«Nessuno mi può
costringere ad essere felice a suo modo (cioè come egli immagina il
benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua
felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi
pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo,
in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni
altro secondo una possibile legge universale». Così nel 1784 Kant
prefigura il rischio ciò che noi chiameremo due secoli più tardi
totalitarismo.
Giuseppe
Bedeschi
La libertà di essere
un fine
Benché Kant abbia tenuto, tra il 1767 e il 1788, dodici corsi universitari sul diritto naturale, a noi è rimasta una sola trascrizione manoscritta: quella del semestre estivo del 1784 (nota come Naturrecht Feyerabend, dal nome del suo possessore), che esce ora per la prima volta in traduzione italiana (presso Bompiani), a cura di Gianluca Sadun Bordoni, il quale ha premesso al testo kantiano una acuta introduzione e vi ha apposto un ricco apparato di note.
Il cosiddetto Naturrecht Feyerabend è un testo di grandissimo interesse: infatti, mentre svolgeva tale corso, Kant ultimò la redazione della Metafisica dei costumi: di qui i numerosi parallelismi tra le due opere, a volte assai stretti, che meritano di essere considerati attentamente.
Al centro della meditazione kantiana è il nesso libertà-ragione. Già nelle lezioni di filosofia morale degli anni settanta Kant aveva detto che «la libertà è il grado più alto della vita» ed è «il valore intrinseco del mondo». Il manoscritto del 1784 svolge su questo punto considerazioni assai importanti. «Il valore intrinseco dell’uomo – dice il filosofo – si fonda sulla sua libertà, sul fatto che egli possiede una propria volontà. Dato che egli deve essere il fine ultimo, la sua volontà non deve dipendere da null’altro».
Anche gli animali hanno una volontà, ma non hanno una volontà propria, bensì la volontà della natura. La libertà dell’uomo, invece, è la condizione sotto la quale l’uomo può essere un fine in se stesso, nel senso che egli regola le proprie azioni secondo fini degni di lui, e quindi non tratta (non deve trattare mai) i propri simili come mezzi.
Perciò alla libertà
umana è indissolubilmente connessa la ragione. Infatti, “senza
ragione un ente non può essere fine in se stesso: perché non può
essere cosciente della sua esistenza, non può riflettere su di
essa”. Ma attenzione: la ragione non costituisce ancora la causa
per cui l’uomo è scopo in se stesso. Noi vediamo infatti che la
natura produce negli animali attraverso l’istinto ciò che la
ragione scopre attraverso tortuosi cammini.
Separata dalla libertà,
la ragione può ricadere interamente nel meccanismo della natura: in
tal modo noi non saremmo migliori degli animali. Dunque, soltanto la
libertà fa sì che noi siamo scopi in sé. «Qui abbiamo la capacità
di agire secondo il nostro proprio volere», e quindi di perseguire
le finalità più alte.
Kant non esita ad affermare di non sapere «come io possa comprendere tale libertà». E tuttavia, egli dice, essa è un’ipotesi necessaria, se devo pensare enti razionali come scopi in sé. Se l’ente umano non è libero, allora egli è nelle mani di un altro, dunque è sempre scopo di un altro, cioè è un semplice mezzo. «La libertà quindi non è solo la condizione suprema, ma anche quella sufficiente».
La libertà diventa così la chiave di volta tanto del mondo morale quanto del mondo etico-politico.
Infatti per Kant uno dei
princìpi a priori sui quali deve essere fondato lo Stato in quanto
Stato giuridico, è la libertà. Tale principio significa, dice il
filosofo, che «nessuno mi può costringere ad essere felice a suo
modo (cioè come egli immagina il benessere degli altri uomini), ma
ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra
buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di
tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa
coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge
universale (cioè non leda questo diritto degli altri)».
Sicché Kant affermava in modo perentorio che un governo paternalistico, in cui i sudditi, come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro utile o dannoso, sono costretti ad aspettare che il Capo dello Stato giudichi in qual modo essi devono essere felici, è il peggior dispotismo che si possa immaginare.
Il Sole 24 Ore – 9
ottobre 2016
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