Prescindo da molte delle critiche alla proposta di
riforma costituzionale, già sollevate da costituzionalisti,
commentatori e politici, che in larga parte condivido. Le ragioni
specifiche che mi determinano a votare no sono fondamentalmente tre.
Primo. Gli articoli della costituzione
possono ovviamente essere modificati. Non però all'ingrosso ma al
minuto. Tema per tema, uno alla volta, con emendamenti soppressivi o
correttivi. Per coinvolgere i cittadini consentendo loro di capire
davvero la necessità e le ragioni del cambiamento di una norma. Ora
invece si pretenderebbe di cambiare, in un colpo solo, oltre un
terzo degli articoli della Carta.
Per quanto mi riguarda continuo a credere nella
lezione di Dossetti (ricordata recentemente anche da Raniero La
Valle) il quale non si stancava di spiegare che deve essere sempre
cercata una corrispondenza tra la costituzione e lo spirito del
Paese. Nel senso che le Costituzioni non precedono la società, ma ne
sono l'espressione proiettata in avanti. La Costituzione del '48
infatti fu la conseguenza della grande rigenerazione spirituale,
sociale e culturale prodotta dall'immenso dolore della guerra, e da
sentimenti di eguaglianza, libertà, dignità, solidarietà che erano
radicati nelle masse prima di giungere alla formulazione
costituzionale. Tuttavia, non si deve ritenere che solo i valori
fossero legati allo spirito pubblico di quel tempo e non anche le
scelte dei costituenti sulle forme e le regole del sistema politico.
Ad esempio, è evidente che il ritrovato pluralismo politico,
affratellato nel sangue della Resistenza e nel percorso verso la
costituente, faceva ritenere scontate, da non dovere essere nemmeno
menzionate nel testo costituzionale, le modalità e le forme per la
formazione della rappresentanza.
Né meno forte è stato il sentimento diffuso e la
rivalsa tra il passaggio alla Repubblica e la forma politica che
l'Italia aveva avuto fino ad allora Sentimento che trovava nel
Parlamento la sua massima espressione simbolica e reale. Caduto il re
il Parlamento era il sovrano. Ovvero la sovranità visibile del
popolo. Per questo, proprio perché c'era stato un Senato del Regno
doveva esserci un Senato della Repubblica. E poiché il Senato in
precedenza era di nominati a vita doveva ora essere formato da eletti
dal popolo, per realizzare non solo un parlamentarismo differenziato
nel rapporto con il governo, ma anche nel rapporto con il territorio.
Oltre tutto c'erano pure delle ragioni più profonde
che hanno spinto la Costituente a puntare su un parlamentarismo
leale, forte e rappresentativo di tutta la società. La prima era il
grande prestigio di cui era circondata la rappresentanza repubblicana
che veniva dall'impegno politico antifascista, dal confino, dalle
carceri, dalla clandestinità. Era una classe politica che, nella
sua maggioranza conduceva vita austera, era mal pagata e non era
sospettabile di intenzioni di carrierismo. La seconda era il rispetto
e la stima che non solo circondava la rappresentanza politica, ma
anche il legame di importanti masse popolari con i loro partiti e
nello stesso tempo di reciproco rispetto, con marginali eccezioni,
dei rappresentanti politici tra loro, pur essendo e restando
avversari politici.
Basterà ricordare le parole di altissima
considerazione che il partigiano Dossetti ebbe a pronunciare
riferendo la testimonianza di un partigiano comunista del reggiano.
Oppure il rapporto di amicizia, durato tutta la vita, di Zaccagnini
con il comandante partigiano comunista Bulov. Infine c'era il senso
comune che l'uscita dell'Italia dalla pesante situazione del
dopoguerra era possibile con uno sforzo che richiedeva la rinuncia di
ciascuno alla pretesa di attuare esclusivamente i propri interessi,
le proprie idee personali, o di parte. Purtroppo da tempo questa
armonia si è rotta.
Uno sviluppo economico sregolato e tumultuoso, un
importante mutamento dei costumi, ripetuti sovvertimenti dell'ordine
economico e politico internazionale ed infine lo tsunami mediatico
hanno inaridito e reciso i legami sociali, senza che le grandi
strutture religiose, sociali, culturali ed informative fornissero la
linfa per rigenerarli.
Sicché né le culture politiche, né la dialettica
politica quotidiana, né i comportamenti dei cittadini si sono
dimostrati all'altezza delle nuove sfide. Non si sono saputo produrre
analisi e proposte adeguate. Con la ammirevole eccezione di Papa
Francesco, praticamente nessuno ha saputo contrastare il potere
incontrastato del denaro, delle scandalose ineguaglianze, sia a
livello mondiale che nazionale, dell'economia che uccide.
Quindi oggi la società è più barbara da quella in
cui è stata concepita e realizzata la Costituzione del '48. Secondo
le statistiche europee in Italia ci sono 7 milioni di poveri. Ma sono
solo dei numeri, non delle facce, delle dolorose storie personali e
famigliari. La svalutazione del lavoro viene giustificata come strada
obbligata per assicurare la competizione produttiva. Infine il
primato della finanza e della speculazione rispetto all'economia
reale continua e cresce sostanzialmente indisturbato. Al punto che
sessantadue persone nel mondo vantano una ricchezza pari a quella di
tre miliardi e mezzo di persone.
In questo quadro ci sono motivi per ritenere che la
riforma costituzionale non posa nemmeno essere considerata una
priorità assoluta. in ogni caso deve essere affrontata con estrema
ponderazione e senso del limite. Il che non è quando ci si propone
di riscrivere interamente la seconda parte della Costituzione. Cioè
un pacchetto di 47 articoli. Dimenticando che le modifiche
costituzionali non sono un semplice esercizio di scrittura. Oltre
tutto in questo caso mal riuscito.
Teniamo presente che quando si scrive in un
documento solenne come la Costituzione, nato dalla Resistenza e
quindi dal sacrificio di tante vite umane, che la Repubblica ha il
compito di rimuovere gli ostacoli, che limitando di fatto
l'eguaglianza tra le persone che non consentono l'effettiva
partecipazione dei lavoratori alla vita economica, sociale,
culturale, civile alla vita del paese, si è detto moltissimo.
Praticamente tutto. Perché si è caricata la Repubblica di un
impegno perenne, continuo. Non fosse altro perché si è data ad essa
un traguardo ed un orizzonte che non è mai definitivamente e
pienamente raggiungibile. Il che naturalmente nulla toglie al fatto
che questo fine debba essere continuamente ed instancabilmente
perseguito. Con il contributo dello Stato e la contestuale
partecipazione dei gruppi sociali intermedi. In pratica dell'intera
società.
Questa concezione spiega perché diversi padri
costituenti si siano sempre opposti alle ricorrenti pretese di
progetti di stravolgimento della Costituzione. Infatti, come molti
ricorderanno, ciò si è verificato sia in rapporto al disegno
definito "organico" elaborato dalla commissione Bicamerale
presieduta da D'Alema, affossato prima di arrivare al voto
parlamentare. Ed una decina di anni dopo al tentativo pericoloso e
confuso del centro-destra, definito a "blocchi" e riferito
all'intera parte seconda della Costituzione, bocciato dal voto
popolare. E' opportuno richiamare questi precedenti perché un
cambiamento integrale della seconda parte della Costituzione è stato
riproposto dal governo, presentandolo come indispensabile, cruciale.
Ed è appunto sulla sua proposta che il 4 dicembre si svolgerà il
referendum.
L'aspetto che colpisce e preoccupa è che il premier
ha considerato il percorso che si concluderà con il voto
referendario "una occasione storica che va assolutamente colta"
ed alla quale si lega la "vita del governo e della legislatura",
anche se successivamente ha in parte cambiato versione. Per altro, la
domanda che ci si deve porre è: perché mai deve essere il governo
ad assumersi il compito di formulare a far camminare una riforma
costituzionale, al punto di ipotecare la vita del governo e la durata
della legislatura?
Il fatto è che attorno al tema di una radicale
revisione costituzionale si è da tempo concentrata una enfasi
mediatica (con motivazioni diverse e, non di rado, opposte) al punto
da farla considerare una questione ineludibile. Da qui la speranza (o
l'illusione) per la maggioranza di governo di poterne lucrare
popolarità e consenso. Di fronte a questo calcolo ritengo, per
quanto li ho conosciuti, che cristiani di sinistra, "repubblicani"
democratici ed autentici, come: Dossetti, La Pira, Lazzati, Don
Mazzolari ed altri, non avrebbero esitato a rispondere con Luca (Lc
6, 26) "Guai a voi quando tutti gli uomini diranno bene di
voi!". Ma forse erano, non solo altri tempi, ma soprattutto
altri uomini. Con una tensione democratica ed una moralità politica
pubblica, oggi largamente sconosciuta.
Secondo. Una scelta condivisa avrebbe potuto
essere quella di concentrare il dibattito e la proposta di riforma su
un solo punto: il superamento del bicameralismo perfetto.
Anche se, per la verità, contrariamente a diffuse interpretazioni,
analizzando i dati della produzione parlamentare, non sembra essere
questa la causa principale dei ritardi legislativi. La spiegazione
dell'impotenza e paralisi che spesso si verifica va piuttosto
ricercata nelle contrapposizioni politiche ed interne ai vari gruppi
parlamentari. In ogni caso su tale questione si sarebbe potuto,
presumibilmente, realizzare un largo consenso.
Invece, inserita nel calderone della riscrittura dell'intera seconda
parte della Costituzione ne è sortito un obbrobrio. Nel senso che,
secondo la proposta sottoposta a referendum il bicameralismo perfetto
verrebbe sostituito da un bicameralismo confuso e pasticciato. Del
resto basta leggere l'articolo relativo alle competenze del nuovo
Senato (composto da Sindaci e da Consiglieri regionali, con il
risultato che presumibilmente finiranno per non assolvere bene né
l'uno né l'altro compito) per farsi una idea che quel garbuglio
diventerà sopratutto fonte di contenziosi e di conflitti, rendendo
ancora più e lunga e complicata l'attività legislativa.
Terzo. Il collegamento tra la riscrittura di
47 articoli della Costituzione e la legge elettorale (Italicum) desta
comprensibilmente motivi, non solo di grave preoccupazione, ma anche
di rigetto. La ragione è semplice. La legge elettorale ha infatti un
carattere oligarchico che finirebbe per indebolire ulteriormente
il già fragile tessuto democratico e l'indispensabile divisione dei
poteri. Il premier che per diverso tempo l'ha difesa a spada tratta
ora si dichiara disposto a discuterne ed eventualmente a modificarla.
Al momento però non è chiaro se, come e quando ciò si
verificherà. E, soprattutto, quali potranno essere i possibili
esiti.
Sono quindi convinto che ci siano più che fondate
ragioni per votare No al referendum del 4 dicembre.
Roma, 2 ottobre 2016 Pierre Carniti
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