Oltre che scrittore e poeta, Pavese fu anche traduttore (sua una bellissima edizione di Moby Dick) e redattore e responsabile di collana per l'Einaudi. E proprio con Pavese nasce il mito della casa torinese, destinato a durare fino al triste declino degli anni berlusconiani. Pasquale Briscolini, con la cura di sempre, ricostruisce questo aspetto poco conosciuto di Pavese, attraverso il carteggio che lo scrittore tenne con i principali esponenti della cultura italiana degli anni Quaranta.
Pasquale Briscolini
«Perché temo tanto la penna e il tavolino? Eppure, e me lo debbo ficcar bene in testa, se voglio riuscire grande debbo durare a comporre di mio e tradurre per almeno sei ore al giorno. Il resto della giornata passarlo studiando o sui libri stampati o nella vita. E, se dopo sei o sette anni non avrò ancora concluso nulla, non l’avrò ancora il diritto di serrarmi torvo nella delusione. Dovrò semplicemente raddoppiare le ore di lavoro e finalmente confessarmi d’aver sbagliato mestiere».
E’ il mese di maggio
del 1926, Cesare Pavese non ha ancora diciott’anni e questo è un
suo appunto che ci fa capire – già da quell’età – la
sua idea di lavoro. Idea della quale è proprio convinto se, due anni
dopo, scrive a Carlo Pinelli: “E lavora, andiamo. A testa china,
coi denti stretti, senza dir nulla, come una bestia. Vedrai che ti
frutta. Su questo ti do la mia parola d’onore”.
Ci serve questa
riflessione sul modo di lavorare di Pavese perché – è inutile
negarlo – “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” ci ha
condizionati tutti. Per cui l’idea che ci sorge spontanea su Pavese
è quella del poeta tormentato, che appare così anche nei vari
momenti della vita di tutti i giorni. Facciamo infatti fatica a
capire fino in fondo anche le parole di Calvino nella commemorazione
alla Casa della Cultura di Milano del 1960, per i valori positivi che
contengono e che ci sembrano anche troppo, condizionati come siamo da
una forma di pre-giudizio. Dice infatti Calvino:
«Per
noi che lo conoscemmo negli ultimi cinque anni della sua vita, Pavese
resta l’uomo dell’esatta operosità nello studio, nel lavoro
creativo, nel lavoro dell’azienda editoriale, l’uomo per cui ogni
gesto, ogni ora aveva una sua funzione e un suo frutto, l’uomo la
cui laconicità e insocievolezza erano difesa del suo fare e del suo
essere, il cui nervosismo era quello di chi è tutto preso da una
febbre attiva, i cui ozi e spassi parsimoniosi ma assaporati con
sapienza erano quelli di chi sa lavorare duro. Questo Pavese non è
men vero dell’altro, del Pavese negativo e disperato, e non è solo
consegnato ai ricordi degli amici, e a un’attività al di fuori
delle pagine scritte; era quello l’uomo che “faceva” , l’uomo
che scriveva i libri; i libri della maturità portano questo segno di
vittoria e addirittura di felicità, sia pur sempre amara».
Di tutto questo possiamo
renderci conto direttamente dalle parole di Pavese, quelle delle
lettere di “Officina Einaudi”, che coprono un arco di dieci anni
(1940 – ’50) della sua attività editoriale. Da esse possiamo
facilmente cogliere non solo l’autorevolezza con la quale egli
spontaneamente si muove (peraltro in un gruppo di collaboratori di un
livello forse irripetibile), ma anche la sottile ironia che pervade
praticamente ogni lettera.
Elio Vittorini
In questo primo articolo
relativo a “Officina Einaudi” vogliamo considerare i primi
quattro anni, dal 1940 al ’44; qui sotto sono riportati i nomi dei
destinatari delle lettere di questo periodo, con le rispettive età
all’inizio del periodo stesso: si nota che, nel gruppo, Pavese e
Vittorini sono i più “grandi” (32 anni), Mario Alicata e Giaime
Pintor i più giovani, rispettivamente di 22 e 21 anni:
Mario Alicata, a poco più di vent’anni, è già assistente di
Natalino Sapegno e scrive sulle più importanti riviste letterarie
italiane; attraverso Carlo Muscetta entra in contatto con Einaudi e
la Casa editrice. Il 28 aprile del ’41 Pavese gli scrive:
«Caro
Alicata, Einaudi mi ha mostrato il vostro carteggio, da cui risulta
che sei già pienamente a giorno della fondazione e dei propositi
dello Struzzo. Siccome il primo volume della Biblioteca sarà un mio
racconto, non mi è lecito gonfiare troppo l’impresa, ma insomma mi
pare che lavorandoci con un po’ di ingegno e di intelligenza –
giovani come siamo per qualche anno ancora – possa uscire qualcosa
di buono. Comunque vada sarò lieto di avere avuto il pretesto per
entrare in corrispondenza con te”. E continua con la sua visione
sulla nascente Casa editrice e, in particolare, sui ruoli e le
attitudini particolari delle diverse sedi: “Purtroppo – è noto –
qui a Torino viviamo fuori dal mondo, e chiunque nasca in Italia
all’onor delle lettere ha tutto il tempo di farsi un editore e un
pubblico e poi di cambiare mestiere, prima che noi se ne sia sentito
il nome. Ecco l’utilità della tua consulenza da Roma. Tenere
d’occhio gli ingegni (mi dicono che la città ne formicoli), e
anche stuzzicarli. Predicare l’arte narrativa, e soprattutto quella
narrativa “come vita morale”….».
Poi Pavese continua con
molti dettagli, ma già da questo frammento si coglie il linguaggio,
molto impegnato e leggero al tempo stesso. Mario Alicata risponde
qualche giorno dopo: “Caro Pavese, anch’io sono molto contento di
poter lavorare insieme a te per la nuova iniziativa di Einaudi. Credo
che si potrà fare qualcosa di buono, soprattutto se riusciremo a
mettere insieme una lista di nomi raggruppati secondo un criterio
originale e tenendoci lontani dalle piccole chiesuole di marca
fiorentina”. Si “sente” anche il taglio etico con il quale ci
si vuole tenere lontani da raggruppamenti particolari e di potere.
Poi Alicata continua la lunga lettera e la rende già così piena di
proposte da farlo addirittura preoccupare: “Ho inzeppato questa
lettera di proposte, di idee; e ne ho quasi paura. Vorrei sapere
presto se è questa la linea sulla quale indirizzare il mio lavoro di
avanscoperta e di scelta”.
Giulio Einaudi
Con Einaudi è bello
soffermarsi sulla lettera scherzosissima con la quale Pavese gli
propone di ripubblicare le poesie di Lavorare stanca (è così
singolare che l’ultima parte è stata addirittura riportata nella
copertina del libro, Officina Einaudi). Dice Pavese:
«Spettabile
Casa Einaudi, sono a offrirvi con questa mia la pubblicazione di un
libro di versi che ha già avuto, in prima edizione presso i fratelli
Parenti di Firenze, un certo insuccesso e non può mancare di averne
un altro.
Cioè, ne avrebbe un
altro se un altro Editore si occupasse della cosa. Ma conosco troppo
bene le proporzioni novellamente assunte dalla Vostra Casa per
ignorare che un lancio da Voi promosso raggiungerebbe proporzioni
catastrofiche e toglierebbe la pace a tutti i lettori italiani.
Bando ai preamboli: Voi
potete e dovete non lasciarVi sfuggire questa nuova occasione di
rendere omaggio a un massimo poeta vivente, che, se Voi lo
respingeste, potrebbe rivolgersi a qualche altra Casa, arrecandoVi
danno efficacissimo e malvagio.
Ciò non già per
ricattarVi, ma, una volta ancora, per aiutarVi a confermare quelle
doti di grande Editore che Vi si riconoscono da tutti. Il
sottoscritto non ignora che ospitate libri siffatti nelle Vostre
Collezioni da far arrossire qualunque tipografo o bibliofilo. Vi
assicura, gratuitamente, il suo solerte appoggio nella correzione
delle bozze, onde fare in modo che le pagine del suo libro non escano
deturpate da troppi errori.
Bando ai preamboli,
un’ultima volta. Si tratta del volume Lavorare stanca nuovamente
arricchito di poesie inedite e di appendici in prosa sulla poetica
dell’autore. Egli si dichiara disposto a fornirvi il ms. esente da
spese postali e ad inserirvi forse nuove poesie durante la
composizione.»
La lettera spiritosa, che
porterà all’edizione einaudiana di Lavorare stanca del 1943, si
conclude con una specie di supplica, che riportiamo qui nella stesso
formato manoscritto che compare nella copertina di Officina Einaudi.
Ricchissimo anche il
rapporto con Elio Vittorini che, all’inizio di giugno del ’41 gli
aveva scritto, dopo aver letto Paesi tuoi:
«Caro
Pavese, ho avuto il tuo libro, grazie per avermelo mandato: l’ho
trovato di mio gusto, un libro come ce ne vorrebbero tre o quattro
l’anno da noi per togliere di mezzo i secolari equivoci che fanno
nascere e accettare tanti falsi libri. …».
Pavese risponde con
altrettanto apprezzamento e una proposta di collaborazione:
«Caro
Vittorini, la tua lettera mi consola assai. Sento dire un gran bene
delle tue Conversazioni in Sicilia ovvero Nome e Lagrime, per esempio
da G. Pintor, che ti saluta. Anzi, parlandone con Einaudi, ci è
venuto fatto di riflettere… ed Einaudi ti propone quanto segue. Se
non sei legato malamente con Parenti, perché non ristampare in 1500
o 2000 copie il tuo volume nella Biblioteca della Struzzo? Ti sarai
fatto un’idea della collezione dal carattere del mio libro, che
beninteso non intende essere un limite superiore e sarà, col suo
autore, lietissimo di farsi compagnia con pagine tanto fini come sono
le tue. …”. Elio Vittorini non può accettare la proposta per
impegni precedenti con altri editori, ma nella risposta riprende
ancora le considerazioni su Paesi tuoi: “… Tornando al tuo libro,
come ho sentito vociferare in proposito di americanismo e citare
particolarmente Steinbeck, voglio essere più preciso della volta
scorsa: io lo trovo di gran lunga migliore dei libri di Steinbeck.
Perché non sanno accorgersi di questo (quando questo c’è) i
nostri critici? La loro paura di passare per fessi fa proprio rabbia.
Ma dimostra una volta di più che sono tali: fessi e ignoranti.»
Questo è il clima di
lavoro che si respira nella splendida “officina”; fuori,
purtroppo, imperversa prima la guerra e poi la guerra civile. Nel
corso del ’43 e poi nel ’44 anche l’officina si dovrà fermare.
Non solo, ma nel gruppo di livello forse irripetibile mancheranno
alla fine di quel dannato periodo due colonne, uno dei più “vecchi”
(Leone Ginzburg) e il più giovane (Giaime Pintor). Perdite
irrimediabili di persone insostituibili, per livello intellettuale e
struttura umana.
Giaime Pintor
Giaime Pintor muore il 1°
dicembre del ’43 a Castelnuovo di Volturno, mentre tenta di
attraversare il fronte e recarsi nel Lazio per organizzare l’attività
partigiana. Qualche giorno prima di morire aveva scritto una lettera
al fratello, che riportiamo per intero perché dà un’idea precisa
della struttura umana oltre che intellettuale di questo ragazzo di 24
anni:
«In
realtà la guerra, ultima fase del fascismo trionfante, ha agito su
di noi più profondamente di quanto risulti a prima vista. La guerra
ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha
costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli
che minacciano i presupposti di ogni vita individuale, li ha persuasi
che non c'è possibilità di salvezza nella neutralità e
nell'isolamento. Nei più deboli questa violenza ha agito come una
rottura degli schemi esteriori in cui vivevano: sarà la «generazione
perduta » che ha visto infrante le proprie «carriere»; nei più
forti ha portato una massa di materiali grezzi, di nuovi dati su cui
crescerà la nuova esperienza.
Senza la guerra io sarei
rimasto un intellettuale con interessi prevalentemente letterari,
avrei discusso i problemi dell'ordine politico, ma soprattutto avrei
cercato nella storia dell'uomo solo le ragioni di un profondo
interesse, e l'incontro con una ragazza o un impulso qualunque alla
fantasia avrebbero contato per me più di ogni partito o dottrina.
Altri amici, meglio disposti a sentire immediatamente il fatto
politico, si erano dedicati da anni alla lotta contro il fascismo.
Pur sentendomi sempre più vicino a loro, non so se mi sarei deciso a
impegnarmi totalmente su quella strada: c'era in me un fondo troppo
forte di gusti individuali, d'indifferenza e di spirito critico per
sacrificare tutto questo a una fede collettiva. Soltanto la guerra ha
risolto la situazione, travolgendo certi ostacoli, sgombrando il
terreno da molti comodi ripari e mettendomi brutalmente a contatto
con un mondo inconciliabile.
Credo che per la maggior parte dei miei coetanei questo passaggio sia stato naturale: la corsa verso la politica è un fenomeno che ho constatato in molti dei migliori, simile a quello che avvenne in Germania quando si esaurì l'ultima generazione romantica. Fenomeni di questo genere si riproducono ogni volta che la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze di una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere a un estremo pericolo. Una società moderna si basa su una grande varietà di specificazioni, ma può sussistere soltanto se conserva la possibilità di abolirle a un certo momento per sacrificare tutto a un'unica esigenza rivoluzionaria. È questo il senso morale, non tecnico, della mobilitazione: una gioventù che non si conserva «disponibile», che si perde completamente nelle varie tecniche, è compromessa. A un certo momento gli intellettuali devono essere capaci di trasferire la loro esperienza sul terreno dell'utilità comune, ciascuno deve sapere prendere il suo posto in una organizzazione di combattimento.
Questo vale soprattutto
per l'Italia. Parlo dell'Italia non perché mi stia più a cuore
della Germania o dell'America, ma perché gli italiani sono la parte
del genere umano con cui mi trovo naturalmente a contatto e su cui
posso agire più facilmente. Gli italiani sono un popolo fiacco,
profondamente corrotto dalla sua storia recente, sempre sul punto di
cedere a una viltà o a una debolezza. Ma essi continuano a esprimere
minoranze rivoluzionarie di prim'ordine: filosofi e operai che sono
all'avanguardia d'Europa.
L'Italia è nata dal
pensiero di pochi intellettuali: il Risorgimento, unico episodio
della nostra storia politica, è stato lo sforzo di altre minoranze
per restituire all'Europa un popolo di africani e di levantini. Oggi
in nessuna nazione civile il distacco fra le possibilità vitali e la
condizione attuale è così grande: tocca a noi di colmare questo
distacco e di dichiarare lo stato d'emergenza.
Musicisti e scrittori
dobbiamo rinunciare ai nostri privilegi per contribuire alla
liberazione di tutti. Contrariamente a quanto afferma una frase
celebre, le rivoluzioni riescono quando le preparano i poeti e i
pittori, purché i poeti e i pittori sappiano quale deve essere la
loro parte. Vent'anni fa la confusione dominante poteva far prendere
sul serio l'impresa di Fiume. Oggi sono riaperte agli italiani tutte
le possibilità del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non
sia fine a se stesso. Quanto a me, ti assicuro che l'idea di andare a
fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho
mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di
essere un ottimo traduttore un buon diplomatico, ma secondo ogni
probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica
possibilità aperta e l’accolgo.
Se non dovessi tornare non mostratevi inconsolabili. Una delle poche certezze acquistate nella mia esperienza è che non ci sono individui insostituibili e perdite irreparabili. Un uomo vivo trova sempre ragioni sufficienti di gioia negli altri uomini vivi, e tu che sei giovane e vitale hai il dovere di lasciare che morti seppelliscano i morti. Anche per questo ho scritto a te e ho parlato di cose che forse ti sembrano ora meno evidenti ma che in definitiva contano più delle altre. Mi sarebbe stato difficile rivolgere la stessa esortazione alla mamma e agli zii, e il pensiero della loro angoscia è la più grave preoccupazione che abbia in questo momento. Non posso fermarmi su una difficile materia sentimentale, ma voglio che conoscano la mia gratitudine: il loro affetto e la loro presenza sono stati uno dei fattori positivi principali nella mia vita. Un’altra grande ragione di felicità è stata l'amicizia, la possibilità di vincere la solitudine istituendo sinceri rapporti fra gli uomini.
Gli amici che mi sono
stati più vicini, Kamenetzki, Balbo, qualcuna delle ragazze che ho
amato, dividono con voi questi sereni pensieri e mi assicurano di non
avere trascorso inutilmente questi anni di giovinezza.
Giaime»
Natalia e Leone Ginzburg
Leone Ginzburg era stato
arrestato dal fascismo e internato a Pizzoli nel giugno del 1940,
fino alla caduta del regime. Liberato nel 1943, fu a Roma uno degli
animatori della Resistenza; nuovamente catturato e incarcerato
a Regina Coeli, fu torturato dai tedeschi perché rifiutò di
collaborare. Morì in carcere in conseguenza delle torture subite, il
5 febbraio 1944. Di lui Norberto Bobbio dice:
«La nostra classe, o per
lo meno alcuni di noi, avevano acquistato una speciale sensibilità
[...] per la presenza di un giovane precocissimo, che aveva, a
quindici anni – quando entrò al d'Azeglio come studente di prima
liceo – tal vastità di cultura, tal maturità di giudizio e tal
altezza di coscienza morale da suscitar meraviglia nei professori –
e uno di quei professori lo ha chiamato discepolo maestro – e
schietta ammirazione, senza invidia, nei compagni: parlo di Leone
Ginzburg.»
Poco prima di morire,
Leone Ginzburg scrive una lettera alla moglie; ne riportiamo dei
frammenti per il loro significato generale, e perché ci fanno capire
l’uomo. E, di conseguenza, la perdita che abbiamo avuto con la sua
morte:
«Natalia
cara, amore mio
ogni volta spero che non
sia l’ultima lettera che ti scrivo, prima della partenza o in
genere; e così è anche oggi. ….
Gli auspici, dunque, non
sono lieti; ma pazienza. Comunque, se mi facessero partire non
venirmi dietro in nessun caso. Sei molto più necessaria ai bambini,
e soprattutto alla piccola. E io non avrei un’ora di pace se ti
sapessi esposta chissà per quanto tempo a dei pericoli, che
dovrebbero presto cessare per te, e non accrescersi a dismisura. So
di quale conforto mi privo a questo modo; ma sarebbe un conforto
avvelenato dal timore per te e dal rimorso verso i bambini. Del
resto, bisogna continuare a sperare che finiremo col rivederci, e
tante emozioni si comporranno e si smorzeranno nel ricordo, formando
di sé un tutto diventato sopportabile e coerente. Ma parliamo
d’altro.
Una delle cose che più
mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e
qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali
dinanzi al pericolo personale. Cercherò di conseguenza di non
parlarti di me, ma di te. La mia aspirazione è che tu normalizzi,
appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e
sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti;
invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di
responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle
troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività
sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre
persone, per il quale io ti ero così spesso l’unico ponte di
passaggio.
A ogni modo, avere i
bambini significherà per te avere una grande riserva di forza a tua
disposizione. Vorrei che anche Andrea si ricordasse di me, se non
dovesse più rivedermi. Io li penso di continuo, ma cerco di non
attardarmi mai sul pensiero di loro, per non infiacchirmi nella
malinconia. Il pensiero di te invece non lo scaccio, e ha quasi
sempre un effetto corroborante su di me. Rivedere facce amiche, in
questi giorni, mi ha grandemente eccitato in principio, come puoi
immaginare. Adesso l’esistenza si viene di nuovo normalizzando, in
attesa che muti più radicalmente. …
Ma non voglio perderti,
….e non voglio che tu ti perda nemmeno se, per qualche caso, mi
perderò io. … Bacia i bambini. Vi benedico tutti e quattro, e vi
ringrazio di essere al mondo. …
Non ti preoccupare troppo
per me. Immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono
tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza
torneranno. Auguriamoci di essere nel maggior numero, non è vero,
Natalia?
Ti bacio ancora e ancora e ancora. Sii coraggiosa.
Leone»
Da http://cedocsv.blogspot.it/2016/10/cesare-pavese-officina-einaudi.html
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