La morte del Carnevale
Domenica 24 gennaio è stata la domenica di settuagesima con cui
inizia ufficialmente il Carnevale. Dura diciotto giorni. Il 2 febbraio è
Candelora, da cui deriva l’antica tradizione precristiana della festa,
il “Carnem levare”, per cui secondo alcuni la parola significherebbe
“eliminare la carne”, mentre per altri “levare” sta per “innalzare la
carne”; segue il Giovedì grasso che quest’anno cade il 4 febbraio, e
quindi tutto culminerà il Martedì grasso. Il giorno successivo,
Mercoledì delle Ceneri, saremo ufficialmente in Quaresima, per cui la
chiesa cattolica consiglia digiuno, contrizione e pentimento. Cos’è vivo
e cosa è morto del Carnevale? Cosa resta presso di noi degli antichi
riti agrari in onore di Saturno, da cui nasce la festa pagana? Che ne è
dell’anarchia programmata e dell’inversione sociale temporanea portata
dai suoi riti? Probabilmente nulla. Come tante altre feste, a partire
dallo stesso Natale, il significato recondito, custodito intatto per
secoli, è andato perduto, sostituito da una festività che ha i suoi riti
consumistici, i suoi oggetti messi in vendita in un determinato periodo
dell’anno (maschere, travestimenti, coriandoli, stelle filanti, dolci);
quindi via verso un’altra celebrazione, in un’incessante serie di
ricorrenze che della vera festa non hanno più molto. Quasi nessuno
ricorda le libertà che le persone si prendevano in occasione del
Carnevale, le cerimonie parodiche, le feste dei pazzi, il sovvertimento
dei ruoli vigenti in una società rigida, di ferro, come era quella
tradizionale, durata quasi intatta fino a sessanta anni fa. Durante il
Carnevale tutto veniva messo sottosopra; il mondo era rovesciato di
colpo, come ha raccontato Giuseppe Cocchiara nei suoi libri sul
folclore. In India, lontano serbatoio di miti e di favole trasmigrate
per secoli attraverso misteriosi canali stesi lungo i continenti, le
comunità rurali eleggevano un re della festa che cavalcava all’indietro,
non un destriero da parata, bensì un asino di campagna. Davvero il
mondo era stravolto e per quel novero di giorni, fin che durava, fin che
le luci della festa non si spegnevano, poteva accadere di tutto. In un
carnevale del 1580 a Romans, paese del Delfinato, come ha raccontato lo
storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie, il Carnevale si trasformò in
sanguinosa tragedia opponendo artigiani e nobili, classi medie e classi
dominanti. Le libertà carnevalesche rappresentavano in modo ribaltato la
struttura sociale tradizionale dove il Re era intoccabile insieme ai
nobili, le donne sottomesse agli uomini, la parola turpe o blasfema
interdetta, l’oscenità messa al bando. Nel Carnevale tutto andava gambe
all’aria in una rivoluzione temporanea e radicale: le donne licenziose, i
padroni bastonati, i poveri fatti ricchi e i ricchi ridotti in povertà;
tutto ciò che era relegato ai ranghi “inferiori”, il fisiologico, il
corporale, il genitale, diventava preponderante, e la cultura alta
ridicolizzata. Il buffone diventava re e il re ridotto al ruolo
buffonesco. Il Carnevale era il momento della trasgressione; l’ordine
del mondo usciva dai suoi cardini, unico modo per poterlo mantenere tale
per tutto l’anno. Per conservarsi intatto quel mondo aveva bisogno di
essere scardinato almeno una settimana, per essere purificato doveva
contaminarsi, per restare ancorato al proprio supremo ordine,
sperimentare la confusione. Ordine e disordine si bilanciavano in modo
perfetto. Ora che la trasgressione regna sovrana, che l’ordine sembra
fondarsi su un caos programmato e continuo, cosa resta dell’antico
spirito sovversivo? Quasi nulla. Se la società è liquida, o somiglia a
una nuvola gassosa, come la rappresentano sociologi ed economisti, il
Carnevale non ha più ragione di esistere. Non c’è più alcun ordine da
confermare o ripristinare dal momento che viviamo immersi in un
disordine continuo, fluttuante e inafferrabile. La parola turpe,
l’insulto hanno invaso i luoghi della comunicazione pubblica (un
allenatore di calcio, Sarri, insulta un altro, Mancini, con epiteti da
turpiloquio); televisione e social network hanno rotto gli argini eretti
nel passato: l’insulto è pubblico e replicabile. Il linguaggio si è
contaminato e le “brutte parole” fanno parte dell’eloquio dei leader.
Tutto si contamina con tutto, e la cultura alta non si distingue da
quella bassa; anzi quest’ultima è il vero mood della società
contemporanea. Il mondo non sembra possedere più alcuna verticalità,
poiché i sistemi comunicativi e produttivi hanno prodotto
l’orizzontalità totale. La festa dei pazzi, il mondo alla rovescia, è
ogni giorno dell’anno. L’anarchia, la confusione, il rimescolamento sono
stati permanenti. Lo stesso mascheramento, il travestimento, tipico del
Carnevale e del suo spirito sovvertitore, è oggi un fatto comune e
consueto. Non a caso David Bowie, icona trasgressiva, modello gender,
maestro del travestimento e della identità plurima e cangiante, è stato
celebrato in morte da tutti. La domanda che viene spontanea: se non c’è
più differenza tra ordine e disordine, su cosa si fonderà la società? Se
la trasgressione è continua, cosa vuol dire oggi trasgredire? In un
libro emblematico, Ritratto dell’artista come saltimbanco, il
critico Jean Starobinski aveva preconizzato all’inizio degli anni
Settanta la mutazione in corso. Dopo aver analizzato in che modo il
clown era diventato negli ultimi due secoli il soggetto preferito di
pittori, musicisti e registi, Starobinski aveva concluso che la sua
presenza sulle scene dell’arte si stava attenuando. Il clown,
concludeva, è sceso per le strade, è in ciascuno di noi: “Non ci sono
più limiti, non c’è più infrazione. Rimane la derisione”. Previsione
perfetta.
Questo testo è già uscito su “La Stampa”. Noi l'abbiamo ripreso da http://www.doppiozero.com/
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