Ezra Pound giovane
Rendi forti i vecchi sogni
perché questo nostro mondo non perda coraggio
a lume spento
Rendi forti i vecchi sogni
perché questo nostro mondo non perda coraggio
a lume spento
Giorgio Agamben
Pound, non finisce mai
il naufragio dell’Occidente
Non si comprende l’opera di Pound se non la si colloca innanzitutto nel suo contesto proprio. Questo contesto coincide con una frattura senza precedenti nella tradizione dell’occidente, una frattura da cui l’occidente non soltanto non è ancora uscito, ma nemmeno potrà farlo se non sarà prima in grado di misurarne la portata in ogni senso decisiva. Dopo la fine della prima guerra mondiale era, infatti, chiaro per chi avesse mantenuto la lucidità, che qualcosa di irreparabile si era prodotto in Europa e che il nesso tra passato e presente si era spezzato.
Che i primi a rendersene
conto siano stati i poeti e gli artisti non deve stupire, poiché è
ad essi che incombe in ogni tempo la trasmissione di ciò che vi è
di più prezioso: la lingua e i sensi. Non si può nemmeno porre il
problema delle avanguardie poetiche del Novecento se non s’intende
preliminarmente che esse sono il tentativo di rispondere – con
maggiore o minore consapevolezza secondo i casi – a questa
catastrofe: esse non hanno a che fare con la poesia e con le arti, ma
con la loro radicale impossibilità, col venir meno delle condizioni
che le rendevano possibili.
La trasposizione in termini estetico-mercantili della crisi epocale che si era espressa nelle avanguardie è, per questo, una delle pagine più vergognose della storia dell’occidente, di cui i musei di arte contemporanea rappresentano oggi l’estrema e più ignava propaggine. Ciò in cui ne andava della stessa possibilità della sopravvivenza dell’uomo in quanto essere spirituale viene ridotto a un fenomeno di moda e liquidato una volta per tutte in forma di produzione di nuove merci […].
Soltanto in questo
contesto l’opera di Pound – almeno a partire dai primi Cantos –
diventa intellegibile. Egli è il poeta che si è posto con più
rigore e quasi con «assoluta sfacciataggine» di fronte alla
catastrofe della cultura occidentale. Ben più decisamente di Eliot,
egli dimora in questa «terra devastata» – un inferno che, come
egli suggerisce nel canto XLVII non si può credere, come ha fatto il
«reverendo Eliot», di «attraversare in fretta».
Ma proprio per questo,
per lui «tutte le età sono contemporanee» ed egli può riferirsi
immediatamente all’intera storia della cultura, da Omero a
Cavalcanti, da Mani a Mussolini, da Dante a Browning, da Persefone a
Woodrow Wilson, da Confucio a Arnaut Daniel. «Soltanto Pound» ha
detto Eliot «è capace di vederli come esseri viventi» – a
condizione di precisare che, nei Cantos, essi sono in verità
soltanto frantumi, che sbucano per un attimo dal Lethe e
incessantemente si rituffano in esso […].
Se la tradizione è accessibile solo come scheggia e frammento, il poeta a caccia di forme non vede davanti a sé che macerie – anche se queste sono, almeno per lui, vive e vitali proprio in quanto frammenti. Il suo canto inaudito è intessuto di questi lacerti, che, una volta esaurita la loro funzione, non sopravvivono a esso. Di qui l’impressione di artificiosità, così spesso ingiustamente rimproverata alla sua poesia: Pound procede come un filologo che, nella crisi irrevocabile della tradizione, prova a trasmettere senza note a piè di pagina la stessa impossibilità della trasmissione.
Nella frase del Canto 76,
in cui egli evoca se stesso come scriptor di fronte al naufragio
dell’Europa, il termine sarà ovviamente da intendere «scriba»,
non scrittore. Di fronte alla distruzione della tradizione, egli
trasforma la distruzione in un metodo poetico e, in una sorta di
acrobatica «distruzione della distruzione» mima ancora, come
copista, un atto di trasmissione. In che misura questo atto riesca,
in che misura, cioè, il testo illeggibile, in cui un ideogramma
cinese sta accanto a una parola greca e un vocabolo provenzale
risponde a un emistichio latino, possa essere veramente letto è una
questione a cui non è possibile rispondere sbrigativamente.
La verità e la grandezza di Pound coincidono – cioè si pongono e cadono – con la risposta a queste domande [...]. Di qui l’importanza di quegli scritti in prosa – come quelli di cui questo volume fornisce un’ampia testimonianza – in cui Pound espone le sue idee sulla poesia, sull’economia e la politica. Questi scritti sono a tal punto parte integrante della sua produzione poetica, che si è potuto a ragione affermare che «i Cantos sono ovviamente l’esposizione di una teoria economica che cerca nella storia una esemplificazione».
Come un poeta
arcaico, Pound si sente responsabile dell’intero paideuma (come
egli ama dire, usando un termine di Frobenius) dell’occidente in
tutti i suoi aspetti. «Usura», «denarolatria» e, alla fine,
«avarizia» sono i nomi che egli dà al sistema mentale –
simmetricamente opposto allo «stato mentale eterno» che, secondo il
primo assioma di Religio, definisce la divinità – che ne ha
determinato il collasso e che domina ancora oggi – ben più che ai
suoi tempi – i governi delle democrazie occidentali, dediti
concordemente, anche se con maggiore o minore ferocia,
all’«assassinio tramite capitale».
Non è qui il luogo
per valutare in che misura, malgrado le sue illusioni sui «popoli
latini» e sul fascismo, le teorie economiche di Pound siano ancora
attuali. Il problema non è se la geniale moneta di Silvio Gesell,
che tanto lo affascinava e sulla quale, per impedirne la
tesaurizzazione, si deve applicare ogni mese una marca da bollo
dell’un per cento del suo valore, sia o meno realizzabile: decisivo
è, piuttosto, che, nelle intenzioni del poeta, essa denuncia quella
«possibilità di strozzare il popolo attraverso la moneta» che egli
vedeva non senza ragione alla base del sistema bancario moderno.
Che il poeta che aveva
percepito con più acutezza la crisi della cultura moderna abbia
dedicato un numero impressionante di opuscoli ai problemi
dell’economia è, in questo senso, perfettamente coerente. «Gli
artisti sono le antenne della razza. Gli effetti del male sociale si
manifestano innanzitutto nelle arti. La maggior parte dei mali
sociali sono alla loro radice economici».
La Stampa TuttoLibri –
1 ottobre 2016
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