23 febbraio 2016

LE SICILIE INVENTATE



        Matteo Di Gesù nel suo ultimo lavoro, L’invenzione della Sicilia, appena pubblicato da Carocci, ci invita a distinguere la realtà storica  della Sicilia delle sue diverse rappresentazioni letterarie. L'invito va raccolto senz'altro, anche per questo pubblichiamo volentieri la sua Introduzione  al libro:


L’invenzione della Sicilia.


di Matteo Di Gesù

In apertura del suo Tutti a cena da Don Mariano[1], uno dei più importanti studi sulla letteratura e la società siciliana della nuova Italia, Massimo Onofri non poteva esimersi, in sede preliminare, dal prendere le distanze dal sicilianismo più corrivo, appellandosi piuttosto alla ben più sottile nozione sciasciana di «sicilitudine»[2], non priva anch’essa, invero, di qualche ambiguità. Nel farlo, riprendeva alcuni passi di Giuseppe Giarrizzo, uno storico al quale, tra gli altri, si deve il merito di avere contribuito ad affrancare la ricerca storiografica da certo meridionalismo grossolano, che si ferma alla descrizione di una Sicilia barbara e refrattaria a ogni modernizzazione nonché, appunto, dal sicilianismo apologetico.
Cosa ha fatto, cosa fa della storia anche contemporanea della Sicilia una storia difficile? La costante pretesa di essere un’esperienza storica ‘speciale’, ‘diversa’, pretesa che concorre ad alimentare la mitografia: ecco allora ‘la Sicilia – nazione’, il cui ‘popolo’ sopravvive a tutti i soprusi e a tutte le conquiste : la Sicilia – isola, orgogliosa e sequestrata; la Sicilia ‘feudale’ delle faide municipali, della gelosia possessiva, della cultura contadina[3].
Alcuni anni dopo, nella Prefazione al secondo volume della Storia della Sicilia da lui curata insieme a Francesco Benigno, lo stesso Giarrizzo poteva convenientemente registrare che:

C’era un tempo, ed oggi è già passato, in cui la storia della Sicilia era delineata – nei media ma in parte anche nella produzione storiografia – come un’unica, ininterrotta esaltazione dell’unicità. La Sicilia come luogo metafisico, metafora dell’esistenza, concentrato esasperato delle passioni estreme dell’anima. Un Sonderweg strabiliante intriso di ricerche estetiche e di concretissime oppressioni, di una mentalità diffusa descritta come secolare attitudine alla mafiosità e di camaleontiche capacità di una classe dirigente trasformisticamente sempre uguale a se stessa. Una Sicilia obbligata alla modernità ma intimamente e supremamente antimoderna. Sprezzantemente attaccata alle proprie sofferte catene, essenziale legame col mondo struggente, rurale e arcaico, che si veniva perdendo sotto i colpi di una modernizzazione difficile, di quella che è stata definita una crescita senza sviluppo. Oggi che questo tempo è passato, che nuove sfide terribili incitano a ridefinire il volto e il ruolo dell’Isola nell’ambito dell’Unione Europea e di una società globale che si vuole multiculturale e multietnica, forse possibile proporre una storia di Sicilia diversa, meno ineffabile e chiusa, meno provinciale. [4]

Nel corso del processo di integrazione politica nazionale delle regioni del Sud Italia, disarmonico e conflittuale e per molti aspetti ancora incompiuto, la letteratura, specie la narrativa, ha documentato criticamente queste contraddizioni, ma ha anche prodotto modelli identitari ‘altri’, irriducibili a quelli nazionali egemoni, ovvero è stata interpretata, sovente in maniera forzosa, come repertorio di questa presunta identità metastorica meridionale. In altre parole, di questa tenace persistenza di interpretazioni oleografiche, stereotipiche e quasi mitografiche, nel discorso pubblico ma talvolta anche in sede ‘scientifica’, tocca rendere conto anche alla letteratura, o meglio, alle sue interpretazioni controverse e ai suoi usi disinvolti quando non tendenziosi: sempre Giarrizzo lamentava infatti il tentativo di surrogare con i modelli dei letterati le lacune della ricerca storica, nonché il vizio di assumere acriticamente «lo schema ideologico del letterato». Ma d’altra parte, come annotava Sebastiano Aglianò, in un saggio ormai negletto, scritto significativamente a pochi anni dalla fine della Seconda guerra mondiale (dunque in una faglia storica decisiva, tra la fine del regime fascista e la nascita della Repubblica), «lo scrittore siciliano ha sempre un certo conto da risolvere con la terra nativa; e lo risolverà in un’opera che può chiamarsi Cavalleria rusticana o I mafiusi di la Vicaria o Don Giovanni in Sicilia o Conversazione in Sicilia: in un’opera, cioè destinata ad ingrandire il mito o a introdurne altri»[5]. Icasticamente, l’italianista Giorgio Santangelo, in un titolo particolarmente efficace, La siepe Sicilia, sintetizzava nell’immagine leopardiana questa condizione; e un altro titolo, stavolta di Vincenzo Consolo, restituisce l’allegorizzazione letteraria di questa separatezza originaria: Di qua dal faro. Mentre Gesualdo Bufalino e Nunzio Zago, approntando un repertorio letterario degli archetipi di quella che lo scrittore comisano chiamava «isolitudine», hanno optato per un titolo che restituisse la molteplicità e la complessità della storia culturale siciliana: Cento Sicilie.[6]
È indubbio che la letteratura sia stata utilizzata per ricavare discutibili assunti sul ‘carattere dei siciliani’, immancabilmente immutabile, offrendosi come terreno fertile sul quale sono proliferate epitomi e sinossi di secondo grado su come sarebbero fatti i siciliani; che, dunque, sia servita a consolidare e perpetuare i peggiori stereotipi proprio su quella sicilitudine, che, a dispetto delle intenzioni di Sciascia, è presto diventata anch’essa una vera e propria incrostazione culturale, astorica e autoassolutoria, che per lungo tempo ha occluso i canali di qualsiasi pensiero critico sulla Sicilia passata e presente. Di questo uso ideologico della presunta nozione di identità siciliana, inteso come sistematica contraffazione dei fenomeni politici, economici e sociali mediante pretestuose giustificazioni di ordine culturale, com’è risaputo, hanno fatto un uso assiduo i settori sociali più reazionari e conservatori della società siciliana (e, indirettamente, la mafia con essi), ma anche le istanze rivendicative del sicilianismo hanno presto preferito rinunciare alle armi della battaglia civile optando per la retorica più grossolana, talvolta alimentata dagli stessi intellettuali.
È dunque tutta (o quantomeno in parte) colpa degli scrittori la lenta sedimentazione di questo ‘essenzialismo siciliano’, anche a dispetto delle loro migliori intenzioni? Probabilmente non è inopportuno tornare a porsi questo interrogativo, ritornando a riflettere sui testi e sulle stratificazioni della loro ricezione. Anche se, non sempre, mi pare, una nozione come quella di ‘letteratura siciliana’ (o, ancora peggio, un’opzione critica che abbia ritenuto o ritenga pensabile e praticabile una ‘storia della letteratura siciliana’ autonoma dal contesto nazionale) ha contribuito a fare chiarezza su alcuni dei nessi più problematici tra le codificazioni culturali dell’identità siciliana (nonché, specularmente, di quella italiana) dopo l’Unità e i materiali letterari e le loro interpretazioni. Difficile, infatti, stabilire cosa si intenda per ‘letteratura siciliana’, approssimarsi a una sua definizione non aleatoria, considerando le opere prodotte dopo il 1860, posto che possano bastare l’anagrafe degli autori e l’ambientazione delle opere a connotare in senso regionale o pseudonazionale una letteratura. Non certo, evidentemente, perché non esista una linea tracciata dagli autori siciliani chiara e riconoscibile nella tradizione letteraria italiana moderna[7] (ma forse anche due: quella epico-lirica e quella saggistico-discorsiva e plurilinguistica)[8], ma proprio perché di questa genealogia imprescindibile si coglie tutto il valore solo dentro alla storia e alla cultura nazionale postunitaria, anche (se non soprattutto) quando essa si rivela irriducibile alle retoriche delle magnifiche sorti della nazione, tramutandosi in controstoria e controcanto di queste stesse prosopopee e rinnovando quel «gioco di specchi» tra le due Italie di cui ha parlato Sciascia[9].
Così come, d’altro canto, proiettando ancora più indietro lo sguardo, per un’adeguata comprensione della cultura letteraria siciliana moderna sarebbe fuorviante trascurare la tradizione settecentesca e primo ottocentesca (quella per la quale, a ben vedere, avrebbe ancora senso utilizzare ancora la formula ‘letteratura siciliana’, e non solo per l’ovvia ragione che allora esisteva una nazione siciliana). Se ne ricaverebbe senza troppe difficoltà impressioni quantomeno contraddittorie rispetto alla vulgata banalizzante di una letteratura siciliana che prenderebbe vita improvvisamente negli anni Sessanta dell’Ottocento e che si risolverebbe per lo più nell’antropologia negativa della sicilianità o nella declinazione ossessiva di un’identità originaria e immutabile: si pensi alle utopie riformiste dell’illuminismo siciliano, alla formalizzazione insuperata del siciliano letterario di Meli, alle tematiche civili di una generazione di poetesse che innestano nel loro classicismo motivi romantici e istanze prerisorgimentali quali Giuseppina Turrisi Colonna, Mariannina Coffa, Concettina Ramondetta Fileti. Ovvero, allargando l’orizzonte oltre ai confini nazionali, non sarebbe difficile, come del resto è stato abbondantemente dimostrato, inquadrare le esperienze letterarie dei siciliani nella più vasta cornice europea: da George Berkley che si reca a Modica per incontrare e riverire Tommaso Campailla, l’autore dell’Adamo ovvero il Mondo Creato, a Lucio Piccolo che corrisponde con William Butler Yeats.
Nondimeno, la bibliografia critica sugli autori siciliani moderni è a dir poco cospicua e quasi sempre eccellente per rigore critico e profondità di analisi, tanto che sarebbe arduo censirla in maniera sistematica, e nella gran parte dei casi ha fornito contributi decisivi per una lettura delle opere del tutto affrancata dalla ‘sicilanologia’ spicciola, collocandole piuttosto in un’adeguata cornice nazionale ed europea. Alcuni di questi saggi, oltretutto, sono ormai classici della critica letteraria (quelli di Luperini, Macchia, Debenedetti, Orlando, Mazzacurati, Nigro, giusto per citarne alcuni), il cui lascito è stato messo a profitto dalle generazioni successive (alludo agli studi di Pellini, Manganaro, Ganeri, Traina, Ferlita, Carta, Curreri, Squillacioti, tra gli altri): non solo sarebbe improvvido imputare a costoro alcuna correità con il sicilianismo culturale, ma per di più è ad essi che si può attingere per smentirne le interpretazioni contraffatte della tradizione dei siciliani. Si pensi a come studi decisivi quali quelli di Francesco Orlando[10] e Salvatore Silvano Nigro[11] abbiano definitivamente affrancato Il Gattopardo da interpretazioni superficiali e banalizzanti, giusto per fare un esempio: leggere il capolavoro di Lampedusa anche come grande romanzo allegorico, e non come l’imprescindibile palinsesto di ogni piagnisteo sull’irredimibilità dei siciliani, indurrebbe molti dei suoi improvvisati esegeti a meditarne altri passi oltre al celebre monologo di don Fabrizio. Come questo, a proposito dei risultati del plebiscito del 1860:
Don Fabrizio non poteva saperlo, allora, ma una parte della neghittosità, dell’acquiescenza per la quale durante i decenni seguenti si doveva vituperare la gente del Mezzogiorno, ebbe la propria origine nello stupido annullamento della prima espressione di libertà che a questo popolo si era mai presentata[12].


Pur senza aderire alle interpretazioni dell’unificazione nazionale italiana come mero processo di colonizzazione interna o alle letture in termini razzialistici della pubblicistica postunitaria sul Meridione, è comunque indubbio che dopo l’accorpamento delle regioni meridionali al neonato Regno d’Italia, con Capuana prima, e quindi con Verga, la Sicilia, il suo paesaggio, i suoi abitanti, irrompano sulla scena delle patrie lettere (mentre a portarla al centro del dibattito pubblico, a farne questione sociale e politica nazionale ci pensano nel frattempo i due giovani deputati conservatori Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino). Se pertanto si accetta l’assunto secondo il quale l’esigenza di postulare una questione identitaria è stata avvertita dagli autori siciliani a partire dall’incontro/scontro con l’altro – che nel loro caso aveva le sembianze della nuova entità statuale ‘piemontese’ e delle sue classi dirigenti – probabilmente gli studi culturali e postcoloniali, per la parte più convincente e fondata della loro proposta metodologica di critica dei modelli discorsivi egemonici e nella loro efficacia di dispositivo destrutturante, potrebbero propiziare una rivisitazione dei processi con i quali è stata costruita per via letteraria, nella modernità italiana, la cognizione stessa del meridione e della sua identità, e più specificamente di quella siciliana.
Si tratterebbe allora di ponderare in che misura la letteratura moderna siciliana possa essere interpretata, rispetto alla tradizione e in riferimento al processo di costruzione dell’identità nazionale, anche mediante paradigmi e modelli propri appunto di questo ambito teorico; ovvero di verificare se pratiche discorsive assimilabili all’orientalismo, validabili per uno studio culturalistico della questione meridionale, abbiano avuto una matrice letteraria. E dunque, di praticare un Orientalism in one nation, per usare il sottotitolo di una delle sparute indagini condotte in questo campo[13] (Italy’s “southern question” è quello sotto il quale le ha raccolte nel 1998 la curatrice Jane Schneider, studiosa statunitense). Tra i contributi compresi in questo volume, quello di Frank Rosengarten ricava dalla narrativa di Verga, Tomasi di Lampedusa e Sciascia una nozione di «Sicilian Essentialism»[14]. Antesignano, rispetto ai materiali raccolti da Schneider, era stato un intervento di Pasquale Verdicchio, il quale, muovendo dall’assunto per cui le politiche dello stato nazionale italiano, a partire dall’unificazione, possono essere assimilabili a processi di colonialismo interno, estendeva la condizione postcoloniale italiana alle scritture degli emigrati italiani in Nord America[15]. John Dickie (già autore di Darkest Italy, una ricerca nella quale, tra l’altro, viene analizzato il ruolo che una rivista come «L’illustrazione italiana» ebbe nella costruzione e nella trasmissione, nell’immaginario comune, del ‘pittoresco’ meridionale tra il 1873 e il 1900) ha abbozzato un’ipotesi orientalistica per l’analisi della letteratura siciliana postunitaria: Capuana, Verga, De Roberto, Pirandello, Sciascia[16]. Nordamericano è anche Nelson Moe, al quale si deve il più cospicuo e convincente lavoro sulla stratificazione letteraria dell’immagine del meridione italiano, dalla metà del Settecento alla fine dell’Ottocento, tradotto in italiano alcuni anni or sono: Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno[17]. Se questi sono i primi e più significativi materiali teorici e le prime ricognizioni di cui disponiamo, sufficienti comunque a delimitare una branca specifica del postcoloniale italiano, ancora quasi tutto da fare è il lavoro di analisi sui testi letterari e sulla loro tradizione. Vanno allora segnalati, proprio per il coraggioso azzardo ermeneutico che li contraddistingue, la monografia di Alessandra Sorrentino, Luigi Pirandello e l’altro. Una lettura critica postcoloniale[18], e il saggio di Giuseppe Domenico Basile, Said ‘nonostante Said. Il dibattito sull”orientalism in one country’ e i processi letterari di orientalizzazione del Mezzogiorno italiano[19].
A ben vedere, la critica letteraria e gli studi culturali, piuttosto che fornirci risposte definitive, ci aiutano a calibrare meglio le nostre domande. «Come si può essere siciliani?»: nel Consiglio d’Egitto, parafrasando Montesquieu il vicerè illuminista Domenico Caracciolo se lo domandava al cospetto del sodale Francesco Paolo Di Blasi, nel momento di accommiatarsi, lasciando l’isola al termine del suo mandato. Il rovello su quella «sicilitudine» con la quale principiava la prima raccolta di saggi dedicati all’isola, La corda pazza, è stato cruciale nella vicenda umana e letteraria di Leonardo Sciascia, suggellata proprio da questo interrogativo gnostico, che intitola il saggio, anch’esso posto in apertura, della sua ultima silloge di prose, Fatti diversi di storia letteraria e civile: Come si può essere siciliani? Più ragionevolmente, oggi possiamo limitarci a formulare una domanda decisamente più banale: come si possono (ancora) leggere i siciliani? Nello stesso anno in cui scompariva l’ultimo grande esponente di questa tradizione, il 1989[20], Rosario Contarino sintetizzava la complessa relazione tra letteratura e identità siciliana in un saggio al quale, dopo più di un quarto di secolo, vale ancora la pena lasciare la parola per approssimarsi ancora meglio a una risposta convincente e chiudere queste pagine:

In una Sicilia che ha vissuto come negletta ‘periferia’ le grandi trasformazioni dell’era moderna e le sue rivoluzioni politiche e sociali, la letteratura non è stata certo sprovvista di ‘senso della storia’; ma questa coscienza della dinamica degli eventi non è sfociata in una cultura della speranza e del ‘possibile’, ma nella psicologia dell’ ‘insicurezza’ e nell’apologia dell’esistente. E infatti, anche nelle stagioni di più accesa progettualità, sulla Sicilia non si è mai proiettata la luce dell’utopia, ma l’amarezza della denuncia, appena mitigata dalle magie tonali della favola e della rêverie. Ogni vicenda storica è stata osservata dallo scrittore siciliano al controluce della negazione.
E più avanti:
Più che la marginalità sociale, il letterato siciliano ha voluto infatti esprimere un animus segnato dal fastidio per l’ufficialità dominante e dal disaccordo non ideologizzato; e celebrando il suo individualismo geloso ma privo di scatti eroici, egli ha inteso opporre alle culture omologanti le tendenze minoritarie e conculcate, senza peraltro pretendere di sostituire ai grandi modelli e paradigmi culturali nazionali e mondiali le esigenze della regione, i suoi segni particolari le sue mancate identificazioni. Quella funzione centrifuga che ha permesso in Sicilia la sopravvivenza di caratteri specifici, non è infatti coincisa – nei suoi più seri e alti risultati – con la nostalgia per un’indigena cultura, che in verità è stata inventata e rimpianta solo in certe pur rigorose e orgogliose retroguardie, tenacemente corrive alla superbia municipale. La ‘sicilianità’ ha componenti psicologiche e letterarie assai più complesse; né può vivere al di fuori della dialettica isola-continente, che, in assenza di gruppi locali organizzati attorno a programmi o iniziative pubblicistiche comuni, assume valore definitorio di un’identità[21].

Gli autori siciliani possono essere letti non riducendo la complessa e contraddittoria immagine della Sicilia moderna che hanno saputo tracciare a uno stereotipo identitario, indagandola piuttosto nella sua ininterrotta dialettica con la storia e la cultura nazionale e sovranazionale: se davvero non si può comprendere l’Italia senza conoscere la Sicilia (per parafrasare un fin troppo celebre luogo goethiano), allo stesso modo non si può interpretare adeguatamente la tradizione letteraria della Sicilia moderna senza includerla (con tutte le implicazioni di sorta) in quella italiana, che la comprende facendo di essa una sua parte irrinunciabile.
In questo libro confluiscono testi pubblicati nel corso di un decennio, revisionati e aggiornati per l’occasione. Tuttavia non si tratta di una raccolta occasionale di saggi eterogenei: spero che il lettore colga la linearità di un percorso che ha avuto varie tappe ma che ho provato a mantenere continuo e coerente. I capitoli che lo compongono sono tenuti insieme dall’idea che fosse giunto il tempo di cominciare a rivedere criticamente alcuni dispositivi discorsivi che riguardano la cosiddetta “letteratura siciliana”, nonché da una fedeltà irrinunciabile, per quanto problematica, al magistero di Leonardo Sciascia. Ho provato a farlo rivisitando alcuni momenti della fondazione letteraria dell’ambigua nozione di identità siciliana moderna: dalla breve stagione dell’illuminismo isolano alla comparsa della tematica mafiosa nella narrativa del secondo Ottocento, fino alle riscritture romanzesche dell’impresa risorgimentale. Ho tentato di rileggere, insomma, episodi di una ‘invenzione’ da intendere tanto nel senso di creazione letteraria quanto in quello di inventio: rinvenimento, scoperta, conoscenza.

[1]  Cfr. M. Onofri, Tutti a cena da don Mariano. Letteratura e mafia nella Sicilia della nuova Italia, Milano, Bompiani 1996.
[2] Cfr. L. Sciascia, Sicilia e sicilitudine, in Id., La corda pazza. Scrittori e cose della Sicilia [1970], in Id., Opere 1956-1971, a c.di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1987, pp. 961-967.
[3] G. Giarrizzo, Per una storia della Sicilia, in Id., Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere, Venezia, Marsilio 1992, p. 3.
[4] F. Benigno, G. Giarrizzo (a c. di) Storia della Sicilia, Vol. II, Dal Seicento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. V-VI.
[5] S. Aglianò, Che cos’è questa Sicilia, Sellerio, Palermo 1996.
[6] Cfr. G. Bufalino, N. Zago, Cento Sicilie. Testimonianze per un ritratto, Bompiani, Milano 2008.
[7] Basti un titolo tra i tanti ai quali si potrebbe rimandare: N. Merola, La linea siciliana nella narrativa moderna: Verga, Pirandello & C, Rubettino, Soveria Mannelli 2006.
[8] N. Tedesco (a c. di), Storia della Sicilia, vol. VIII, Pensiero e cultura letteraria dell’Ottocento e del Novecento, Editalia, Domenico Sanfilippo Editore, Napoli 2000.
[9] Sarebbe sicuramente più produttivo mettere a sistema l’opzione dionisottiana di una geografia e storia della letteratura siciliana. Poco fruttuoso, quantomeno per il nostro caso, è stato il tentativo del pur ottimo Atlante della letteratura italiana, se non per un saggio assai prezioso: M. Schilirò, La Sicilia fuori dalla Sicilia (1850-2000), in S. Luzzatto, G. Pedullà (a c. di), Atlante della letteratura italiana, vol. III, Dal Romanticismo a oggi, a c. di D. Scarpa, Einaudi, Torino 2012, pp. 335-347. Assai preziose, sulla questione, le considerazioni svolte da M. Sacco Messineo, La carta geografica rovesciata, in M. Di Gesù (a c. di), Letteratura, identità, nazione, :duepunti, Palermo 2009, pp. 109-120. Anche per queste ragioni, nelle pagine di questo libro il significato del sintagma cristallizzato ‘letteratura siciliana’ andrà inteso in senso debole, attribuendo all’aggettivo un mero significato funzionale.
[10]    Cfr. F. Orlando, L’intimità e la storia. Lettura del “Gattopardo”, Torino, Einaudi 1998.
[11]    S. Nigro, S. S, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio 2012.
[12]    G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, in Id., Opere, a c. di G. Lanza Tomasi, Mondadori, Milano 1995, p.114. Piero Violante, in un libro che può anche essere letto come una sottile, ininterrotta smentita di molti luoghi comuni sulla Sicilia e i siciliani, dedica alcune pagine di grande intelligenza al romanzo tomasiano, ricavandone un’interpretazione del leitmotiv dell’irredimibilità quale «dato storico originato da una sconfitta politica» piuttosto che presunto carattere identitario metastorico (Cfr. P. Violante, Swinging Palermo, Sellerio, Palermo 2015). Non a caso, l’autorevole «Guardian», in un articolo dell’1 aprile 2015, inseriva Il Gattopardo in una lista di dieci libri utili per comprendere l’Italia.
[13]   Cfr. J. Schneider (ed.), Italy’s “southern question”. Orientalism in one nation, Berg, Oxford-New York 1998.
[14]   Cfr. F. Rosengarten, Homo Siculus: Essentialism in the Writing of Giovanni Verga, Giuseppe Tomasi Di Lampedusa and Leonardo Sciascia, Ivi, pp. 117-131.
[15]   Cfr. P. Verdicchio, The Preclusion of Poscolonial Discourse in Southern Italy, in B. Allen, M. Russo (eds.), Revisioning Italy: National identity and Global Culture, University of Minnesota Press, Minneapolis 1997, pp. 191-212.
[16]    Cfr. J. Dickie, Stereotipi di Sicilia, in F. Benigno, G. Giarrizzo G. (a c. di), Storia della Sicilia, cit., pp. 101-112.
[17]    Cfr. N. Moe, , The view from Vesuvius. Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley, Los Angeles, London 2002; trad. it.: Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del mezzogiorno, L’ancora del mediterraneo, Napoli 2004.
[18]    A. Sorrentino, Luigi Pirandello e l’altro. Una lettura critica postcoloniale, Carocci, Roma 2013.
[19]    G. D. Basile, Said ‘nonostante Said. Il dibattito sull”orientalism in one country’ e i processi letterari di orientalizzazione del Mezzogiorno italiano, in B. Brunetti, R. Derobertis (a c. di), Identità, migrazioni e postcolonialismo in Italia. A partire da Edward Said, Progedit, Bari 2014, pp. 94-110. L’articolo è un estratto dalla tesi di dottorato dello stesso, Scrivere del Mezzogiorno. Processi di auto-orientalismo nella Letteratura italiana, Università degli studi di Palermo, Dottorato di ricerca in Studi letterari e linguistici, a.a. 2011-2013, la prima ricognizione critica complessiva sulla narrativa meridionale tra il 1860 e il 1945 fondata su questi presupposti teorici.
[20]    È anche con riferimento all’anno della morte dell’autore del Contesto che si potrebbe utilizzare la data del 1989 come epilogo simbolico della tradizione letteraria siciliana della modernità: già Consolo e Bufalino, autori comunque fondamentali, oltrepassano questo crinale (cfr. M. Di Gesù, La tradizione del postmoderno, Franco Angeli, Milano 2003 e G. Traina, Siciliani ultimi? Tre studi su Sciascia, Bufalino, Consolo. E oltre, Mucchi, Modena 2014). Forse non è un caso che nel Il cavaliere e la morte, il testamento narrativo di Sciascia, ci sia un richiamo significativo a quell’anno-soglia, così carico di suggestioni simboliche: a rivendicare i delitti, nella finzione del racconto, è una associazione eversiva che si firma «I figli dell’Ottantanove».
[21]    R. Contarino, Il Mezzogiorno e la Sicilia, in A. Asor Rosa (a c. di), Letteratura Italiana, Storia e geografia, vol. III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi 1989, pp. 787-788.

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