Esce «Born to run»
di Bruce Springsteen, non solo autobiografia ma anche storia di un
tempo e di un luogo, l'America operaia e giovanile degli anni '60 e
'70.
Alessandro Portelli
Pastorale
springsteeniana. L’America del Boss
«Le parole vorticavano
impetuose come una tempesta, schiantandosi l’una contro l’altra
senza ritegno»: è Bruce Springsteen che parla del suo primo disco.
Ma vale anche per questo libro, Born to run (Mondadori).
Springsteen è anche un artista della parola; e la prima cosa che si
chiede a un libro è che sia un atto di parola sostenuto, competente
e godibile. Questo lo è: non la solita autobiografia di star –
anche se a volte rischia di scivolarci dentro – descrizioni di
concerti, cene con i Vip… – ma un’autobiografia vera.
Da un’autobiografia ci
si aspetta in primo luogo che la persona che scrive di sé sia anche
rappresentativa, che la sua sia anche la storia di un tempo e di un
luogo. La città di Freehold, le case e le mezze case della famiglia
Springsteen le tocchiamo, le sentiamo, le odoriamo, con tutti quelli
che ci vivono dentro.
La musica è la chiave
con cui Springsteen spiega questo mondo, ma questo mondo è anche la
chiave che ci fa capire come nasce la musica. L’entusiasmo – la
notte, le ragazze, le macchine – di tante canzoni di Springsteen
acquista profondità e ambiguità perché sullo sfondo dei luoghi e
nel futuro dei personaggi stanno periferie proletarie dove vivere,
fuggire, tornare: «Per raccontare la loro vita occorreva un mix tra
il romanticismo cupo e violento del doo-wop, il vigoroso realismo del
soul e quella vaga promessa di ascesa sociale offerta dalla Motown.
L’atteggiamento
alternativo degli Stones e dei loro colleghi negli anni Sessanta non
rispecchiava l’esperienza di quei ragazzi. E chi se lo poteva
permettere? C’era da lottare, stringere i denti, lavorare,
proteggere ciò che era tuo, restare fedele ai tuoi compagni, ai tuoi
antenati, alla famiglia, al territorio, ai fratelli e sorelle
greaser, alla patria. Erano queste le cose che ti rimanevano quando
tutto il resto si sgretolava, quando le mode passavano e mettevi
incinta la tua ragazza, quando tuo padre finiva in galera o perdeva
il lavoro e toccava a te rimboccarti le maniche».
In secondo luogo, ci
aspetta la ricostruzione di un percorso: come l’io narrato diventa
l’io narrante. Avevano ragione i suoi genitori, scrive Springsteen:
la possibilità che «il quindicenne foruncoloso di Freehold, New
Jersey, con la sua chitarra Kent da due soldi» sarebbe stato l’unico
a salire un giorno sul palco coi Rolling Stones, suoi idoli
adolescenziali (e davanti a centomila romani al Circo Massimo) era
«una su un milione». Come è successo? «Non ero nato genio. Per
sopravvivere in quel mondo avrei dovuto metterci tutto me stesso,
l’astuzia, le doti musicali, la presenza scenica, l’intelligenza,
il cuore e la volontà». Genio, diceva Thomas Edison, è «uno
percento ispirazione, novantanove percento sudore». «Ho lasciato
abbastanza sudore sui palchi di tutto il mondo da riempire almeno uno
dei sette mari», scrive Springsteen.
È l’etica operaia
trasferita nella musica (gli Steel Mill: «musica operaia,
fragorosamente chitarristica con sonorità di matrice Southern
rock»); ma è «sudore» anche il lavoro mentale, l’intelligenza:
«la mia Asbury Park era un’isola di disadattati e colletti blu,
intelligenti ma non intellettuali» (il corsivo è mio!).
Ma il sudore non è tutto: quell’un percento, che Springsteen chiama «talento» è intangibile e inspiegato. Dice una canzone di Iris Dement: «let the mystery be», accettiamo il mistero. E un po’ di mistero è bene che rimanga anche qui.
Infine, ci si aspetta un
percorso di conoscenza di sé, un modo per esplorarsi scrivendo. C’è
una parola inattesa che ricorre più volte: «rabbia» – accumulata
nell’infanzia cattolica, covata ed esplosa da suo padre nel
silenzio e nella birra, interiorizzata e repressa fino a inquinare i
rapporti più profondi: un «abisso in cui rabbia, paura, sfiducia,
insicurezza e una misoginia di matrice famigliare facevano a pugni
con le mie doti migliori».
C’è una felicità,
scrive, che è «la sorella allegra della depressione». Come
l’euforia delle canzoni giovanili stava sullo sfondo della violenza
di classe, così lo Springsteen atletico e vitalistico che vediamo
sul palco è anche l’esorcismo di depressioni ricorrenti e curate
con l’analisi e i farmaci, e con il lavoro di scrivere questo
libro.
«Ho passato la vita a
combattere, studiare, suonare e lavorare, perché volevo ascoltare e
conoscere tutta la storia, la mia storia per potermi liberare dalle
sue influenze più deleterie Non so se ci sono riuscito, il diavolo è
sempre dietro l’angolo, ma so che è quanto mi sono impegnato a
fare da giovane, con me stesso e con te».
Il manifesto – 5
ottobre 2016
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