arbitrariamente gerarchico e discriminatorio
che, fino ad oggi, ne ha scandito il ritmo e il destino.
1.2 – Etnografia
Che
la rappresentazione del corpo e della sessualità risulti variabile e
mutevole a seconda dei diversi contesti culturali è un concetto
antropologico ormai acquisito, anche se comunemente ancora troppo spesso
trascurato, almeno per quanto riguarda le implicazioni filosofiche che
ne procura l’emergenza e che inviterebbero a riflessioni molto più
profonde e problematiche sia rispetto al tema generale dell’adeguatezza e
della validità dei vari metodi relativi all’indagine gnoseologica,
dunque riguardo alla questione circa la condizione di possibilità della
stessa, che rispetto alla tema particolare, nonché qui di nostro
interesse, dell’assenza di un universale umano, di una natura
umana data. Come hanno documentato i casi etnografici che ci apprestiamo
a menzionare, il significato che il corpo e la sessualità rivestono, o
hanno rivestito, al di fuori della cultura occidentale sono estremamente
rivelativi a proposito della riflessione qui in corso.
È
così che tra gli Inuit dell’Artico vige la credenza per cui ogni nuovo
nato è la reincarnazione dell’anima di un progenitore. Spetta allo
sciamano il compito di annunciarne pubblicamente l’identità affinché
l’individuo sia allevato in conformità a tale rivelazione. Non è cosa
insolita dunque che un bambino anatomicamente maschio venga vestito con
abiti femminili ed educato a comportarsi secondo i principi ed i valori
che sono ritenuti propri delle donne. Viceversa per una bambina la cui
anima si crede appartenga ad un antenato maschio. È dunque evidente come
in tale sistema culturale non sia la biologia a determinare l’identità
di genere dell’individuo quanto piuttosto una concezione della
metempsicosi significativamente profonda ed incisiva. Il fatto che una
volta raggiunta l’età puberale gli individui debbano provvedere ad
assecondare il loro sesso biologico riadattando il proprio ruolo di
genere alla ritrovata identità anatomica, non toglie che la questione
del rapporto sesso-genere, così come vissuta tra gli Inuit, stimoli una
più ampia riflessione sui temi della natura e della cultura. A maggior
ragione se si tiene conto, come dimostrato dalle ricerche condotte da
Bernard Saladin d’Anglure presso le popolazioni Inuit, che taluni
individui, detti sipinik, non accetteranno di riadeguare il
proprio stile di vita al sesso biologico che è loro peculiare e
continueranno così la loro esistenza nei panni del progenitore
reincarnato.
A parte il caso dei sipinik,
tuttavia, l’omosessualità non è pratica comune tra gli Inuit. Al
contrario: “il sesso biologico è associato alla riproduzione e al
matrimonio, e pertanto all’eterosessualità”[17].
Non è così invece per molte popolazioni indigene che abitano le diverse
isole della Melanesia. Qui, infatti, è diffusa la credenza che la
responsabilità del sesso, del genere e del carattere degli individui sia
da ascrivere a una serie di sostanze corporee quali soprattutto il
sangue e lo sperma. Così, tra i Bimin-Kuskusmin della Nuova Guinea, “lo
sperma maschile, i fluidi fertili femminili e il sangue mestruale
formano gli elementi basilari con cui si costruisce l’essenziale natura
psicobiologica della persona. Il genere è una parte invariabile di
questa costruzione. La natura dei maschi e delle femmine si differenzia
non soltanto in relazione alle caratteristiche morfologiche, ma anche in
relazione alle capacità di ricevere, trasformare e trasmettere le
sostanze stesse che li formano, così come di raggiungere equilibri
distinti tra queste sostanze”[18].
Lo sperma in particolare è ritenuto veicolo privilegiato al fine di
trasmettere la virilità alle generazioni più giovani da parte di quelle
più anziane. Il ricorso alla fellatio omosessuale e la
successiva inseminazione orale, dunque, è una consuetudine tesa a
sancire la formazione della mascolinità. Per tale motivo, l’età più
propizia è considerata quella che va dalla tarda infanzia sino alla
pubertà. Tra i Sambia, popolazione papuense studiata da G. Herdt, la
pratica dell’inseminazione orale ha inizio intorno ai sette anni e si
protrae fino ai quattordici-quindici, età che segna il passaggio alla
vita adulta. Da questo momento, i maggiori di quindici anni, ormai
uomini, potranno a loro volta dedicarsi ad iniziare alla mascolinità i
più giovani; almeno finché non prenderanno moglie ed avranno dei figli.
Dopodiché le relazioni omosessuali saranno loro interdette. Alla stregua
dei sipinik inuit, tuttavia, alcuni individui continueranno a prediligere i giovani maschi alle donne[19].
Per
concludere, innumerevoli comunità indigene del Nord America hanno
contato – e in alcuni casi continuano a contare ancora oggi – sulla
presenza di una figura dall’ambigua identità di genere che è stata
sommariamente definita con il termine di berdache, dal francese bardache (omosessuale passivo). Nota anche come due-spiriti o uomini-donna, si tratta, nella maggior parte dei casi[20],
di individui che dal punto di vista anatomico dovrebbero appartenere
alla categoria maschile, ma che, assecondando una diversa inclinazione
psicologica, indossano abiti femminili e, con sufficiente
approssimazione, svolgono mansioni che ad essi si confanno. Con
sufficiente approssimazione, si diceva, poiché molto spesso, in realtà,
la figura del berdache è interpretata quale espressione di uno
status privilegiato: se per un verso non è né uomo né donna, per un
altro è qualcosa di più sia dell’uno che dell’altra. Viene a
configurarsi così per il berdache la peculiarità di riunire in sé qualità e virtù che gli consentono di accedere a ruoli straordinari e di grande prestigio[21] preclusi al resto degli individui della comunità.
I
tre casi qui passati in rassegna, per quanto rappresentino validi
esempi etnografici circa il carattere di costruzione socio-culturale
dell’identità di genere, screditando così l’assunto principe del
determinismo biologico per il quale il genere non sarebbe altro che una
diretta conseguenza del sesso anatomico, lasciano tuttavia integra la
teoria del dimorfismo sessuale. Resiste ancora, in qualche modo, l’idea
che effettivamente viga una natura binaria del sesso anatomico.
Paradossalmente, le specificità culturali appena sopra menzionate, ne
costituirebbero in ultima analisi un’ulteriore prova, confermandone la verità. La nozione di “terzo sesso”, utilizzata di frequente per riferirsi ai trasgressori di genere[22], ed impiegata anche in riferimento al caso degli Inuit così come a quello del berdache
indigeno nordamericano, non risulta perciò del tutto corretta. Ciò
proprio per il fatto che il discorso è relativo al genere e non al
presunto dato biologico, il sesso anatomico, che invece non viene messo
in discussione. A titolo esemplificativo valgano qui le parole con cui
H. Whitehead si è espressa rispetto a tale questione in merito al berdache
nordamericano: “Nella maggior parte del continente, non si riteneva che
il ‘parte-uomo, parte-donna’ fosse donna nelle ‘parti’ fisiologiche né
che fosse costretto a fingerlo. Era sufficiente che facesse ciò che
facevano le donne riguardo a occupazione, abbigliamento e contegno. Ciò
determinava la componente femminile della sua identità proprio come
l’anatomia determinava quella maschile e la mescolanza delle due
dimensioni dava origine al suo status speciale”[23].
La seconda parte di questo articolo sarà pubblicata il prossimo 6 febbraio
Testo ripreso da http://www.carmillaonline.com/2016/02/03/ideologie-del-corpo-sesso-genere-e-potere/
Note
[1] D’AGOSTINO, G., Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, Sesso e genere. L’identità maschile e femminile, Sellerio, Palermo, 2000, p. 13.
[2] Sul tema generale dell’individuazione nei termini di colpa cfr. CARBONE, M. et al., Divenire innocente, Mimesis, Milano, 2006.
[3] BIGALLI, D. et al., Amazzoni, sante, ninfe. Variazioni di storia delle idee dall’antichità al Rinascimento, Cortina, Milano, 2006, p. 4.
[4] Ivi, p. 6
[5] Ivi, p. 7
[6] ORTNER, S., “Is female to male as nature is to culture?”, in ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972, pp. 67-87.
[7] ROSALDO, M. Z., “Woman, Culture and Society: a Theoretical Overview”. In ROSALDO, M. Z. et al., Woman, Culture and Society, Stanford University Press, Stanford, 1972.
[8] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in BIGALLI, D. et al., op. cit., p. 121.
[9] D’AGOSTINO. G, Introduzione, in ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 16.
[10] ELIADE, M., Mefistofele e l’androgine, Mediterranee, Roma, 1989, p. 103.
[11] Cfr. KERÉNYI, K., Miti e maschere, Einaudi, Torino, 1950.
[12] Vedi paragrafo 1.3.
[13] LAQUEUR, T., L’identità sessuale dai Greci a Freud, Laterza, Bari, 1992.
[14] FOUCAULT, M., Storia della sessualità. Vol. 1: La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 38.
[15] FOUCAULT, M., Nota introduttiva, HERCULINE, B., Una strane confessione. Memorie di un ermafrodito presentate da Michel Foucault, Einaudi, Torino, 2007, pp. XI-XII.
[16] RIZZARDINI, M., “Dietro la maschera. Simbolo e metafora della donna mascoliata”, in op. cit., p. 125.
[17] BUSONI, M., Genere, sesso, cultura. Uno sguardo antropologico, Carocci, Roma, 2000, p. 23.
[18]
POOLE, F. J. P., “La trasformazione della donna ‘naturale’. I capi
rituali femminili e l’ideologia di genere presso i Bimin-Kuskusmin”, in
ORTNER, S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 251.
[19] Cfr. HERDT, G. & STOLLER. R. J., Intimate communications: erotics and the study of culture, New York, Columbia University Press, 1990.
[20] In realtà non è una questione di statistica, quanto di status: “In gran parte del Nord America, non vi era una controparte femminile riconosciuta del berdache
maschio. Eppure non sembra che le donne disposte e capaci di
attraversare i confini sessuali siano state di numero limitato”,
WHITEHEAD, H., “L’arco e la cinghia del fardello. Uno sguardo sulla
omosessualità istituzionalizzata nel Nord America indigeno”, in ORTNER,
S. B. & WHITEHEAD, op. cit., p. 187.
[21]
“[…] come mediatore matrimoniale, mago in affari d’amore o guaritore di
malattie veneree […] capo della sua casa natale, dal momento che la
famiglia nutriva l’idea che la sua presenza garantisse loro ricchezza
[…] Si riferisce anche di funzioni rituali specializzate, come il taglio
di un particolare palo di tenda rituale (Crow), o officiare alle danze
degli scalpi (Papago e Cheyenne)”, ivi, p.185.
[22]
Nell’accezione etimologica di “passare” e “attraversare” il genere cui
fa riferimento H. Whitehead, dunque priva di connotazione morale. Cfr.
ivi, p. 178.
[23] Ivi, p. 187.
[15] Ivi, p. 26.
[16] Ivi, p. 16.
[17] Ivi, p. 36.
[18] Ivi, p. 94.
[19] Sul concetto di pratica di vita si rimanda a SINI, C., Gli abiti, le pratiche, i saperi, Jaca Book, Milano, 1996.
[20] NICHOLSON, L. op. cit., p 46.
[21] Cfr. GEERTZ, C., “Dal punto di vista dei nativi: sulla natura della comprensione antropologica”, in GEERTZ, C., Antropologia interpretativa, Mulino, Bologna, 1988, pp. 71-90.
[22] BEAUVOIR, S., Il secondo sesso, Saggiatore, Milano, 2008.
Bibliografia (valida per entrambe le parti del saggio: Prima e Seconda)
Testo tratto da: http://www.carmillaonline.com/2016/02/06/ideologie-del-corpo-sesso-genere-e-potere-
II Parte
2 – Sesso è genere
La speculazione circa le questioni di genere portate avanti e dal movimento femminista e, più in generale, da quello LGBT
(Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender) muove, secondo la tesi che qui
si vuole sostenere, da una formulazione concettuale di genere quale
costruzione socio-culturale che, paradossalmente, mina il principio
stesso che si vorrebbe riconosciuto. Elaborare una nozione di genere in
opposizione a quella di sesso anatomico e conferirle uno status
privilegiato rispetto al quale interrogarsi circa il valore culturale di
tale dimensione sovrastrutturale al fine di rendere conto della
variabilità e della pluralità delle concezioni ad esso connesse, non
evita infatti, ed anzi accentua, una distinzione dalla presunta natura
oggettiva del sesso, nel senso che, riconoscendo tale differenza, si
riconosce allo stesso tempo anche l’esistenza di un dato fisiologico per
così dire puro, a partire dal quale viene poi costruito il genere.
Viene
accettato, così facendo, un fondamento biologico delle differenze di
genere. Ma la biologia non precede affatto e dunque non fonda il genere:
il sesso è già parte del genere. Possiamo affermare, non troppo
provocatoriamente, che è il genere a produrre il sesso. In questo senso,
come sostiene J. Scott, “non possiamo vedere le differenze sessuali se
non in funzione della nostra conoscenza del corpo e tale conoscenza non è
‘pura’, non può essere isolata dalla sua implicazione in un’ampia gamma
di contesti discorsivi”[1].
Ma tale visione performativa del genere implica di per sé che l’idea
fuorviante del genere quale concetto separato dal sesso sia già stata
superata, abolendone la differenza.
Ciò
che si vuole mettere in discussione, dunque, è la presunzione di
oggettività della natura umana, ed in particolare del sesso, per
rivelarne invece il carattere di costruzione culturale. Sulla scorta
delle intuizioni di Derrida e riferendosi al genere, sempre J. Scott ha
reso manifesto il principio per il quale tutto ciò che è stato costruito
può essere decostruito[2],
introducendo così nel discorso un elemento fortemente destabilizzante
come quello del mutamento. Di contro, infatti, sostenere che la
differenza tra uomini e donne risiede nella differenza fisiologica del
sesso, dunque in una differenza generalmente assunta come fissa e
stabile non può che condurre ad un’epistemologia immutabile. Tale lavoro
decostruzionista, dunque, non va limitato al solo genere, ma deve
estendersi al sesso, proprio perché quest’ultimo non rappresenta una
soluzione di continuità con il genere. Solo in questo modo se ne potrà
svelare la natura artificiale. Si tratta, qui, dello stesso
impegno archeologico o genealogico che dir si voglia iniziato da
Nietzsche e ripreso da Foucault, mediato, certamente, da gnoseologie
fenomenologiche ed ermeneutiche.
L’importanza
di non limitare la critica al solo determinismo biologico estendendola
invece anche al cosiddetto fondamentalismo biologico sta nel fatto che,
diversamente, si correrebbe il rischio di cadere nel paradosso del differenzialismo: una teoria difficilmente riconducibile ad altro che non sia una forma di razzismo debiologicizzato, o, per dirla con Étienne Balibar, di razzismo culturale.
In questo caso razzismo di genere; irrimediabilmente sessismo. Secondo i
differenzialisti, infatti, sono le differenze sessuali, non
esclusivamente anatomiche, ma anche genetiche, tra uomo e donna, a
determinare differenze attitudinali e comportamentali. Di qui a
postulare l’inferiorità femminile rispetto a quella maschile il passo è
molto breve. Nondimeno, la teoria differenzialista è stata rivisitata
anche in chiave femminista. Luce Irigaray, esponente di spicco del femminismo della differenza,
in polemica con Simone De Beauvoir, ha inteso forzare l’assunto
differenzialista dell’incommensurabilità sessuale che separa la presunta
natura femminile da quella maschile per rivendicarne un’identità
autonoma e allo stesso tempo contrapposta a quella maschile. Una lettura
positiva del differenzialismo dunque.
Tuttavia,
come ha avuto modo di far notare Linda Nicholson, tale femminismo della
differenza, parallelamente, non può configurarsi altrimenti che nei
termini di un femminismo dell’uniformità, dal momento che
sostenere la radicale diversità tra uomini e donne implica in via
preliminare l’assunzione di una precisa identità femminile nella quale
identificarsi. Di qui le critiche a tale corrente da parte di donne di
colore, lesbiche o appartenenti a classi sociali subalterne, diverse dunque da coloro che sostenevano le posizioni differenzialiste: donne bianche, eterosessuali e borghesi[3].
Anche approcci come quelli di Robin Morgan, che si esprimono in favore
del costruzionismo sociale, in opposizione dunque alla tesi del
determinismo biologico, in realtà gli si avvicinano molto nel momento in
cui affermano che le caratteristiche del corpo femminile suscitano
risposte simili in diversi contesti culturali[4].
Parimenti, anche la posizione di Janice Raymond è in pericoloso bilico
verso una concezione deterministica della biologia quando afferma che
sono i genitali a costituire l’ultima soglia ineludibile per quanto
riguarda le risposte sociali[5].
Ancora Gayle Rubin, malgrado riconosca che “the idea that man and women
are more different from one another than either is from anything else
must come from somewhere other than nature”[6], nella sua celebre definizione di sex/gender system,
è riscontrabile l’assunto principe del fondamentalismo biologico,
ovvero quello per cui è pur sempre a partire dalle differenze anatomiche
che si elaborano i diversi concetti di genere. Scrive difatti Rubin che
tale sistema consiste in “a set of arrangements by which the
biological raw material of human sex and procreation is shaped by human,
social intervention and satisfied in a conventional manner”[7], dando così origine al genere. Ma questa non è che la concezione che Nicholson ha efficacemente definito come attaccapanni: “il
corpo viene cioè considerato come un tipo di attaccapanni sul quale
vengono gettati o sovrapposti i diversi manufatti culturali, in
particolare quelli della personalità e del comportamento”[8].
Il
contributo teorico di Rubin, nondimeno, ponendo come questione capitale
per il discorso circa il suddetto sistema sesso/genere l’interrogazione
relativa alla natura e alla genesi dello stato di subalternità della
donna, assume una valenza politica di grande importanza. Per quanto la
sua speculazione resti legata agli assunti del fondamentalismo biologico
(il dato anatomico non viene messo in discussione), ella individua uno
stretto nesso di carattere squisitamente ideologico tra quella che è
l’identità di genere e l’identità sessuale, riconoscendo come la prima
trovi la sua giustificazione etica nell’essere funzionale alla seconda.
Un nesso ideologico che dunque nulla ha a che vedere con la natura, ma
che, al contrario, risulta frutto di convenzioni deliberatamente
istituite al fine di regolamentare convenienti processi normativi come
quelli del matrimonio eterosessuale e della procreazione, tesi a
garantire un ordine sociale facilmente governabile poiché
gerarchicamente strutturato.
Circa
l’origine di tale gerarchia, che vede la donna in una condizione di
inferiorità rispetto all’uomo, Rubin nota come sia Marx che Engels
avessero ravvisato nella donna uno strumento tanto invisibile quanto
utile per il sistema di produzione capitalistico, ma nessuno dei due si
fosse poi preoccupato di approfondire l’indagine al fine di spiegare
perché proprio la donna avesse finito con l’essere relegata all’ambito
domestico e non invece l’uomo. Di qui, secondo Rubin, la proposta di
interpretare la divisione del lavoro in base al sesso quale tabù: “a
taboo against the sameness of men and women, a taboo dividing the sexes
into two mutually exclusive categories, a taboo which exacerbates the
biological differences between the sexes and thereby creates gender […]
enjoing heterosexual marriage”[9].
È così che maschi e femmine verrebbero trasformati in uomini e donne,
consumando il pregiudizio di una realtà fisica dicotomica. A tal
proposito, Rubin prosegue la sua riflessione avanzando l’idea che la
psicoanalisi, benché scienza strumentale all’ideologia di genere dominante, sia da considerarsi come una teoria femminista mancata[10].
Questo perché riconosce nei primi anni di vita dell’essere umano, fino
al sorgere del complesso di Edipo nel maschio e del complesso di Elettra
nella femmina, una tendenza naturale alla bisessualità. A tal proposito
si ricordi la celebre definizione freudiana del bambino come perverso polimorfo. Tuttavia,
successivamente alla fase edipica avverrebbe da parte del bambino la
definitiva presa di posizione rispetto all’identità di genere; presa di
posizione dettata certamente dalle risposte culturali che i genitori e
la società forniscono ai continui quesiti del bambino, ma che, secondo
Freud, fa riferimento ad una differenza anatomica ineludibile tra i due
sessi. Di qui l’accusa di essere un sostenitore del determinismo
biologico.
Per ovviare a tale
impasse, Rubin ricorre alla rilettura lacaniana del complesso edipico,
ponendo così l’accento sul carattere simbolico-linguistico dei concetti
che lo riguardano. Lungo tale linea interpretativa, le ossessioni
infantili circa l’invidia e la castrazione del pene si rivelano problemi
simbolici che hanno a che fare con i significati culturali che
quest’ultimo riveste per la società e non con desideri ed angosce
puramente sessuali. Per questo motivo Lacan preferisce parlare di fallo
piuttosto che di pene: per evitare un termine dal forte connotato
anatomico. Sulla scorta della declinazione simbolica attuata da Lacan
rispetto al complesso edipico così come era stato formulato da Freud,
Rubin è così ora in grado di mostrare il carattere di costruzione
sociale del genere. Ma tale espediente linguistico del passaggio dal
pene al fallo, in fondo, realizza uno slittamento simbolico che per
quanto non sia da considerarsi esclusivamente linguistico, resta ad ogni
modo lontano dal mutare la concezione psicoanalitica della famiglia
tesa a consolidare l’idea di un nucleo elementare di potere costituito
da una coppia eterosessuale. Ciò perché il concetto di desiderio,
sia in Freud che in Lacan, resta legato al pregiudizio classico che lo
associa alla mancanza. Si desidera ciò che non si ha; poco importa poi
se si tratta del pene o del fallo.
In opposizione a tale visione negativa del desiderio come mancanza di origine platonica, Deleuze e Guattari ne hanno proposto una concezione costruttivista, intesa nei termini di un delirio positivo[11]:
“poiché desiderare significa in un certo modo delirare. Se si prende un
qualsiasi delirio, lo si guarda e lo si ascolta da vicino, ci si
accorge che non ha niente a che vedere con ciò che ne pensa la
psicanalisi, non si delira sul padre o la madre, ma su tutt’altro […] Il
delirio è geografico-politico, mentre la psicoanalisi lo riconduce alle
determinazioni familiari […] Si delira sul mondo, non sulla propria
famiglia”[12]. La cosiddetta schizoanalisi
si assume così il compito di introdurre finalmente nel discorso la
dimensione della Storia, quell’elemento sociale e politico – o, meglio
ancora, cosmico – che la psicoanalisi ha sempre trascurato a favore dei fantasmi psichici individuali[13]. Un’omissione che, secondo gli autori de L’Anti-Edipo,
pesa sul pensiero psicoanalitico come un fortissimo atto d’accusa che
ne denuncia la natura strumentale all’ideologia oppressiva borghese. Edipo è la colonizzazione proseguita con altri mezzi,
scrivono Deleuze e Guattari. Colonizzazione dell’inconscio, s’intende –
ma non solo -, da parte di quello che Foucault, negli stessi anni,
formula nei termini di bio-potere; un potere non più da
intendersi quale esercizio di una forza politica egemone localizzata in
precisati e riconoscibili centri istituzionali di irradiamento, quanto
piuttosto come relazione, come insieme di rapporti di forza che si
esprimono, soprattutto, nelle diverse pratiche discorsive, nel forme del
sapere; ad esempio nel sapere medico e scientifico in generale, così
come in quello psicanalitico.
In questo senso, proprio rispetto al discorso
sul corpo e sul sesso, Foucault riscontra come già a partire dal XVIII
secolo, in Occidente, si sia verificato un cambiamento di approccio
culturale-politico al tema generale della sessualità. Da una situazione
di estremo puritanesimo per la quale tutto ciò che aveva anche
lontanamente a che fare con il sesso era bandito dal dibattito pubblico
si passò ad una incitazione al discorso, a una volontà di sapere.
Attraverso un minuzioso lavoro persuasivo si pretese e si ordinò che
del sesso si parlasse di più e con sempre maggior precisione. Pretese ed
ordini, secondo Foucault, che trovavano un’efficace precedente nella
pratica religiosa della confessione. Ma la rilevanza di tale mutamento
discorsivo non fu semplicemente quantitativa bensì qualitativa. Si
iniziò a trattare di sesso da un punto di vista tecnico-scientifico e
non più volgare; “non tanto sotto la forma di una teoria
generale della sessualità, ma sotto quella di analisi, di contabilità,
di classificazione e di specificazione”[14]. Il sesso divenne così una questione di polizia;
“polizia del sesso: il che non vuol dire rigore di una proibizione, ma
necessità di regolare il sesso attraverso discorsi utili e pubblici”[15].
Discorsi
la cui utilità e pubblicità devono però essere indagate, al fine di
svelarne il movente ideologico. Di qui il valore, per dirla con
Nietzsche, inattuale, poiché sempre attuale, dell’invito
metodologico di Foucault che esorta a non smettere mai di interrogarsi
archeologicamente sul perché dei presunti fatti o dati storici, ed in
particolare, in questo caso a “prendere in considerazione il fatto
stesso che se ne parla, chi ne parla, i luoghi ed i punti di vista da
cui se ne parla, le istituzioni che incitano a parlarne, che accumulano e
diffondono quel che se ne dice […] L’importante sarà ancora sapere
sotto quali forme, attraverso quali canali, insinuandosi in quali
discorsi il potere arriva fino ai comportamenti più minuti e più
individuali”[16].
Questo perché un’ipotesi inquietante giace sullo sfondo di tali
produzioni discorsive. A ragione, dunque, si domanda Foucault se “questa
trasposizione in discorso del sesso non potrebbe essere finalizzata al
compito di scacciare dalla realtà le forme di sessualità che non sono
subordinate alla rigida economia della riproduzione […] Non sono questi
[controlli pedagogici, cure mediche, saperi in generale] altrettanti
mezzi messi in opera per riassorbire, a profitto di una sessualità
centrata sulla genitalità, tanti piaceri senza frutto? […]; insomma
organizzare una sessualità economicamente utile e politicamente
conservatrice?”[17].
Il
discorso sul corpo e sul sesso viene così a configurarsi quale
dispositivo regolamentatore: non si tratta esplicitamente di proibire o
reprimere, quanto piuttosto di analizzare, razionalizzare,
medicalizzare, normalizzare; una tecnologia del sesso quale più generale disciplina dei corpi molto più complessa e positiva
del semplice effetto di un divieto. Se da un lato agisce come
dispositivo di controllo e di disciplinamento, dall’altro costituisce
infatti la forza generatrice della sessualità stessa: una sessualità,
finalmente, che “non deve essere considerata come una specie di dato
naturale”[18], ma come frutto di una produzione discorsiva, vera e propria rappresentazione culturale; meglio ancora, costruzione culturale.
Alla
luce delle sottili trame che i saperi e i poteri intessono rispetto
alla concezione del corpo e del sesso, il lavoro di decostruzione della
loro presunta datità risulta complicato e apparentemente innaturale, poiché in ogni nostro tentativo di volgerci al passato, alle origini delle cose, è sempre in opera la retroflessione delle pratiche di vita[19]
che ci costituiscono e nelle quali siamo irrimediabilmente compromessi.
Pratiche di vita che inevitabilmente condizionano e formano il nostro
pensare. È così che ogni sforzo gnoseologico compiuto in direzione del
passato è per sua natura destinato al fallimento. Tuttavia, un
fallimento per certi versi vantaggioso, poiché, lungi dall’informarci
circa ciò di cui si era alla ricerca, ci informa proprio sul nostro
essere nel mondo, sulla nostra cultura; semplicemente, ci in-forma. È il paradosso della catastrofe auto-bio-grafica, per dirla con Carlo Sini.
Ma
per riprendere le fila del discorso qui d’interesse e giungere a una
quanto mai provvisoria conclusione è necessario allora ribadire che per
quanto sia certo che in tutte le società è riscontrabile come le
differenze anatomiche apportino un’influenza e un condizionamento alle
concezioni relative al genere, è altrettanto vero il contrario, vale a
dire che tali identità di genere, a loro volta, influenzano e
condizionano le differenze sessuali, plasmandone retroattivamente la
presunta natura e oggettività. Lungo questa prospettiva, come sostiene
Nicholson, “è necessario capire le variazioni sociali della distinzione
maschio-femmina in relazione a variazioni che vanno ‘fino in fondo’:
connesse non solo ai fenomeni limitati che molti di noi associano al
genere (cioè agli stereotipi culturali della personalità e del
comportamento) ma anche alla concezione che ogni cultura ha del corpo e a
ciò che significa essere una donna o un uomo”[20]. La conferma dell’esistenza di diverse concezioni del sé[21]
e del corpo in distinte culture dimostrerebbe in effetti l’arbitrarietà
del corpo in quanto oggetto, smascherandone la presunta datità. Donne non si nasce si diventa, scrisse Simone de Beauvoir in un testo dal titolo già di per sé provocatorio, Il secondo sesso[22]. Ma possiamo sostenere, più semplicemente,
che non si nasce affatto, se per nascere si intende il venire al mondo
come qualcosa di già definito in sé, qualcosa, per dirla con Aristotele,
che è in potenza, che fa tutt’uno con una promessa naturale
del destino. Al contrario, si diventa sempre e continuamente,
perennemente in transito lungo un eterno divenire. Come recita
l’aforisma eraclitiano: panta rei.
Note
[1]
NICHOLSON, L., “Per una interpretazione di «genere», in PICCONE, S. S.
& SARACENO, C., Genere. La costruzione sociale el femminile e del
maschile, Mulino, Bologna, 1996, p.41 (fotocopie).
[2] Cfr. SCOTT, J., “Gender: a useful category of historical analysis”, in American American Historical Review 91, N. 5 (December 1986), pp. 1053-75.
[3] Cfr. NICHOLSON, L., op. cit., p. 56.
[4] Cfr. ivi, p. 51.
[5] Cfr. ivi, p. 53.
[6] RUBIN, G., “The traffic in women: Notes on the ‘political economy’ of sex”, in REITER, R. R., Toward an anthropology of women, Monthly Review Press, New York, 1975, pp. 157-210, p. 94 (fotocopie).
[7] Ivi, p. 90.
[8] NICHOLSON, L., op. cit., p. 43.
[9] RUBIN, G., op. cit., p. 94 (fotocopie).
[10] Cfr. ivi, p. 96. (fotocopie)
[11] Cfr. DELEUZE, G. & GUATTARI. F., L’Anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, Einaudi, Torino, 2002.
[12] Trascrizione della conversazione sulla voce “D-Desiderio”, in DELEUZE, G., Abecedario. Intervista con Claire Pamet per la regia di Pierre-André Boutang, Deriveapprodi, Roma, 2005.
[13] Analoga tendenza la si può riscontrare in Eros e Civiltà di H. Marcuse. Qui l’autore muove la sua critica all’astoricismo freudiano partendo dal rifiuto del principio di realtà,
sostenendo come questo sia inevitabilmente da considerarsi quale
espressione contingente – e dunque relativa – di un particolare momento
storico-culturale. In tal senso, Marcuse auspica il ritorno in auge di
quello che lo stesso Freud ha definito come principio del piacere,
intendendo con esso, tuttavia, una sessualità liberata dalla tirannia
degli organi genitali; una sessualità, dunque, in grado di scoprire,
sorprendere e soddisfare il piacere erotico in ambiti diversi da quelli
del rapporto fisico. Prendendo a prestito un efficace neologismo di
Sandor Ferenczi, Marcuse definisce tale sessualità come “genitofugale”.
Cfr., MARCUSE, H., Eros e civiltà, Einaudi, Torino, 2001.
[14] FOUCAULT, M., op. cit., p. 25.[15] Ivi, p. 26.
[16] Ivi, p. 16.
[17] Ivi, p. 36.
[18] Ivi, p. 94.
[19] Sul concetto di pratica di vita si rimanda a SINI, C., Gli abiti, le pratiche, i saperi, Jaca Book, Milano, 1996.
[20] NICHOLSON, L. op. cit., p 46.
[21] Cfr. GEERTZ, C., “Dal punto di vista dei nativi: sulla natura della comprensione antropologica”, in GEERTZ, C., Antropologia interpretativa, Mulino, Bologna, 1988, pp. 71-90.
[22] BEAUVOIR, S., Il secondo sesso, Saggiatore, Milano, 2008.
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Testo tratto da: http://www.carmillaonline.com/2016/02/06/ideologie-del-corpo-sesso-genere-e-potere-
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