Karen Blixen. Quando Ulisse diventa Omero
Nadia Fusini
Dovremmo leggere io credo
questo Isak Dinesen. La vita di Karen Blixen (di Judith
Thurman, pubblicato da Feltrinelli) come l’ultima storia che Isak
Dinesen - la conteuse ci racconta. L’ottava storia gotica,
il più invernale dei racconti d’inverno, l’estremo dei capricci
del destino, o l’ultimo degli ultimi racconti — questa storia,
perché potesse essere raccontata, bisognava che la morte finisse la
vita, che il filo (del racconto, della vita) fosse troncato e
Sheherazade venisse alla fine sconfitta, e lasciasse la parola al
sultano. Tuttavia il supremo dei sultani (la morte) non viene: perché
non si spegne la voce. Come in quel casi straordinari, quando la
testa recisa dal tronco rotolando da sotto la mannaia continua pur
sempre le sue smorfie — cosi la voce di Isak Dinesen continua a
narrare attraverso parole che le presta Thurman.
Bell’esemplo di
autobiografia, questo libro stringe insieme necessariamente (perché
così fu per questa scrittrice) la vita e l’opera; sì che l’opera
è qui in verità sempre in primo piano, e la vita ne è
semplicemente il supporto. Quell’opera ebbe bisogno di quella vita:
ecco perché La vita di Karen Blixen importa a chi ami Isak
Dinesen.
Delle sue storie e
racconti la vita di Karen Blixen ha l’essenziale: lo stesso
andamento «capriccioso» e insieme necessario, al cui sviluppo
presiede una forza anonima, divina — in questo caso le tre
terribili dee, le Parche.
Se l’arte del racconto
è divina e il racconto sboccia solo laddove la trama che lo
scrittore inizia incontra la trama degli dei — secondo quanto
afferma il narratore Isak (nome maschile che Karen Blixen si dette
quando appunto iniziò a narrare) — ecce perché la vita di Karen
Blixen è, in senso proprio, il suo racconto più grande, perché in
esso tutto è effettivamente in mano a una volontà che supera l’io
mortale che vive e racconta; tutto fa parte di quel testo anonimo che
per l’uomo trama il Fato, il cui atto iniziale e finale è fuori
della sua portata. Sì che il racconto (e la vita: il racconto della
vita) inizia e si conclude fuori di lui: o quando egli è ancora, o
già, nel fuori del suo cerchio. O piuttosto in esso, ma come
presenza muta: nel silenzio dell’infanzia, o della morte.
All’uomo e al suo
racconto spetta in senso proprio solo l’intermezzo: quegli atti
della commedia tra il secondo e il quarto in cui, nel percorso di un
cammino iniziato da Cloto, e che sarà Atropo a finire, l’uomo si
fa protagonista: eroe che porta la vita come la propria passione o
peripateia. L’azione che l’uomo compie è essenzialmente
l’eroismo con cui «sceglie» ciò che gli è stato «assegnato»:
e di quella sorte (o porzione che gli è stata accordata) fa il passo
che dà il via alla danza. Poiché ogni racconto per il narratore
Isacco è la ripetizione di questo schema cosmogonico; e poiché ogni
racconto è, in questo senso essenziale, il racconto della vita (dove
con quel genitivo si intenda un possesso che è la vita al suo neutro
a possedere); si capirà da ciò come la storia della vita di Karen
Blixen sia per l’appunto il racconto perfetto di Isak Dinesen.
Racconto che Karen
naturalmente non può narrare in prima persona, perché la morte le
ha tolto la parola, quando è venuta a sorprenderla e l’ha trovata
(come il leone di cui racconta ne La mia Africa)
«arrogantemente perfetta, elegante fino all’osso».
Ma se la Morte le toglie
le parole per narrarla, lei tuttavia questa storia l’ha già
raccontata; essa si è venuta disegnando nella trama che gli eventi
hanno tessuto Intorno a lei: e che lei, assumendoli, ha firmato con i
suoi diversi nomi: Karen, Tanne, Tania, baronessa Blixen. In questo
senso allegorica è la sua vita (come quella di ogni uomo, del resto)
perché costruzione che affaccia fondamentalmente su questo
significato: che in ogni esistenza si inscrive un destino, in ogni
vita si ritaglia un portamento — un modo di portare la vita, come
si dice di un abito.
Quel portamento,
risultato di un gesto di conferma o di rifiuto di ciò che il destino
ha portato, è il segno più proprio dell’equivoco umano; l’unico
segno, il più rivelatore, di quell’impossibilità logica di cui
l’uomo fa il suo pane quotidiano: ovvero il suo doversi fare
soggetto e padrone, protagonista ed eroe di ciò che gli accade —
essendo ciò che gli accade precisamente ciò che non ha scelto. In
questo equivoco si situa l’avventura umana; e in quanto portatrice
di questo equivoco ogni vita è allegorica: perché ogni vita porta
su questo segreto, e a questa domanda.
La domanda è: come
quell’uomo (quella esistenza) si è impadronito della
vita? come l’ha fatta propria? come è arrivato a firmarla con il
proprio nome? A questa domanda la baronessa Blixen risponde con il
motto che guidò da un certo punto in poi, la sua vita: je
responderais. Che vuol dire: io ne risponderò; o più
letteralmente, io mi farò respons-abile, abile alla risposta; e di
quello che accade ne porterò il peso, assumendolo come ciò a cui
devo rispondere. Forma paradossale di moralità, moralità di
«spiriti liberi», questa: che non risponde né a Dio, né alla
società. Ma elabora piuttosto un codice alla Hemingway, del
cacciatore e del torero. E non a caso questi «spiriti liberi»
(Karen Blixen; e il marito Bror, amico di Hemingway che ne fece il
ritratto in quello stupendo racconto Breve è la vita felice di
Francis Macomber; e l’amante Denys Finch-Hatton, da cui Karen -
Tania riprese il motto) hanno bisogno di un orizzonte libero; e vanno
in Africa. Lì, in disparte, inattuali, vivendo (e scrivendo, nel
caso della Blixen), come se il novecento non fosse accaduto, tuttavia
del loro secolo interpretando un tratto fondamentale — che solo
coloro che non furono a casa nel loro tempo (come finemente
interpreta la Stein) poterono sentire — e cioè che l’evento
centrale, con cui gli uomini di questo secolo avrebbero prima o poi
dovuto fare i conti, era la perdita. Per loro non invano era stata
pronunciata la morte di Dio. La gaya scienza di cui dovettero
far tesoro era precisamente questo sapere; non c’era più un padre,
né una patria, né un principio a cui rispondere. Il mondo
aristocratico del padri e degli dei era morto: la morale dell’uomo
comune avrebbe (o aveva già?) vinto.
In termini personali,
questo fu il problema della Blixen. I racconti che in tarda età
(come Sara partorisce Isacco) lei scrive (di qui il nome Isak che
Karen si sceglie) sono la sua gaya scienza. Gaya è la tonalità di
questa conoscenza (che è propriamente conoscenza del dolore della
perdita: perdita, in ordine di importanza per lei, dell’Africa,
dell’amante, del figlio mai nato, del marito), perché dopotutto
Karen è della razza del conquistatori: dei politropoi, che
astuti, versatili, maliziosi, troppo conoscono e hanno conosciuto per
ripiegare verso li lamento, o la malinconia.
Con la Blixen è come se
straordinariamente Ulisse si trasformasse In Omero; o forse è
proprio questo il narratore? colui che avendo molto viaggiato e di
molte cose avendo fatto esperienza, molte storie può raccontare?
Questa metànoia del viaggiatore in narratore è precisamente ciò
che accade alla Blixen; metànoia che ella celebra con il nuovo
battesimo all’età di oltre quarant’anni. Nasce così nel 1934
Isak Blixen con durezza estrema, sì che pieni di lacrime furono
piuttosto i suoi giorni; e Dinesen — il nome del padre (come lei
scrittore e viaggiatore), di cui Karen fu la preferita e la prescelta
— ne portò con coraggio in eredità almeno due castighi:
l’inquietudine, e la sifilide.
Non che nel suoi
racconti, naturalmente, Isak Dinesen parli della vita di Karen
Blixen: non ci si potrebbe immaginare niente di più irrealistico di
più inattuale dei romantici scherzi e capricci che alla narratrice
piace inventare: niente di più stravagante. Semplicemente, in queste
storie, nel loro ricercato disegno, sempre si ritaglia ciò che
potremmo chiamare l’essenziale di quella vita.
L’essenziale per Karen
Blixen (è questo il racconto che ella affida, come Amleto morente la
sua dying voice a Orazio, a Isak Dinesen di tramandare) è che
ogni vita è fatta dagli ostacoli che incontra, da come una vita si
dispone a scavalcare, aggirare, o soccombere di fronte all’opaca
resistenza del reale. È così che un’esistenza si costruisce, e
costruendosi fila un tessuto, o testo — le cui maglie sono le
parole che diamo ai movimenti che facciamo per aggiustarci, o
rifiutarci alla vita stessa, al suo gioco crudele: crudele
semplicemente perché in mano a un altro — che non conosciamo,
malgrado a volte tentiamo di familiarizzarlo attraverso dei nomi.
Con una consapevolezza
tuttavia, che il nostro virtuosismo non è infinito: che non tutto
possiamo aggirare, e superare, come il versatile Ulisse: perché in
verità (la storia della vita di Karen Blixen lo dimostra), una vita
è segnata anche da ciò a cui non può rinunciare.
La storia che Judith
Thurman in tale dettaglio, con tale intelligenza, e in modo così
esauriente, ci racconta ci porta a capire fin qui (ed è molto): che
il segreto agente, l’oscuro motore che mette in moto e agisce la
vita della Blixen — la forza che la fa essere quella vita li,
assolutamente unica, singolare, irripetibile — è da cercare
precisamente in ciò da cui questa vita non si è saputo staccare.
Del suo corpo Karen
Blixen, vivendo, ha potuto rifare quasi tutto; in certo senso, ogni
vita assomma a questa manipolazione, alla creazione di un corpo
artificiale, fittizio; tanto lontano dal corpo naturale quanto il
nostro personale vituosismo o arte può concedere. Ciò che non
riusciremo mai a rifare tuttavia, forse è precisamente questo il
tratto puro che determina lo stile o il portamento di una vita.
Io nella Blixen
identifico questo punto ombelicale nel tratto anoressico: che è il
modo di colei a cui fanno questione due atti fondamentali alla vita,
l’introiezione e l’assimilazione, assommati in quel gesto, per
lei pericoloso oltre ogni dire, del nutrimento. Sì che intorno alla
negazione di questi atti «naturali, e «bassi», la Blixen elabora
(leggere la Thurman per credere) le sofisticate procedure del suo
stile di vita; quegli elaborati rituali di difesa, che la difendono
essenzialmente da una incapacità a rinunciare un ideale: che la vita
sia tutta conquista, e non abbia a che fare con la rinuncia e con la
perdita.
È intorno a questo gesto
di rifiuto che io vedo costruirsi la vita di Karen Blixen; e quando
questo rifiuto si allenta, e la perdita viene accettata (e la
catastrofe accade in proporzioni davvero cosmogoniche, per lei!),
allora io vedo fiorire la grande arte di Isak Dinesen, la sua risata
divina: come di chi sa perché l’ha provato, che a tutto si può
rinunciare. Così finalmente libera, nella sua voce ora risuona
l’oblio di sé; che solo concede quest'ultima perfezione, che è la
gioia dei suoi racconti. Godimento impersonale e assoluto, perché
non c’è io nella gioia di quella scrittura: ma solo celebrazione
dell’essere: amor fati
Per questo Isak Dinesen è
solo una conteuse: moi, je suis une conteuse, rien qu'en
une conteuse, lei dirà; e non scriverà mai un romanzo. Perché
solo nel racconto si realizza in assoluta purezza quella gioia
anonima che è manifestazione nell’aneddoto del destino (anecdotes
of destiny, lei chiama i suoi racconti più belli): apparizione
allegorica del significato nell’ anonimo dispiegarsi della vicenda
umana. Senza personaggi «credibili», senza Bildung «verosimile»,
il racconto non racconta di nessuna formazione: in esso non v’è
nessuna finzione di sviluppo, di progresso di educazione della
coscienza (falsi idoli del secolo borghese). V’è solo l'evento che
nel suo accadere mostra l’uomo Intero, e dell’uomo una qualche
verità anonima, assoluta; che allegoricamente riguarda tutti. E v’è
una parola - emblema, che non discorre ma raffigura: dà, di ogni
verità, l’equivalente figurale. È nella puntualità sintetica di
questa scrittura araldica che risiede il fascino del tutto inattuale,
e profondamente originale, di una esperienza di vita e di scrittura,
così dissonanti rispetto alle vite e alle scritture che le furono
contemporanee.
Questa biografia porta in
rilievo precisamente questo tratto arcaico-figurale della Blixen.
Richiesta di dirci chi è, la baronessa Blixen — alias Isak Dinesen
— la conteuse non esibisce nessuna carta d’identità; ma
risponde: «Bene, vi narrerò una storia». E comincia....
“il manifesto”, 28
gennaio 1984
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