L’invenzione della Sicilia.
di Matteo Di Gesù
In apertura del suo Tutti a cena da Don Mariano[1],
uno dei più importanti studi sulla letteratura e la società siciliana
della nuova Italia, Massimo Onofri non poteva esimersi, in sede
preliminare, dal prendere le distanze dal sicilianismo più corrivo,
appellandosi piuttosto alla ben più sottile nozione sciasciana di
«sicilitudine»[2],
non priva anch’essa, invero, di qualche ambiguità. Nel farlo,
riprendeva alcuni passi di Giuseppe Giarrizzo, uno storico al quale, tra
gli altri, si deve il merito di avere contribuito ad affrancare la
ricerca storiografica da certo meridionalismo grossolano, che si ferma
alla descrizione di una Sicilia barbara e refrattaria a ogni
modernizzazione nonché, appunto, dal sicilianismo apologetico.
Cosa ha fatto, cosa fa della storia
anche contemporanea della Sicilia una storia difficile? La costante
pretesa di essere un’esperienza storica ‘speciale’, ‘diversa’, pretesa
che concorre ad alimentare la mitografia: ecco allora ‘la Sicilia –
nazione’, il cui ‘popolo’ sopravvive a tutti i soprusi e a tutte le
conquiste : la Sicilia – isola, orgogliosa e sequestrata; la Sicilia
‘feudale’ delle faide municipali, della gelosia possessiva, della
cultura contadina[3].
Alcuni anni dopo, nella Prefazione al secondo volume della Storia della Sicilia da lui curata insieme a Francesco Benigno, lo stesso Giarrizzo poteva convenientemente registrare che:
C’era un tempo, ed oggi è già passato, in cui la storia della Sicilia era delineata – nei media
ma in parte anche nella produzione storiografia – come un’unica,
ininterrotta esaltazione dell’unicità. La Sicilia come luogo metafisico,
metafora dell’esistenza, concentrato esasperato delle passioni estreme
dell’anima. Un Sonderweg strabiliante intriso di ricerche
estetiche e di concretissime oppressioni, di una mentalità diffusa
descritta come secolare attitudine alla mafiosità e di camaleontiche
capacità di una classe dirigente trasformisticamente sempre uguale a se
stessa. Una Sicilia obbligata alla modernità ma intimamente e
supremamente antimoderna. Sprezzantemente attaccata alle proprie
sofferte catene, essenziale legame col mondo struggente, rurale e
arcaico, che si veniva perdendo sotto i colpi di una modernizzazione
difficile, di quella che è stata definita una crescita senza sviluppo.
Oggi che questo tempo è passato, che nuove sfide terribili incitano a
ridefinire il volto e il ruolo dell’Isola nell’ambito dell’Unione
Europea e di una società globale che si vuole multiculturale e
multietnica, forse possibile proporre una storia di Sicilia diversa,
meno ineffabile e chiusa, meno provinciale. [4]
Nel corso del processo di integrazione
politica nazionale delle regioni del Sud Italia, disarmonico e
conflittuale e per molti aspetti ancora incompiuto, la letteratura,
specie la narrativa, ha documentato criticamente queste contraddizioni,
ma ha anche prodotto modelli identitari ‘altri’, irriducibili a quelli
nazionali egemoni, ovvero è stata interpretata, sovente in maniera
forzosa, come repertorio di questa presunta identità metastorica
meridionale. In altre parole, di questa tenace persistenza di
interpretazioni oleografiche, stereotipiche e quasi mitografiche, nel
discorso pubblico ma talvolta anche in sede ‘scientifica’, tocca rendere
conto anche alla letteratura, o meglio, alle sue interpretazioni
controverse e ai suoi usi disinvolti quando non tendenziosi: sempre
Giarrizzo lamentava infatti il tentativo di surrogare con i modelli dei
letterati le lacune della ricerca storica, nonché il vizio di assumere
acriticamente «lo schema ideologico del letterato». Ma d’altra parte,
come annotava Sebastiano Aglianò, in un saggio ormai negletto, scritto
significativamente a pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale
(dunque in una faglia storica decisiva, tra la fine del regime fascista
e la nascita della Repubblica), «lo scrittore siciliano ha sempre un
certo conto da risolvere con la terra nativa; e lo risolverà in un’opera
che può chiamarsi Cavalleria rusticana o I mafiusi di la Vicaria o Don Giovanni in Sicilia o Conversazione in Sicilia: in un’opera, cioè destinata ad ingrandire il mito o a introdurne altri»[5]. Icasticamente, l’italianista Giorgio Santangelo, in un titolo particolarmente efficace, La siepe Sicilia,
sintetizzava nell’immagine leopardiana questa condizione; e un altro
titolo, stavolta di Vincenzo Consolo, restituisce l’allegorizzazione
letteraria di questa separatezza originaria: Di qua dal faro.
Mentre Gesualdo Bufalino e Nunzio Zago, approntando un repertorio
letterario degli archetipi di quella che lo scrittore comisano chiamava
«isolitudine», hanno optato per un titolo che restituisse la
molteplicità e la complessità della storia culturale siciliana: Cento Sicilie.[6]
È indubbio che la letteratura sia stata
utilizzata per ricavare discutibili assunti sul ‘carattere dei
siciliani’, immancabilmente immutabile, offrendosi come terreno fertile
sul quale sono proliferate epitomi e sinossi di secondo grado su come
sarebbero fatti i siciliani; che, dunque, sia servita a consolidare e
perpetuare i peggiori stereotipi proprio su quella sicilitudine, che, a
dispetto delle intenzioni di Sciascia, è presto diventata anch’essa una
vera e propria incrostazione culturale, astorica e autoassolutoria, che
per lungo tempo ha occluso i canali di qualsiasi pensiero critico sulla
Sicilia passata e presente. Di questo uso ideologico della presunta
nozione di identità siciliana, inteso come sistematica contraffazione
dei fenomeni politici, economici e sociali mediante pretestuose
giustificazioni di ordine culturale, com’è risaputo, hanno fatto un uso
assiduo i settori sociali più reazionari e conservatori della società
siciliana (e, indirettamente, la mafia con essi), ma anche le istanze
rivendicative del sicilianismo hanno presto preferito rinunciare alle
armi della battaglia civile optando per la retorica più grossolana,
talvolta alimentata dagli stessi intellettuali.
È dunque tutta (o quantomeno in parte)
colpa degli scrittori la lenta sedimentazione di questo ‘essenzialismo
siciliano’, anche a dispetto delle loro migliori intenzioni?
Probabilmente non è inopportuno tornare a porsi questo interrogativo,
ritornando a riflettere sui testi e sulle stratificazioni della loro
ricezione. Anche se, non sempre, mi pare, una nozione come quella di
‘letteratura siciliana’ (o, ancora peggio, un’opzione critica che abbia
ritenuto o ritenga pensabile e praticabile una ‘storia della letteratura
siciliana’ autonoma dal contesto nazionale) ha contribuito a fare
chiarezza su alcuni dei nessi più problematici tra le codificazioni
culturali dell’identità siciliana (nonché, specularmente, di quella
italiana) dopo l’Unità e i materiali letterari e le loro
interpretazioni. Difficile, infatti, stabilire cosa si intenda per
‘letteratura siciliana’, approssimarsi a una sua definizione non
aleatoria, considerando le opere prodotte dopo il 1860, posto che
possano bastare l’anagrafe degli autori e l’ambientazione delle opere a
connotare in senso regionale o pseudonazionale una letteratura. Non
certo, evidentemente, perché non esista una linea tracciata dagli autori
siciliani chiara e riconoscibile nella tradizione letteraria italiana
moderna[7] (ma forse anche due: quella epico-lirica e quella saggistico-discorsiva e plurilinguistica)[8],
ma proprio perché di questa genealogia imprescindibile si coglie tutto
il valore solo dentro alla storia e alla cultura nazionale postunitaria,
anche (se non soprattutto) quando essa si rivela irriducibile alle
retoriche delle magnifiche sorti della nazione, tramutandosi in
controstoria e controcanto di queste stesse prosopopee e rinnovando quel
«gioco di specchi» tra le due Italie di cui ha parlato Sciascia[9].
Così come, d’altro canto, proiettando
ancora più indietro lo sguardo, per un’adeguata comprensione della
cultura letteraria siciliana moderna sarebbe fuorviante trascurare la
tradizione settecentesca e primo ottocentesca (quella per la quale, a
ben vedere, avrebbe ancora senso utilizzare ancora la formula
‘letteratura siciliana’, e non solo per l’ovvia ragione che allora
esisteva una nazione siciliana). Se ne ricaverebbe senza troppe
difficoltà impressioni quantomeno contraddittorie rispetto alla vulgata
banalizzante di una letteratura siciliana che prenderebbe vita
improvvisamente negli anni Sessanta dell’Ottocento e che si risolverebbe
per lo più nell’antropologia negativa della sicilianità o nella
declinazione ossessiva di un’identità originaria e immutabile: si pensi
alle utopie riformiste dell’illuminismo siciliano, alla formalizzazione
insuperata del siciliano letterario di Meli, alle tematiche civili di
una generazione di poetesse che innestano nel loro classicismo motivi
romantici e istanze prerisorgimentali quali Giuseppina Turrisi Colonna,
Mariannina Coffa, Concettina Ramondetta Fileti. Ovvero, allargando
l’orizzonte oltre ai confini nazionali, non sarebbe difficile, come del
resto è stato abbondantemente dimostrato, inquadrare le esperienze
letterarie dei siciliani nella più vasta cornice europea: da George
Berkley che si reca a Modica per incontrare e riverire Tommaso
Campailla, l’autore dell’Adamo ovvero il Mondo Creato, a Lucio Piccolo che corrisponde con William Butler Yeats.
Nondimeno, la bibliografia critica sugli
autori siciliani moderni è a dir poco cospicua e quasi sempre
eccellente per rigore critico e profondità di analisi, tanto che sarebbe
arduo censirla in maniera sistematica, e nella gran parte dei casi ha
fornito contributi decisivi per una lettura delle opere del tutto
affrancata dalla ‘sicilanologia’ spicciola, collocandole piuttosto in
un’adeguata cornice nazionale ed europea. Alcuni di questi saggi,
oltretutto, sono ormai classici della critica letteraria (quelli di
Luperini, Macchia, Debenedetti, Orlando, Mazzacurati, Nigro, giusto per
citarne alcuni), il cui lascito è stato messo a profitto dalle
generazioni successive (alludo agli studi di Pellini, Manganaro, Ganeri,
Traina, Ferlita, Carta, Curreri, Squillacioti, tra gli altri): non solo
sarebbe improvvido imputare a costoro alcuna correità con il
sicilianismo culturale, ma per di più è ad essi che si può attingere per
smentirne le interpretazioni contraffatte della tradizione dei
siciliani. Si pensi a come studi decisivi quali quelli di Francesco
Orlando[10] e Salvatore Silvano Nigro[11] abbiano definitivamente affrancato Il Gattopardo
da interpretazioni superficiali e banalizzanti, giusto per fare un
esempio: leggere il capolavoro di Lampedusa anche come grande romanzo
allegorico, e non come l’imprescindibile palinsesto di ogni piagnisteo
sull’irredimibilità dei siciliani, indurrebbe molti dei suoi
improvvisati esegeti a meditarne altri passi oltre al celebre monologo
di don Fabrizio. Come questo, a proposito dei risultati del plebiscito
del 1860:
Don Fabrizio non poteva saperlo, allora,
ma una parte della neghittosità, dell’acquiescenza per la quale durante
i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe
la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di
libertà che a questo popolo si era mai presentata[12].
Pur senza aderire alle interpretazioni
dell’unificazione nazionale italiana come mero processo di
colonizzazione interna o alle letture in termini razzialistici della
pubblicistica postunitaria sul Meridione, è comunque indubbio che dopo
l’accorpamento delle regioni meridionali al neonato Regno d’Italia, con
Capuana prima, e quindi con Verga, la Sicilia, il suo paesaggio, i suoi
abitanti, irrompano sulla scena delle patrie lettere (mentre a portarla
al centro del dibattito pubblico, a farne questione sociale e politica
nazionale ci pensano nel frattempo i due giovani deputati conservatori
Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino). Se pertanto si accetta l’assunto
secondo il quale l’esigenza di postulare una questione identitaria è
stata avvertita dagli autori siciliani a partire dall’incontro/scontro
con l’altro – che nel loro caso aveva le sembianze della nuova entità
statuale ‘piemontese’ e delle sue classi dirigenti – probabilmente gli
studi culturali e postcoloniali, per la parte più convincente e fondata
della loro proposta metodologica di critica dei modelli discorsivi
egemonici e nella loro efficacia di dispositivo destrutturante,
potrebbero propiziare una rivisitazione dei processi con i quali è stata
costruita per via letteraria, nella modernità italiana, la cognizione
stessa del meridione e della sua identità, e più specificamente di
quella siciliana.
Si tratterebbe allora di ponderare in
che misura la letteratura moderna siciliana possa essere interpretata,
rispetto alla tradizione e in riferimento al processo di costruzione
dell’identità nazionale, anche mediante paradigmi e modelli propri
appunto di questo ambito teorico; ovvero di verificare se pratiche
discorsive assimilabili all’orientalismo, validabili per uno studio
culturalistico della questione meridionale, abbiano avuto una matrice
letteraria. E dunque, di praticare un Orientalism in one nation, per usare il sottotitolo di una delle sparute indagini condotte in questo campo[13] (Italy’s “southern question”
è quello sotto il quale le ha raccolte nel 1998 la curatrice Jane
Schneider, studiosa statunitense). Tra i contributi compresi in questo
volume, quello di Frank Rosengarten ricava dalla narrativa di Verga,
Tomasi di Lampedusa e Sciascia una nozione di «Sicilian Essentialism»[14].
Antesignano, rispetto ai materiali raccolti da Schneider, era stato un
intervento di Pasquale Verdicchio, il quale, muovendo dall’assunto per
cui le politiche dello stato nazionale italiano, a partire
dall’unificazione, possono essere assimilabili a processi di
colonialismo interno, estendeva la condizione postcoloniale italiana
alle scritture degli emigrati italiani in Nord America[15]. John Dickie (già autore di Darkest Italy,
una ricerca nella quale, tra l’altro, viene analizzato il ruolo che una
rivista come «L’illustrazione italiana» ebbe nella costruzione e nella
trasmissione, nell’immaginario comune, del ‘pittoresco’ meridionale tra
il 1873 e il 1900) ha abbozzato un’ipotesi orientalistica per l’analisi
della letteratura siciliana postunitaria: Capuana, Verga, De Roberto,
Pirandello, Sciascia[16].
Nordamericano è anche Nelson Moe, al quale si deve il più cospicuo e
convincente lavoro sulla stratificazione letteraria dell’immagine del
meridione italiano, dalla metà del Settecento alla fine dell’Ottocento,
tradotto in italiano alcuni anni or sono: Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno[17].
Se questi sono i primi e più significativi materiali teorici e le prime
ricognizioni di cui disponiamo, sufficienti comunque a delimitare una
branca specifica del postcoloniale italiano, ancora quasi tutto da fare è
il lavoro di analisi sui testi letterari e sulla loro tradizione. Vanno
allora segnalati, proprio per il coraggioso azzardo ermeneutico che li
contraddistingue, la monografia di Alessandra Sorrentino, Luigi Pirandello e l’altro. Una lettura critica postcoloniale[18], e il saggio di Giuseppe Domenico Basile, Said
‘nonostante Said. Il dibattito sull”orientalism in one country’ e i
processi letterari di orientalizzazione del Mezzogiorno italiano[19].
A ben vedere, la critica letteraria e
gli studi culturali, piuttosto che fornirci risposte definitive, ci
aiutano a calibrare meglio le nostre domande. «Come si può essere
siciliani?»: nel Consiglio d’Egitto, parafrasando Montesquieu
il vicerè illuminista Domenico Caracciolo se lo domandava al cospetto
del sodale Francesco Paolo Di Blasi, nel momento di accommiatarsi,
lasciando l’isola al termine del suo mandato. Il rovello su quella
«sicilitudine» con la quale principiava la prima raccolta di saggi
dedicati all’isola, La corda pazza, è stato cruciale nella
vicenda umana e letteraria di Leonardo Sciascia, suggellata proprio da
questo interrogativo gnostico, che intitola il saggio, anch’esso posto
in apertura, della sua ultima silloge di prose, Fatti diversi di storia letteraria e civile: Come si può essere siciliani?
Più ragionevolmente, oggi possiamo limitarci a formulare una domanda
decisamente più banale: come si possono (ancora) leggere i siciliani?
Nello stesso anno in cui scompariva l’ultimo grande esponente di questa
tradizione, il 1989[20],
Rosario Contarino sintetizzava la complessa relazione tra letteratura e
identità siciliana in un saggio al quale, dopo più di un quarto di
secolo, vale ancora la pena lasciare la parola per approssimarsi ancora
meglio a una risposta convincente e chiudere queste pagine:
In una Sicilia che
ha vissuto come negletta ‘periferia’ le grandi trasformazioni dell’era
moderna e le sue rivoluzioni politiche e sociali, la letteratura non è
stata certo sprovvista di ‘senso della storia’; ma questa coscienza
della dinamica degli eventi non è sfociata in una cultura della speranza
e del ‘possibile’, ma nella psicologia dell’ ‘insicurezza’ e
nell’apologia dell’esistente. E infatti, anche nelle stagioni di più
accesa progettualità, sulla Sicilia non si è mai proiettata la luce
dell’utopia, ma l’amarezza della denuncia, appena mitigata dalle magie
tonali della favola e della rêverie. Ogni vicenda storica è stata osservata dallo scrittore siciliano al controluce della negazione.
E più avanti:
Più che la marginalità sociale, il letterato siciliano ha voluto infatti esprimere un animus
segnato dal fastidio per l’ufficialità dominante e dal disaccordo non
ideologizzato; e celebrando il suo individualismo geloso ma privo di
scatti eroici, egli ha inteso opporre alle culture omologanti le
tendenze minoritarie e conculcate, senza peraltro pretendere di
sostituire ai grandi modelli e paradigmi culturali nazionali e mondiali
le esigenze della regione, i suoi segni particolari le sue mancate
identificazioni. Quella funzione centrifuga che ha permesso in Sicilia
la sopravvivenza di caratteri specifici, non è infatti coincisa – nei
suoi più seri e alti risultati – con la nostalgia per un’indigena
cultura, che in verità è stata inventata e rimpianta solo in certe pur
rigorose e orgogliose retroguardie, tenacemente corrive alla superbia
municipale. La ‘sicilianità’ ha componenti psicologiche e letterarie
assai più complesse; né può vivere al di fuori della dialettica
isola-continente, che, in assenza di gruppi locali organizzati attorno a
programmi o iniziative pubblicistiche comuni, assume valore definitorio
di un’identità[21].
Gli autori siciliani possono essere
letti non riducendo la complessa e contraddittoria immagine della
Sicilia moderna che hanno saputo tracciare a uno stereotipo identitario,
indagandola piuttosto nella sua ininterrotta dialettica con la storia e
la cultura nazionale e sovranazionale: se davvero non si può
comprendere l’Italia senza conoscere la Sicilia (per parafrasare un fin
troppo celebre luogo goethiano), allo stesso modo non si può
interpretare adeguatamente la tradizione letteraria della Sicilia
moderna senza includerla (con tutte le implicazioni di sorta) in quella
italiana, che la comprende facendo di essa una sua parte irrinunciabile.
In questo libro confluiscono testi
pubblicati nel corso di un decennio, revisionati e aggiornati per
l’occasione. Tuttavia non si tratta di una raccolta occasionale di saggi
eterogenei: spero che il lettore colga la linearità di un percorso che
ha avuto varie tappe ma che ho provato a mantenere continuo e coerente. I
capitoli che lo compongono sono tenuti insieme dall’idea che fosse
giunto il tempo di cominciare a rivedere criticamente alcuni dispositivi
discorsivi che riguardano la cosiddetta “letteratura siciliana”, nonché
da una fedeltà irrinunciabile, per quanto problematica, al magistero di
Leonardo Sciascia. Ho provato a farlo rivisitando alcuni momenti della
fondazione letteraria dell’ambigua nozione di identità siciliana
moderna: dalla breve stagione dell’illuminismo isolano alla comparsa
della tematica mafiosa nella narrativa del secondo Ottocento, fino alle
riscritture romanzesche dell’impresa risorgimentale. Ho tentato di
rileggere, insomma, episodi di una ‘invenzione’ da intendere tanto nel
senso di creazione letteraria quanto in quello di inventio: rinvenimento, scoperta, conoscenza.
[1] Cfr. M. Onofri, Tutti a cena da don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia, Milano, Bompiani 1996.
[2] Cfr. L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id., La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia [1970], in Id., Opere 1956-1971, a c.di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1987, pp. 961-967.
[3] G. Giarrizzo, Per una storia della Sicilia, in Id., Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere, Venezia, Marsilio 1992, p. 3.
[4] F. Benigno, G. Giarrizzo (a c. di) Storia della Sicilia, Vol. II, Dal Seicento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. V-VI.
[5] S. Aglianò, Che cos’è questa Sicilia, Sellerio, Palermo 1996.
[6] Cfr. G. Bufalino, N. Zago, Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto, Bompiani, Milano 2008.
[7] Basti un titolo tra i tanti ai quali si potrebbe rimandare: N. Merola, La linea siciliana nella narrativa moderna: Verga, Pirandello & C, Rubettino, Soveria Mannelli 2006.
[8] N. Tedesco (a c. di), Storia della Sicilia, vol. VIII, Pensiero e cultura letteraria dell’Ottocento e del Novecento, Editalia, Domenico Sanfilippo Editore, Napoli 2000.
[9]
Sarebbe sicuramente più produttivo mettere a sistema l’opzione
dionisottiana di una geografia e storia della letteratura siciliana.
Poco fruttuoso, quantomeno per il nostro caso, è stato il tentativo del
pur ottimo Atlante della letteratura italiana, se non per un saggio assai prezioso: M. Schilirò, La Sicilia fuori dalla Sicilia (1850-2000), in S. Luzzatto, G. Pedullà (a c. di), Atlante della letteratura italiana, vol. III, Dal Romanticismo a oggi,
a c. di D. Scarpa, Einaudi, Torino 2012, pp. 335-347. Assai preziose,
sulla questione, le considerazioni svolte da M. Sacco Messineo, La carta geografica rovesciata, in M. Di Gesù (a c. di), Letteratura, identità, nazione,
:duepunti, Palermo 2009, pp. 109-120. Anche per queste ragioni, nelle
pagine di questo libro il significato del sintagma cristallizzato
‘letteratura siciliana’ andrà inteso in senso debole, attribuendo
all’aggettivo un mero significato funzionale.
[10] Cfr. F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del “Gattopardo”, Torino, Einaudi 1998.
[11] S. Nigro, S. S, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio 2012.
[12] G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in Id., Opere,
a c. di G. Lanza Tomasi, Mondadori, Milano 1995, p.114. Piero Violante,
in un libro che può anche essere letto come una sottile, ininterrotta
smentita di molti luoghi comuni sulla Sicilia e i siciliani, dedica
alcune pagine di grande intelligenza al romanzo tomasiano, ricavandone
un’interpretazione del leitmotiv dell’irredimibilità quale
«dato storico originato da una sconfitta politica» piuttosto che
presunto carattere identitario metastorico (Cfr. P. Violante, Swinging Palermo, Sellerio, Palermo 2015). Non a caso, l’autorevole «Guardian», in un articolo dell’1 aprile 2015, inseriva Il Gattopardo in una lista di dieci libri utili per comprendere l’Italia.
[13] Cfr. J. Schneider (ed.), Italy’s “southern question”. Orientalism in one nation, Berg, Oxford-New York 1998.
[14] Cfr. F. Rosengarten, Homo Siculus: Essentialism in the Writing of Giovanni Verga, Giuseppe Tomasi Di Lampedusa and Leonardo Sciascia, Ivi, pp. 117-131.
[15] Cfr. P. Verdicchio, The Preclusion of Poscolonial Discourse in Southern Italy, in B. Allen, M. Russo (eds.), Revisioning Italy: National identity and Global Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 1997, pp. 191-212.
[16] Cfr. J. Dickie, Stereotipi di Sicilia, in F. Benigno, G. Giarrizzo G. (a c. di), Storia della Sicilia, cit., pp. 101-112.
[17] Cfr. N. Moe, , The view from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London 2002; trad. it.: Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2004.
[18] A. Sorrentino, Luigi Pirandello e l’altro. Una lettura critica postcoloniale, Carocci, Roma 2013.
[19] G. D. Basile, Said
‘nonostante Said. Il dibattito sull”orientalism in one country’ e i
processi letterari di orientalizzazione del Mezzogiorno italiano, in B. Brunetti, R. Derobertis (a c. di), Identità, migrazioni e postcolonialismo in Italia. A partire da Edward Said, Progedit, Bari 2014, pp. 94-110. L’articolo è un estratto dalla tesi di dottorato dello stesso, Scrivere del Mezzogiorno. Processi di auto-orientalismo nella Letteratura italiana,
Università degli studi di Palermo, Dottorato di ricerca in Studi
letterari e linguistici, a.a. 2011-2013, la prima ricognizione critica
complessiva sulla narrativa meridionale tra il 1860 e il 1945 fondata su
questi presupposti teorici.
[20] È anche con riferimento all’anno della morte dell’autore del Contesto
che si potrebbe utilizzare la data del 1989 come epilogo simbolico
della tradizione letteraria siciliana della modernità: già Consolo e
Bufalino, autori comunque fondamentali, oltrepassano questo crinale
(cfr. M. Di Gesù, La tradizione del postmoderno, Franco Angeli, Milano 2003 e G. Traina, Siciliani ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre, Mucchi, Modena 2014). Forse non è un caso che nel Il cavaliere e la morte,
il testamento narrativo di Sciascia, ci sia un richiamo significativo a
quell’anno-soglia, così carico di suggestioni simboliche: a rivendicare
i delitti, nella finzione del racconto, è una associazione eversiva che
si firma «I figli dell’Ottantanove».
[21] R. Contarino, Il Mezzogiorno e la Sicilia, in A. Asor Rosa (a c. di), Letteratura Italiana, Storia e geografia, vol. III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi 1989, pp. 787-788.
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