“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
16 febbraio 2016
TORNIAMO A PARLARE DEL GIARDINO DELLE DELIZIE DI J. BOSCH
Matteo Mancini
Il Bosch restaurato
Restaurato dal Museo del Prado il "Giardino delle delizie" di Bosch. Un'opera singolare, ma composta nell'ambito dell'ortodossia cattolica del '500
Quasi cinquecento anni sono passati da quando, il 30 luglio del 1517, Antonio de Beatis, un italiano che accompagnava il cardinale Luigi di Borbone in un viaggio nelle Fiandre, lasciò la prima stupefatta descrizione del "Giardino delle delizie" di Jeronimus Bosch (1450 ca. - 1516). Infatti, durante il soggiorno presso il Palazzo di Enrico III di Nassau, Antonio ebbe modo di vedere numerosi quadri, ma l'unico per il quale non seppe trovare una definizione precisa fu proprio il trittico del maestro fiammingo, limitandosi alla descrizione delle "sue diverse fantasie che rappresentano mari, cieli, boschi, pascoli e molte altre cose..."
Il problema di questo singolare e colto viaggiatore italiano non era determinato da una sua incapacità, ma dalla complessa struttura iconografica del dipinto, che ancora oggi rimane per molti aspetti uno dei grandi enigmi della storia dell'arte occidentale, oggetto di molteplici interpretazioni e speculazioni. Eppure il dipinto, come hanno dimostrato gli studi più recenti e in un certo senso anche la sua storia materiale, è tutt'altro che il frutto di una mente dissociata o di un fanatico membro di una setta segreta. E il recente restauro presso i laboratori del Museo del Prado di Madrid conferma che Bosch dipinse un quadro difficile da interpretare ma pur sempre nell'ambito dell'ortodossia cattolica, dei suoi precetti, delle sue fobie. Per queste ragioni si tratta di un restauro attraverso il quale non ci si è limitati a restituire alla tavola del maestro fiammingo i suoi colori originari ma si sono voluti riaprire i termini d'indagine e di ricerca sul senso del dipinto e sulla sua storia.
Non sappiamo con certezza quando Bosch diede l'ultima pennellata al "Giardino delle delizie", però possiamo circoscrivere la sua realizzazione in un arco cronologico compreso tra il 1503 e il 1506, quando il pittore stava ricevendo le prime commissioni dall'arciduca Filippo il Bello, e stava riscuotendo un certo successo con il suo stile enigmatico e differente rispetto alla tradizione figurativa fiamminga. Per Filippo il Bello Bosch dipinse la grande tavola del "Giudizio finale con il paradiso e l'inferno", l'unico dipinto che supera per dimensioni "Giardino delle delizie", e che di norma viene datato 1504. Le affinità stilistiche tra le due opere sono evidenti, dimostrando soprattutto di appartenere al momento più maturo del pittore, una fase che la critica è solita situare a partire dal 1500. Inoltre, a parte le considerazioni stilistiche, l'appartenenza del dipinto alla collezione di Enrico di Nassau ha fatto sorgere l'ipotesi di identificarne il committente in questo personaggio, che avrebbe affidato al pittore le sue aspirazioni di emulare l'arciduca. Successivamente, verso il 1568, il dipinto passò a formar parte della collezione di Fernando di Toledo, figlio naturale del duca d'Alba, il terribile governatore spagnolo delle Fiandre. Alla morte di Fernando, nel 1591, lo comprò il re di Spagna, Filippo II, che lo fece mandare al Monastero di San Lorenzo de El Escorial già nel 1593, come era solito fare con i suoi migliori dipinti di tema religioso. Eppure la tavola non venne destinata alle sale dei monaci, ma alle dipendenze del Palazzo, forse per la singolarità del soggetto rappresentato, e ancor più facilmente per le attività dei personaggi che lo popolano; ma non si deve pensare a una censura, tutt'altro. Secondo il padre Siguenza, lo storiografo ufficiale del monastero, i soggetti rappresentati nel dipinto "non sono follie, ma libri di grande prudenza e artificio, e se ci sono follie sono le nostre e non le sue, per dirlo una volta per tutte sono una satira dipinta dei peccati e delle pazzie dell'uomo". Siamo nel 1605 in pieno dibattito sulle immagini e il padre Siguenza è tra i più ortodossi difensori della coerenza tra contenuti e forma in materia artistica.
Indirettamente gli anni successivi confermano che il dipinto di Bosch non si trovava affatto fuori luogo all'Escorial, dove rimase fino al 1939, con l'unica eccezione degli anni della guerra d'indipendenza spagnola. A partire dal 1939 il dipinto venne trasferito in deposito presso il Museo del Prado, attirando immediatamente l'attenzione della critica e del pubblico.
Il "Giardino delle delizie" è un dipinto singolare, uno di quelli che affascinano e coinvolgono lo spettatore e gli fanno perdere il senso dello spazio e del tempo. La moltitudine delle sue figure, la stravaganza delle loro attività e posizioni lo trasformano in un immagine inesauribile, al punto che pochi di coloro che lo hanno visto, anche in più di un'occasione, sono in grado di ricordarne i dettagli, ma nessuno è in grado di dimenticare l'esperienza di averlo contemplato.
Oggi è il caso di ripetere quell'esperienza o di provarla per la prima volta, perché la grande tavola è stata alleggerita dal peso e dalle sofferenze degli anni. Per la prima volta ci possiamo approssimare ai colori e alle immagini che dovettero godere Enrico di Nassau, Antonio de Beatis e Filippo II. Come è facile immaginare il processo di restauro di un dipinto del genere non è mai facile e richiede un'attenzione particolare, bisogna curare tutti gli aspetti, da quelli storico artistici a quelli tecnici, passando per tutto ciò che riguarda la composizione materiale del dipinto.
Il "Giardino delle delizie" è un trittico in legno di rovere che tratta un complesso tema biblico ispirato alla Genesi. La sua lettura e interpretazione devono procedere in maniera contestuale tra l'interno e l'esterno, considerati come parti integranti di un medesimo discorso. Con gli sportelli chiusi ci troviamo di fronte alla rappresentazione del terzo giorno della creazione in presenza del Dio padre, raffigurato nella parte superiore dello sportello di sinistra. La terra, il cielo e le acque vengono dipinte secondo la tradizione precedente alla scoperta del continente americano. Il tutto viene accompagnato dalle parole latine "Ipse dixit et facta sunt, ipse mandavit et creata sunt", unico messaggio lasciato da Bosch, per intendere il significato più profondo del suo dipinto e l'assoluta fiducia nell'onnipotenza della divinità. Rimanendo ancora all'esterno notiamo come la pittura, strumento proprio dell'artista, si trasformi in un potente strumento semantico, destinato a rafforzare il senso complessivo dell'opera. Allora, nel momento della creazione, non c'è bisogno di colore, la terra, il mare il cielo sono dipinti in chiaroscuro, con sottili giochi di luci, ombre e velature, che, tra l'altro, con il restauro hanno ritrovato la loro funzione: esaltare lo spettacolo dei tre pannelli interni.
Il primo dei pannelli interni, quello della sinistra, raffigura la natura in tutto lo splendore e il suo equilibrio nel momento in cui il Dio padre, raffigurato però nelle sembianze del figlio, offre la mano di Eva ad Adamo. Sullo sfondo la fontana della vita e l'albero del male intorno al quale si avvolge sinuoso il serpente del peccato. Il male ancora non si è consumato, ma latente aspetta l'errore umano. La grande tavola centrale mostra con colori sgargianti e figure dinamiche le azioni ambigue e ingannatrici del male sull'uomo. Bosch, e chi gli consigliò i temi da trattare nel dipinto, censurarono in maniera evidente tutti i comportamenti lascivi, dettati dalla sfrenata ricerca del piacere sessuale, come per esempio la sodomia. Le dimensioni delle figure perdono di senso e gli animali, i frutti, gli alberi diventano più grandi dell'uomo e lo sovrastano, riducendo in termini simbolici il suo libero arbitrio e coinvolgendolo in una spirale sfrenata di piacere, in un perverso circolo vizioso. Ben rappresentato sul fondo dalla cavalcata circolare degli uomini intorno alle donne che si stanno sollazzando in un laghetto cristallino, ma nessuno di loro è in grado di liberarsi, di sfuggire o affrancarsi dal dominio dei sensi.
Le figure e le identità dei personaggi sono ben dissimulate, gli uomini sembrano essere dei manichini di cera privi di controllo. Siamo molto distanti dalla tradizione figurativa fiamminga di quegli anni nella quale dominava un naturalismo descrittivo e minuzioso, che esalta le identità individuali dei personaggi dei dipinti. Nel pannello di destra, l'ultimo e più drammatico, viene rappresentato l'Inferno, il luogo destinato a l'espiazione dei peccati commessi in precedenza. Gli uomini vengono sottoposti a una serie di sofferenze e patimenti crudeli. La scena è dominata dal cosiddetto "Uomo albero", alter ego metaforico, ma non troppo, del demonio, che con il suo sorriso ambiguo e infingardo guarda direttamente lo spettatore, senza alcuna mediazione.
L'Uomo albero è una delle poche figure di grandi dimensioni sopravvissute al processo di elaborazione del dipinto da parte di Bosch. Nelle stesure iniziali, come hanno dimostrato gli studi radiologici, ce ne erano molte di più, però la loro presenza rendeva la composizione assai più caotica e confusa, impedendone una lettura lineare. Tali cambiamenti d'impostazione si possono notare soprattutto nella tavola centrale e in quella dell'Inferno. In alcuni casi, per il deperimento della superficie pittorica, è possibile apprezzare il disegno originario delle immagini.
I cambiamenti nell'impostazione di alcune figure sono molto importanti al momento di determinarne l'interpretazione. È il caso del Dio padre del pannello della sinistra, la mano che tiene quella di Eva ha subito un importante correzione, come anche la posizione della testa che nella stesura finale dirige lo sguardo verso lo spettatore e non verso Eva.
Nel loro complesso i pentimenti e le variazioni introdotte da Bosch rivelano un fare pittorico, rapido, deciso e preciso nella stesura e nella correzione, segno di un programma artistico lucido e consapevole che solo doveva fare i conti con la materialità della composizione figurativa e con la coerenza tra il linguaggio e la forma del dipinto
Da La Repubblica
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