L’
autobiografia di Antonino Uccello, pubblicata un anno dopo la sua morte, si
chiude con queste parole:
“ Un
giorno d’estate sopraggiunse da Priolo una comitiva di dirigenti della
Montedison per visitare la Casa-museo. Prima di accomiatarsi uno della comitiva
si staccò e mi disse: avevate questa
ricchezza e avete chiamato noi per distruggerla. Mi riportò al lontano
dopoguerra. Intorno al 1948 dovetti tornare da solo dalla Lombardia a Palazzolo
per pochi giorni, in pieno aprile. Attraversata Augusta con le sue ancora
intatte saline – i mucchi di sale, le sequenze di tegole per coprirli, i
riquadri di mare che specchiavano scorci di cielo – nei pressi di una delle
tante stazioncine, quando il treno sembra quasi sostare, m’apparve dal
finestrino un campo di lino coi suoi fiori turchini, come fosse una proiezione
dello Jonio. I contadini degli Iblei, che allora rare volte nella vita avevano
la possibilità di vedere il mare, lo definivano u linu ciurutu, un campo di lino in fiore.
Forse pensavo di rivivere per me e per
gli altri questa antica, incontaminata bellezza, in un tempo giusto con amore, come contrassegnava Bach l’esecuzione di
certa sua musica.
Abbiamo vissuto e viviamo la vicenda di questo museo in sincronia col
nostro tempo, nel contesto di una società contraddittoria sospinta da mutamenti
in profondo, che giorno dopo giorno si carica di sempre nuove tensioni e
violenze. Per questo forse mi vengono in mente alcuni versi di una poesia di
Brecht dedicata A coloro che verranno:
Quali tempi sono questi, quando
discorrere d’alberi è quasi un delitto,
perché su troppe stragi comporta silenzio!
Il poeta
concludeva:
Oh, noi
che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,
noi non si potè essere gentili.
Ma voi, quando sarà venuta l’ora
che all’uomo un aiuto sia l’uomo,
pensate a noi
con indulgenza.
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