ROMA
— Dice Han Su-yin: «È stupido: ogni tanto, e ogni volta
che un leader politico europeo o americano va in visita a Pechino,
subito i giornali proclamano: “La Cina apre all’Occidente”.
Ridicolo: da duemila anni dura l'andirivieni tra Asia e Europa, c’è
una storia comune di culture sovrapposte, intrecciate. Nel
quattordicesimo secolo quei bianchi che sarebbero diventati i
francesi servivano alla Corte imperiale cinese come gorilla, guardie
del corpo. Allora e poi, gli italiani hanno vissuto grandi avventure
in Cina come in India. Mi scandalizza che in Italia non si vada oltre
Marco Polo, non si celebri a esempio un grande pittore e architetto
operante alla Corte cinese come il gesuita Giuseppe Castiglione:
anche per questo ho voluto farne un personaggio del mio romanzo».
La
scrittrice cinese di madre belga, medico, autrice di romanzi (il più
famoso nel mondo resta L’amore è una cosa meravigliosa),
di saghe famigliari autobiografiche, di saggi politici o quasi (una
biografia di Mao, Il vento nella torre),
progressista militante, voce della Cina in Occidente, avrà tra poco
settantanni. Vive tra Losanna e Pechino, tra Svizzera e Oriente,
insieme con il terzo marito, il colonnello Vincent Ru-thnaswamy, un
gigante indiano molto scuro di pelle (gli altri mariti sono stati un
ufficiale cinese dello Stato Maggiore di Chiang Kai-Shek negli Anni
Trenta-Quaranta e nei Cinquanta un inglese che adesso fa l’editore
a Hong Kong).
Viaggia
per il mondo facendo conferenze, e quella che oggi tiene a Roma è
intitolata «Cina, dieci anni dopo». È energica, brillante,
instancabilmente appassionata, molto loquace: e elegantissima. Non ha
perduto fiducia nella missione che si è assegnata: «Da
cinquant’anni, dal mio primo romanzo, cerco di contribuire alla
reciproca conoscenza di culture diverse, di chiarire scrivendo e
parlando quanto popoli che sembrano differenti siano invece
strettamente legati da storia e esperienze comuni».
Continua
a credere nella funzione che in questo senso può avere anche la
narrativa popolare. Se nei suoi romanzi precedenti i personaggi si
muovevano in Cina, a Hong Kong, nel Nepal, in Malesia o in India,
l’ultimo, La incantatrice,
appena uscito in Italia pubblicato da Sperling & Kupfer, è
ambientato nella Svizzera, nella Cina e nella Thailandia del
Settecento.
Fantastico.
Nella storia avventurosa di un fratello e una sorella gemelli
d’origine celta, uniti da misteriose telepatie e commistioni
gemellari ma anche da un’irresistibile passione amorosa mai
consumata, Han Suyin mescola tutto: esotismo, didattica, magia e
stregoneria, condanna dei pregiudizi, potenza dell’irrazionale,
lussi e crudeltà degli imperi asiatici, gesuiti, contenuti
femministi. E Voltaire («simile a un coloratissimo pappagallo, con
un turbante di seta multicolore»), la Concubina Luminosa e la
Concubina Fragrante, i mercanti di Batavia, le virtù salvifiche
delle erbe medicamentose, gli stupefacenti automi settecenteschi, i
sultani impazziti, le gemme strepitose, la terra dei Thai e Ayuthia,
la Città del Paradiso detta appunto La Incantatrice,
sommersa da torrenti di sangue, cancellata...
«Era
la Venezia d’Asia e tutti l'hanno dimenticata»,
spiega Han Suyin. Il mix fascinoso del romanzo l’ha voluto: «Perché
ero desolata dal fatto che la gente è oggi così prosaica,
terra-terra, priva di vita interiore: rinnega e mutila costantemente
le proprie eredità culturali, i diversi strati di conoscenze e
emozioni componenti il cervello umano». I
prodigiosi automi antropomorfi, dice, «davvero,
storicamente, sedussero l’Asia nel Settecento, ma come giocattoli:
non si capì che erano la rivoluzione industriale».
L’incesto? «Esiste, è sempre esistito. Ne La
incantatrice l'amore tra i due gemelli non diventa possesso
fisico, ma nella realtà delle famiglie chi abusa delle bambine se
non il padre, il fratello, lo zio? Un crimine? Gli antichi faraoni
egiziani potevano sposare soltanto le proprie sorelle. Non siamo
ipocriti».
La
sua eroina Bea è una donna intelligente, potente, libera, ma lei non
è affatto femminista: «Il movimento femminista occidentale ha
mescolato liberazione femminile e liberazione sessuale. E’ un
errore. Sono problemi distinti, e trovo stupido provocare ostilità
tra uomini e donne, colpevolizzare uomini che sono a loro volta
vittime. Il movimento femminile in Cina si è battuto per
l’emancipazione delle donne come degli uomini: sono d’accordo».
Naturalmente.
Sono in molti a dire che la verità ufficiale della Cina è sempre
stata la verità di Han Suyin, sempre governativa da quando poté
rientrare nel suo Paese, sempre pronta a esaltare Mao e poi a
criticarlo, a contraddirsi senza render conto delle contraddizioni.
Lei si difende con empito: «Non sono una donna politica,
non ho mai scritto di politica. Come un giornalista, ho riferito ì
fatti, le correnti di pensiero, le parole della Cina, come via via si
presentavano».
Certo,
riconosce, ha accettato le diverse, mutevoli verità della Cina
ufficiale: «Io partecipavo a quegli eventi come tutti gli
altri cinesi; non potevo vedere più chiaro degli altri né saperne
di più». Ha sbagliato? «Molti
sinologi hanno sbagliato quanto me, e si sono corretti nelle seconde
edizioni dei loro libri. Io, no. Resti pure la testimonianza dei miei
errori: ho sbagliato per idealismo, non per cinismo».
Negli
anni duri dell’isolamento e dell’embargo americano, dice: «La
Cina aveva bisogno d’una voce anche sottile come la mia che
parlasse a suo favore. Mentre tutti gli erano contro, sono stata a
fianco del mio Paese, e allora non era facile né comodo: volevo
farlo conoscere, spiegarlo, dirne i perché».
È quanto fa con immutato entusiasmo e volontà anche adesso,
lodando: «La Cina sta facendo ora un 'esperienza
straordinaria, molto coraggiosa: deve riscrivere certi aspetti
dell’ideologia marxista alla luce della rivoluzione tecnologica.
Deng ha riconosciuto gli errori compiuti: e devo ancora trovare un
leader occidentale che abbia fatto altrettanto. Lo ammiro per questo.
Rispetto Mao, aveva cercato di introdurre maggiore critica ma non
c’era riuscito; poi è diventato vecchio e pure lui intollerante
della critica; è stato tradito dal proprio cervello, càpita».
Però
attenzione, ammonisce Han Suyin con nostalgica serietà: «È molto
presto per giudicare la rivoluzione culturale cinese. Un grande
tornado emotivo e rivoluzionario distrugge molto: ma è portatore di
molta novità». E attenzione, riammonisce con improvvisa durezza:
«E’ stupido dire che i cinesi si sono convertiti al
capitalismo. Credere che i cinesi non siano intelligenti è molto,
molto stupido».
“la
Stampa”, 13 novembre 1986
Nessun commento:
Posta un commento