Lolita e Nabokov
di Alessandro Piperno
Nabokov
amava far risalire il primo palpito di Lolita
al 1939. Era a Parigi, affetto da una nevralgia, quando gli venne in
mente un libro sulla predilezione di certi maschi di mezza età per
uno specifico tipo di minorenni. Come al solito mentiva. La verità è
che la sua produzione giovanile (in russo) pullula di antesignani più
o meno consapevoli di Humbert e Lolita (Il dono,
Una risata nel buio,
L’incantatore).
Impiegò una vita intera a scrivere Lolita;
e una volta soddisfatta tale impellenza non smise più di riprovarci
con risultati altalenanti (Ada,
L’originale di Laura). Per raggiungere la sintesi agognata tra «precisione della poesia»
ed «ebbrezza della scienza pura», dovette superare un tale numero
di scogli che più volte, in corso d’opera, ebbe la tentazione di
gettare la spugna.
Ad angustiarlo non erano solo i problemi morali,
estetici e compositivi posti da un libro come Lolita,
ma la consapevolezza che tali questioni fossero in un certo senso
inseparabili l'una dall’altra, e che per questo andassero risolte
simultaneamente.
Occorre
ricordare che Lolita
viola il solo tabù sessuale che abbia ancora senso; al punto da
chiedersi se in un’epoca come la nostra, assai sensibile al
problema della crudeltà sui bambini, un libro del genere troverebbe
un editore disposto a pubblicarlo, e lettori altrettanto benevoli. È
evidente che il suo autore, poco incline a confondere scopi artistici
ed esigenze etiche (se non in un senso molto ampio), abbia sentito
l’obbligo di interrogarsi sull’opportunità di cimentarsi con una
materia così sordida e spregevole.«Com'è riuscito Nabokov — si
chiede Martin Amis — a infilare la storia di questa ragazzina in un
simile sproloquio di trecento pagine, in questo libro così
divertente da generare imbarazzo, così ispirato dall’inizio alla
fine, così incredibilmente osé?».
Ci
è riuscito allestendo uno dei più tragici divertissement
mai concepiti. Sotto i panni licenziosi e svolazzanti della commedia
e della parodia, la vicenda di Humbert e Lolita si tinge sin dal
principio dei colori vermigli della tragedia. Come nel più cruento
tour de force
shakespeariano, non c’è personaggio che alla fine non incontri una
morte prematura e catartica. È così che Nabokov salda il suo debito
morale. Naturalmente lo fa alla sua maniera, in modo subdolamente
discreto, senza enfasi né cerimonie. Il lettore deve attendere quasi
la fine del romanzo per capire (ammesso che lo capisca) che la moglie
di Richard F. Shiller morta di parto — di cui si faceva menzione
nella prefazione dell’ineffabile John Ray — non è altri che
Dolly Haze, alias Lolita. Quindi non solo Lolita muore fuori dalla
scena, ma per così dire muore tra le righe, ufficiosamente. Allora
capiamo cosa intende Nabokov quando dice: «Scrivere Lolita
è stato mettere assieme un bel puzzle
— comporlo e risolverlo nello stesso tempo, dato che l’una cosa è
l’immagine speculare dell’altra, secondo come si guarda».
- Da Nabokov, la morale è un gioco in “La lettura – Corriere della Sera”, 22 maggio 2016
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