Riprendiamo
un articolo di Anna Folli, pubblicato su La Repubblica, in cui si ricorda una
scrittrice dimenticata dall’ Italia democristiana, feroce nel suo perbenismo
ipocrita,e da una sinistra che più che a Majakovskij guardava a De Amicis.
Anna Folli - Riscoprendo Renata Viganò
“scrittrice combattente”
Il suo
“posto nella classe operaia” fu costretta a prenderlo per via dei rovesci della
vita: sognava di diventare medico e invece, fallita la ditta del padre e
abbandonata la scuola, si ritrovò a fare l’inserviente e l’infermiera. Prima
della lotta partigiana e della breve stagione dei successi letterari, Renata
Viganò era già una combattente. Resisteva alle difficoltà economiche nello
stesso modo in cui, anni dopo, avrebbe opposto la sua tenacia ai giudizi del
partito. Messa in ombra, si ostinò a scrivere e pubblicò, circondata
dall’indifferenza generale, Una storia di ragazze.
Il
cinquantenario di quel romanzo, caduto l’anno scorso, è trascorso quasi
inosservato. Scrittrice di talento, Renata Viganò è stata dimenticata. Eppure
meriterebbe ben altro destino. Andrebbe ricordata, magari partendo da quella
piccola foto in bianco e nero del 1950 dov’è sorridente col suo grembiule a
pettorina, seduta alla vecchia Olivetti insieme al gatto. È il tempo in cui è
l’autrice di successo de L’Agnese va a morire, il romanzo che l’anno prima ha
vinto il Premio Viareggio, è una firma di richiamo dell’Unità alla vigilia di
una lunga appassionata collaborazione con Noi Donne.
Togliatti ha
insistito per qualche pagina autobiografica da pubblicare su Rinascita
(novembre 1949) e lei ha rievocato il suo incontro col comunismo, cioè col
compagno Antonio Meluschi che un giorno sarebbe stato il Comandante e il
Dottore nell’epopea partigiana, ma che in quel dicembre 1935 era solo un
ragazzo allo sbando.
E poi,
andando a ritroso. A vent’anni si ritrova orfana, povera e sola. Nella casa che
riesce a salvare costruisce il rifugio per una vita oscura. Eppure ha una certa
cultura, ha fatto studi classici, pubblicato versi garbati, addirittura un
romanzo che ora rinnega come dannunziano: Il lume spento (1933). Col compagno
autodidatta, scrittore e lettore onnivoro, gli orizzonti si spalancano e lo
stile diventa quello che conosciamo, dell’Agnese di tutti i racconti che poi
scrive con spirito di combattente, discontinuo, espressivo all’eccesso o
pedestre, comunque sia efficace e spesso potente.
Gli anni
d’oro sono quelli dal 1951 al 1955, da quando inizia la rubrica “Fermo Posta”
su Noi Donne fino al congedo, anzi al licenziamento. Le lettere che arrivano
sempre più numerose le danno il senso della separatezza dell’universo
femminile. Benché si sforzi di dare speranza senza dimenticare di essere
compagna e bolscevica un giorno inciampa sulla questione religiosa. Ma sì,
risponde a una lettrice angosciata, fai battezzare il tuo bambino anche se il
babbo è comunista, «fai contenta la tua mamma! ». La polemica è immediata come
la censura di Pietro Secchia che in tre fogli dattiloscritti la richiama ai
suoi doveri di propaganda (23 dicembre 1953). Progressivamente è messa in
ombra. Protesta di essere sempre la stessa al tempo della destalinizzazione,
della rivoluzione d’Ungheria. Ma le collaborazioni che ricominciano non sono
sistematiche né importanti, il suo nome è fuori corso.
Arriva alla
soglia degli anni Sessanta col sogno di un ultimo romanzo. Una storia di
ragazze esce inosservato nel 1962 insieme al Giardino dei Finzi Contini di
Giorgio Bassani destinato a ben altra gloria, boicottato dal Partito e
certamente fuori epoca. Leggendolo a mezzo secolo di distanza, si sente bene la
traccia fresca del Neorealismo, ma questo italiano pulito e sensibile che
costruisce punto per punto la protagonista e i comprimari e i loro ambienti
tiene stretti alla pagina.
L’apertura è
sulla giovanissima Miranda che dall’Appennino emiliano scende a servire in
città. La nebbia all’alba, il babbo con la capparella e le scarpe chiodate, la
piazza, la corriera, gli uomini al caffè stanno nel mondo di prima, mentre li
nota ne ha già nostalgia e piange. A Bologna segue l’amica Olga, “Olghina” al
paese, irriconoscibile ed emancipata. Buio e scalini rotti, uno stanzone e
dietro una tenda un comò, una seggiola e il letto. Incombe la signora Erminia,
mezzana grassa che commercia negli “America-stracci”. La sera nella casa dei
padroni comincia la sua vita nuova, in una famiglia piccolo borghese di gente
pretenziosa ma in bolletta dove si gela per mancanza di affetti. Fuori c’è la
modernità che stordisce, le strade e i portici, i caffè illuminati con gli specchi,
soprattutto il cinematografo dove un uomo la corteggia. Si chiama Pino, afferma
di essere studente, di possedere un podere e la motocicletta, anche troppo per
lei. Dopo qualche appuntamento la porta nei calanchi, la rovescia sui sassi e
la possiede con brutalità. E nello sperdimento che segue la inchioda in una
maniera che non comprende: «Non era mica la prima volta, vero?». Da qui il
fraintendimento e i silenzi che porteranno Miranda alla vergogna e alla
coscienza di sé. Incinta e abbandonata, il suo pensiero muto le rivela quello
che già sa. Non era amore, solo soggezione profonda, l’eterna paura che aveva
anche l’Agnese. E la camera, quel letto dietro la tenda nello stanzone della
signora Erminia, la pagava lei. Tra abortire e continuare la gravidanza sceglie
di darsi la morte. La salva il giovane fratello comunista, Alfio, che è venuto
in città a fare il meccanico. Dormirà da lui in garage sulla sua branda, tanto
ormai «il bambino è fatto e non si può disfare». Un finale didascalico per un
romanzo che merita tanto, peccato. Ma Renata Viganò era anche così, borghese,
moralista, e alquanto prude…
(Da: La
Repubblica del 17 gennaio 2013)
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