Krimmler Tauern Pass (Val Aurina Sud Tirolo)
(Foto di Berthold Steinhilber)
Il confine può essere
letto come una barriera, un segno di separazione e di esclusione. O
come una porta che aprendosi mette in contatto persone e culture e il
cui superamento apre nuovi, inaspettati, orizzonti. E' il senso che
da sempre per l'uomo hanno avuto i passi alpini.
Gianluca Favetto
Se il confine è un
sentiero della mente
I confini sono un
catalogo di ipotesi, un’enciclopedia del possibile e del
praticabile. Ad esempio, più che demarcazioni lineari, sono passi
creste frastagli onde. Sono percorsi, tracce e sentieri: idee e
impressioni che diventano disegni sul territorio. Addirittura colori,
che sfumano. Tratti, ritratti di paesaggi, cose, persone. Prima che
geografie, sono storie, racconti e immagini insieme.
Quasi sempre inducono un
andare più che un fermarsi. Segnalano, al di là di un limite, una
messa in comunicazione, una ineludibile cerimonia di condivisione e
comunione. Sono costruzioni che spesso dicono un dentro e un fuori,
facendoli coesistere, essendo evidente che senza fuori non può
esserci alcun dentro. E ancora, sono pensieri, mappe mentali che si
semplificano e fissano, pur rimanendo fluidi, in una traduzione
fisica. E viceversa — con i confini c’entra sempre il viceversa.
Sono un dato fisico e di
percezione che produce mappe mentali e pensieri. È il risultato di
un intreccio di mappe e pensieri quello che pochi giorni fa a
Berlino, durante una chiacchiera per caso, mi ha detto Selemir,
sempre che si scriva così e che io abbia capito bene il suo nome.
Stavo cercando di affittare delle biciclette. Selemir non ha ancora
cinquant’anni. È figlia di genitori turchi, nata e cresciuta in
Bulgaria prima del crollo dell’Unione Sovietica. Scuole in russo a
Plovdiv, l’antica Filippopoli, storica capitale della Tracia, è
emigrata nella capitale tedesca all’incirca dieci anni or sono. Nel
quartiere di Friedrichshain, in Warshauerstrasse, sta dietro il
bancone del Bistro Antalya, aperto giorno e notte: vende bibite,
kebab e affitta bici. Sposata con un tedesco di origini italiane,
separata, convive con un turco di Mersin.
Chiacchierando di viaggi, emigrazioni, gente che va di qua e di là, conflitti, popoli e paure, parlando un po’ tedesco, un po’ inglese, un po’ italiano, un po’ spagnolo e un po’ chissà cosa, è arrivata a dirmi: “Siamo fatti di confini, bisogna solo farli stare bene dentro di noi. I confini non sono che il bacio di due terre, di due cose”. Capisco questo, più o meno, in mezzo a un gran gesticolare di mani, sguardi e sorrisi. Una situazione di battigia, quella in cui mi sono ritrovato con lei, fra storia, geografia e tutto quel rimescolare di lingue, confondersi, provare a capirsi, comunicare con lo scopo ultimo di affittare delle biciclette.
La battigia è una condizione che esiste ovunque, anche in alta montagna. È qualcosa che nello stesso luogo e nello stesso tempo tiene insieme acqua e terra, sabbia e onda. In uno stesso spazio riconosce l’altro, il diverso da sé, accerta e accetta la varietà e la complessità del mondo. Mentre si sforza di separare e distinguere, confronta e confonde. Cioè, fonde insieme, mescola, amalgama, unisce senza ridurre a uno.
A servizio di queste realtà sono i confini. Che non si alzano verticali come dighe, ma serpeggiano come luoghi di transito. Magari hanno idea di dividere, ma sono obbligati a congiungere, e in mezzo ci passano i venti. Per questo, i confini, li puoi anche chiamare le labbra del tempo. Dice lo scrittore uruguagio Eduardo Galeano: “I piedi del tempo camminano nei nostri piedi e le labbra del tempo raccontano il viaggio”. Che sempre attraversa confini. Non c’è viaggio che non sia sconfinare, andare oltre, superare. In fondo, il primo confine è la pelle, l’ultimo l’orizzonte. O l’invisibile.
La repubblica – 5
agosto 2016
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