Il paesaggio italiano
non è spontaneo, ma opera secolare dell'uomo. Le sue origini vanno
ricercate nel Medioevo. Lo racconta “I paesaggi dell'Italia
medievale”, un saggio molto bello di Riccardo Rao, professore di
storia medievale all'università di Bergamo.
Alessandro Barile
Il paesaggio italiano
Generalmente inteso come
risorsa da preservare, il «paesaggio», quello italiano in
particolare, si è trasformato nel principale asset nazionale volto
ad intercettare i flussi del turismo globale. Nel tempo però è
avvenuto uno slittamento interpretativo del concetto di paesaggio,
che ha finito per indicare con tale termine esclusivamente una serie
di forme e un’estetica caratterizzante. In realtà il paesaggio è
il frutto di una relazione sociale, il prodotto sempre mutevole dello
scambio costante tra necessità dell’uomo e il proprio territorio
di sopravvivenza.
Non esiste allora un
paesaggio «incontaminato», e soprattutto, laddove questo si è
presentato storicamente, non tende al «bello» ma piuttosto
all’incuria e al disordine. È allora oggi opportuno individuare le
radici dell’attuale fisionomia paesaggistica italiana, per capire
come si è formata e per quali ragioni storiche, così da trovare
risposta a una delle domande ricorrenti di questi anni: come si
gestisce un patrimonio paesaggistico?
Secondo Riccardo Rao,
professore di storia medievale all’università di Bergamo e autore
del saggio «I paesaggi dell’Italia medievale», l’origine
dell’attuale paesaggio italiano va indicata nel Medioevo, perché è
proprio in questa straordinaria epoca di trasformazione che le
popolazioni danno vita ad un contesto territoriale al tempo stesso
collettivo e locale, capace di fare fronte al disgregamento politico
ed economico successivo alla fine dell’unità imperiale. È una
storia sociale del paesaggio quella che propone l’autore,
raccogliendo sapientemente la lezione delle Annales.
Negli anni Ottanta Denis
Cosgrove, padre della New Cultural Geography, individuò un cambio di
paradigma dimostrando che alla base dell’idea di paesaggio, fin
dalle sue origini rinascimentali, vi è «un atteggiamento ideologico
basato sulla distinzione tra insider e outsider, ossia fra chi
produce e vive quotidianamente il paesaggio senza riconoscerlo come
tale (per esempio il contadino) e chi invece lo guarda da lontano,
dall’esterno con un apprezzamento estetico (il bel paesaggio) che è
tuttavia funzionale a determinate scelte economiche. Il paesaggio
diventa così la visione dell’outsider che attraverso questo tipo
di rappresentazione, oltre a riconoscere un ordine nel mondo che
contempla, esercita un controllo sociale sul territorio, sottraendolo
ai produttori e curatori del paesaggio» (Rocca 2013).
Questa distinzione viene
indicata semanticamente col passaggio dal landshaft (parola tedesca
indicante la comunità che plasma un territorio) al landscape
(termine inglese con cui si individua lo sguardo distaccato su un
luogo). Raccogliendo tale traccia, Riccardo Rao analizza gli elementi
che hanno determinato la genesi del paesaggio italiano medievale.
L’Europa altomedievale dei secoli V-VIII si presenta come contesto
di depressione economica e demografica che impone un territorio in
cui il bosco e gli incolti prendono il sopravvento e dove i fiumi
lasciati al loro corso rompono gli argini creando ampie zone
paludose.
Prendono forma quei
«paesaggi della paura» indicati dallo storico Vito Fumagalli
dominati dalla natura e dagli animali. In tale ambiente la sapienza
umana adatta una propria economia di sussistenza che trasforma il
bosco in habitat positivo, incolti e paludi in opportunità di
pascolo e di caccia, producendo paradossalmente una dieta contadina
migliore di quella bassomedievale e rinascimentale. Con la fine del
mondo antico il bosco assume una centralità nuova, che non è solo
economica ma anche culturale, dove la natura può vivere in equilibro
con l’uomo.
Si intensificano le
attività silvo-pastorali a scapito di quelle agricole. Lentamente si
avvia una fase di accentramento insediativo che porta alla nascita
dei primi villaggi che caratterizzeranno il panorama abitativo
altomedievale, e bosco e incolti prenderanno la forma di beni comuni
accessibili a tutti gli abitanti del villaggio.
Proprio la gestione
collettiva di questi beni comuni porterà alla formazione dei primi
comuni cittadini, che non devono dunque essere visti come specifico
paesaggio antropizzato, ma anzitutto «come paesaggio che organizza
la società: attraverso le forme di condivisione dei boschi e dei
pascoli, tramite le regole stabilite per il loro utilizzo, la società
di villaggio prende forma», e con essa la modernità (pag. 162).
L’espansione demografica dei secoli centrali del Medioevo conduce
al progressivo disboscamento delle sterminate distese forestali in
favore degli spazi coltivabili determinati dalla costante espansione
agraria.
Il villaggio, simbolo
insediativo altomedievale, lascia il posto alla curtis (o villa),
l’azienda agraria che si sviluppa a cavallo tra l’VIII e il X
secolo, che estende la pratica della rotazione triennale e del
maggese migliorando le rese dei raccolti. La contestuale espansione
delle città e la loro eccezionale richiesta di beni alimentari
trasforma le campagne che si mettono al servizio delle civitas
stabilendo un rapporto di subordinazione delle campagne agli
interessi economici urbani. Le attività legate al bosco e al pascolo
si riducono drasticamente mentre si amplia la parte di territorio
messa a coltura cerealicola.
L’accentramento
insediativo lascia progressivamente il posto ad una nuova geografia
insediativa disgregata e policentrica, diffusa capillarmente sul
territorio. Si affermano dal nord al sud della penisola le cascine, i
poderi mezzadrili e le masserie, sempre più controllate da
proprietari terrieri al servizio dei mercati cittadini. Si avvia
quella rottura della dimensione collettiva e locale, in favore di una
proprietaria e accentrata, che porterà alla trasformazione del
paesaggio medievale generando quei «paesaggi della
specializzazione», con l’indirizzo di alcuni territori verso
produzioni particolari ed esclusive.
Questo rapido excursus ci
consente alcune rapide conclusioni. Il paesaggio che prende forma nel
Medioevo, sopravvivendo in alcuni tratti ancora oggi, è un paesaggio
sostanzialmente rurale, che significa in buona misura un paesaggio
alimentare. Sono le necessità umane che plasmano il territorio e ne
condizionano la sua forma e la sua funzionalità. Mentre però fino
al termine del Medioevo questo paesaggio era al tempo collettivo e
locale determinandone un suo equilibrio, con l’affacciarsi dell’età
moderna e l’avvio della pratica delle recinzioni dei beni comuni
questo paesaggio non viene incrinato solamente dal punto di vista
ecologico, ma anche sociale.
La privatizzazione del
territorio (nota col termine enclosure), impone la scomparsa dei
villaggi e la nascita di una massa contadina salariata in costante
migrazione verso le città, deteriorando l’equilibrio territoriale
complessivo. Riprendendo una fortunata immagine coniata da Thomas
More nel Cinquecento per descrivere il processo di recinzione
inglese, «le pecore (hanno) mangiato gli uomini». Da qualche tempo
ne stiamo pagando le conseguenze.
Il manifesto – 30
gennaio 2016
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