Questa mattina prendo dal sito http://www.leparoleelecose.it/
un bel pezzo di Italo Testa dedicato alla poesia russa:
Italo Testa - “Ho
freddo, sono felice”
Russa nell’anima, Tatjana
Non sapendo il perché lei stessa,
L’inverno russo ama
Nella sua gelida bellezza
Non sapendo il perché lei stessa,
L’inverno russo ama
Nella sua gelida bellezza
Con queste parole, tratte dall’Oneghin, il
romanzo in versi di Alexsandr Puskhin (nella traduzione di Ettore Lo Gatto), si
definisce lo spazio della poesia russa. Ed è uno spazio bianco, ghiacciato. Nello
sguardo di Tatjana, la protagonista femminile del romanzo – la “silenziosa,
selvaggia e triste” ragazza di provincia, romanticamente innamorata di Eugenio
Oneghin – c’e’ un campo bianco: la gelida bellezza dell’inverno russo.
Vorrei pensare con voi alla poesia russa come ad un
prolungamento di quello sguardo. Una meteora che si stacca dal sogno profetico
di Tatjana, nel quinto capitolo dell’Oneghin, il vero fulcro simbolico
dell’opera di Puskhin, e dell’intera tradizione letteraria che da questo capolavoro
ha tratto alimento. Vorrei guardare con voi alla poesia come alla neve.
Nel sogno, Tatjana si avvia per un campo nevoso. Ma ad
un tratto un cumulo di neve si mette in movimento, e da esso si materializza un
enorme orso arruffato, che porge la sua zampa a Tatjana e l’aiuta ad
attraversare un ponte, per poi seguirla implacabile, come un paggio irsuto e
spaventevole.
Con Puskhin la poesia russa prende avvio nella la
traversata di un deserto di ghiaccio, sotto un vortice di neve, che è insieme,
come l’artiglio dell’orso, una minaccia ed un’offerta. Un dono inquietante.
Profetici, i versi di Puskhin definiscono il campo magnetico in cui sarà
attratta anche la grande poesia russa del Novecento.
Non a caso è con una bufera di neve, che spazza le
strade di Pietrogrado percorse da manipoli di bolscevichi, che si apre
simbolicamente il secolo sovietico in un altro grande testo profetico, il
poemetto I dodici, di Aleksandr Blok.
Cupa sera
Neve bianca.
La bufera
i viandanti abbatte e sfianca.
La bufera
sulla terra intera!
Neve bianca.
La bufera
i viandanti abbatte e sfianca.
La bufera
sulla terra intera!
Così iniziano I dodici (nella traduzione di
Renato Poggioli). Qui il ghiaccio, la neve e la notte diventano quasi personaggi
naturali, creature mitologiche che incombono minacciose come orde barbariche
sullo scenario storico della rivoluzione d’ottobre.
Qui, alla testa dei dodici bolscevichi sbandati,
smarriti nella bufera, si materializza fulmineamente un enigmatico Cristo
imperlato di ghiaccio, che cammina lieve nel vortice di neve.
E’ nel “cuore di questo secolo”, in questa tempesta
che ha temprato il suo sguardo poetico Osip Mandel’stam, lo scrittore di
origine ebraica, cresciuto a Pietroburgo, nella cui voce si è cristallizzata in
forma più pura la poesia russa del novecento, raccogliendo l’eredità di Puskhin
e di Blok.
“Mi incalza alle spalle il secolo cane-lupo”, scriveva
Mandel’stam dall’esilio. Su quella piana gelata la storia avanza con la furia
di una devastazione naturale. Come un branco animale sulle sue tracce.
Braccato dal secolo. Emarginato dal regime staliniano,
oggetto di campagne denigratorie, quindi dal 1934 mandato al confino per tre
anni. Costretto ad un esistenza nomade, a continue peregrinazioni da un luogo
all’altro. Quindi di nuovo arrestato nel 1938 e condannato alla deportazione.
Internato, infine, in un campo di transito nei pressi di Vladivostok, per
essere inviato in un lager siberiano, dove non giungerà mai.
Sto nel cuore del secolo; incerta è la strada e ogni
mèta col tempo sfuma all’orizzonte:
mèta col tempo sfuma all’orizzonte:
Scriveva Mandel’stam nel 1936 dall’esilio. Ma il dato
biografico ci lascia ancora infinitamente distanti dal segno poetico della sua
esistenza. Di questo Mandel’stam era ben consapevole, se addirittura arrivò a
scrivere, con un’ironia tragica, di essere grato alla rivoluzione d’ottobre per
avergli “tolto la “biografia”; per averlo privato per sempre di ogni “sicurezza
spirituale” e “rendita culturale”; per averlo sprofondato nel baratro di uno
stato di incertezza estrema: in una tormenta in cui ogni strada e ogni meta
sfumano.
Minaccia e dono. Il deserto di ghiaccio, la zampata
dell’orso, le zanne del lupo sono anche un’offerta, enigmatica e perentoria. Un
banco di prova su cui temprare lo sguardo. A tu per tu con il destino. Come in
questi versi, scritti nei giorni del confino a Voronez (nella traduzione di
Remo Faccani):
A tu per tu, il gelo in volto io fisso:
lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla.
Stirata, pieghettata senza grinze,
respirante miracolo, pianura.
E in povertà bianco-àmido, il sole strizza gli occhi -
il suo strizzare è tranquillo, placato…
Foreste a dieci cifre: simili a quelle… E crocchia
- pane fresco – la neve dentro il mio sguardo, intatta.
lui fissa il nulla, e io fisso dal nulla.
Stirata, pieghettata senza grinze,
respirante miracolo, pianura.
E in povertà bianco-àmido, il sole strizza gli occhi -
il suo strizzare è tranquillo, placato…
Foreste a dieci cifre: simili a quelle… E crocchia
- pane fresco – la neve dentro il mio sguardo, intatta.
Mandel’stam. Privato di una biografia, azzerato dal
vento gelido della storia. Ridotto ad un vivente nulla. Eppure, proprio dal
punto zero di uno sguardo che “fissa dal nulla”, la distesa di neve si rivela
un “respirante miracolo”.
Il lenzuolo astratto della neve, che ricopre le
molteplici forme del mondo, non è un telo funebre, ma un “bianco-àmido”,
sorgivo. Nel nulla si manifesta il dono della povertà, del non-potere.
Ho freddo, sono felice, scrive altrove Mandel’stam. Nell’occhio in cui la
neve, intatta, crocchia come pane fresco, fragrante, si prolunga così lo
sguardo di Tatjana sulla gelida bellezza dell’inverno russo, aprendosi alla
felicità inattesa, alla stupefazione del mondo. Così, dal suo confino di
Voronez, Mandel’stam ci consegna queste parole:
Per qualche tempo ancora proverò meraviglia
del mondo, dei bambini e della neve,
ma come una strada è aperto il mio sorriso,
non docile, non servo.
del mondo, dei bambini e della neve,
ma come una strada è aperto il mio sorriso,
non docile, non servo.
Quando penso alla poesia russa, vedo quel sorriso
aperto, “non docile e non servo”: il sorriso di Mandel’stam.
Quando penso alla poesia russa, torno con la mente
alla traversata del deserto di ghiaccio dell’astrazione, ma anche alla
meraviglia della neve. Alla minaccia e all’offerta.
Quando penso alla poesia russa, sento risuonare le
parole di Brodskij, lo scrittore che, sulla traccia di Mandel’stam, ha visto
nell’esilio del gelo la condizione metafisica della poesia:
Il freddo mi ha educato e mi ha messo una penna fra le
dita…
Così scriveva Brodskij. Che cos’e l’apprendistato del
gelo? A quale sguardo ci può educare? A questa domanda ognuno non può che rispondere
da solo, dal proprio angolo di incidenza.
(intervento tenuto al Teatro Franco Parenti, serata
speciale di poesia russa, 19 marzo 2012)
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